IX. Paurosi prodigi e terrore in Italia per la venuta de' francesi. Improvvisa
incertezza del re di Francia per l'opposizione della corte alla spedizione in
Italia. Incitamenti del cardinale di San Pietro in Vincoli. Il passaggio delle
Alpi pel Monginevra e l'entrata in Asti di Carlo VIII. Suo ritratto fisico e
morale.
E già non solo
le preparazioni fatte per terra e per mare ma il consentimento de' cieli e
degli uomini pronunziavano a Italia le future calamità. Perché quegli che fanno
professione d'avere, o per scienza o per afflatto divino, notizia delle cose
future, affermavano con una voce medesima apparecchiarsi maggiori e più spesse
mutazioni, accidenti più strani e più orrendi che già per molti secoli si
fussino veduti in parte alcuna del mondo. Né con minore terrore degli uomini
risonava per tutto la fama essere apparite, in varie parti d'Italia, cose
aliene dall'uso della natura e de' cieli. In Puglia, di notte, tre soli in
mezzo 'l cielo ma nubiloso all'intorno e con orribili folgori e tuoni; nel
territorio di Arezzo, passati visibilmente molti dì per l'aria infiniti uomini
armati in su grossissimi cavalli, e con terribile strepito di suoni di trombe e
di tamburi; avere in molti luoghi d'Italia sudato manifestamente le immagini e
le statue sacre; nati per tutto molti mostri d'uomini e d'altri animali; molte
altre cose sopra l'ordine della natura essere accadute in diverse parti: onde
di incredibile timore si riempievano i popoli, spaventati già prima per la fama
della potenza de' franzesi, della ferocia di quella nazione, con la quale (come
erano piene l'istorie) aveva già corso e depredato quasi tutta Italia,
saccheggiata e desolata con ferro e con fuoco la città di Roma, soggiogato
nell'Asia molte provincie; né essere quasi parte alcuna del mondo che in
diversi tempi non fusse stata percossa dall'armi loro. Dava solamente agli
uomini ammirazione che in tanti prodigi non si dimostrasse la stella cometa, la
quale gli antichi reputavano certissimo messaggiere della mutazione de' regni e
degli stati.
Ma a' segni
celesti, predizioni, pronostichi e prodigi accresceva ogni dì più la fede
l'appropinquarsi degli effetti; perché Carlo, continuando nel suo proposito,
era venuto a Vienna città del Dalfinato, non potendo rimuoverlo dal passare
personalmente in Italia né i prieghi di tutto il regno né la carestia di
danari, che era tale che e' non ebbe modo a provedere a' presenti bisogni se
non con lo impegnare, per non molta quantità di danari, certe gioie prestategli
dal duca di Savoia, dalla marchesana di Monferrato e da altri signori della
corte. Perché la pecunia che aveva raccolta prima, delle entrate di Francia, e
quella che gli era stata prestata da Lodovico, n'aveva spesa parte nelle armate
di mare, nelle quali si collocava da principio speranza grande della vittoria,
parte, innanzi si movesse da Lione, donata inconsideratamente a varie persone;
né essendo allora i prìncipi pronti a estorquere danari da' popoli, come dipoi,
conculcando il rispetto di Dio e degli uomini, ha insegnato l'avarizia e le
immoderate cupidità, non gli era facile l'accumularne di nuovo. Tanto piccoli
furono gli ordini e i fondamenti di muovere una guerra così grave! guidandolo
più la temerità e l'impeto che la prudenza e il consiglio. Ma come spesso
accade che, quando si viene a dare principio all'esecuzione delle cose nuove,
grandi e difficili, benché già deliberate, si rappresentano pure all'intelletto
degli uomini le ragioni le quali si possono considerare in contrario; essendo
il re in procinto di partirsi, anzi camminando già verso i monti le genti
d'arme, sorse uno grave mormorìo per tutta la corte, mettendo in considerazione
chi le difficoltà ordinarie di tanta impresa, chi il pericolo della infedeltà
degli italiani, e sopra tutti gli altri di Lodovico Sforza, ricordando l'avviso
venuto da Firenze delle sue fraudi (e per avventura tardavano ad arrivare certi
danari che s'aspettavano da lui): in modo che non solo contradicevano
audacemente (come interviene quando pare che 'l consiglio si confermi
dall'evento delle cose) quegli che avevano sempre dannata questa impresa; ma
alcuni di coloro che ne erano stati principali confortatori, e tra gli altri il
vescovo di San Malò, cominciorno non mediocremente a vacillare: e
ultimatamente, pervenuto agli orecchi del re questo romore, fece movimento tale
in tutta la corte e nella mente sua medesima, e tale inclinazione di non
procedere più oltre, che subito comandò che le genti si fermassino; e perciò
molti signori i quali già erano in cammino publicandosi essere deliberato che
più non si passasse in Italia, se ne ritornorono alla corte. E andava (come si
crede) innanzi facilmente questa mutazione, se 'l cardinale di San Piero a
Vincola, fatale instrumento, e allora e prima e poi, de' mali d'Italia, non
avesse con l'autorità e veemenza sua riscaldato gli spiriti quasi addiacciati,
e ridirizzato l'animo del re alla deliberazione di prima; riducendogli non solo
in memoria le ragioni le quali a sì gloriosa espedizione eccitato l'aveano, ma
proponendogli innanzi agli occhi con gravissimi stimoli la infamia la quale per
tutto il mondo dalla leggiera mutazione di così onorato consiglio gli
perverrebbe. E per che cagione avere adunque, con la restituzione delle terre
del contado d'Artois, indebolito da quella parte le frontiere del regno suo?
per che cagione, con tanto dispiacere non meno della nobiltà che de' popoli,
avere aperto al re di Spagna, dandogli la contea di Rossiglione, una delle
porte di Francia? Solere consentire simili cose gli altri re o per liberarsi da
urgentissimi pericoli o per conseguirne grandissime utilità. Ma quale
necessità, quale pericolo avere mosso lui? quale premio aspettarne? quale
frutto risultargliene se non l'avere comperato con carissimo prezzo una
vergogna molto maggiore? Che accidenti essere nati, che difficoltà sopravenute,
che pericoli scopertisi, dopo l'avere publicato la impresa per tutto il mondo?
e non più tosto crescere manifestamente ognora la speranza della vittoria?
essendo già restati vani i fondamenti in su i quali gli inimici aveano posta
tutta la speranza della difesa: perché e l'armata aragonese, rifuggita
vituperosamente, dopo avere data invano la battaglia a Portovenere, nel porto
di Livorno, non potere fare più frutto alcuno contro a Genova, difesa da tanti
soldati e da armata più potente di quella; e l'esercito di terra, fermatosi in
Romagna per la resistenza di piccolo numero di franzesi, non avere ardire di
passare più innanzi. Che farebbono come corresse la fama per tutta Italia che
il re con tanto esercito avesse passato i monti? che tumulti si susciterebbono
per tutto? In che sbigottimento si ridurrebbe il pontefice come dal proprio
palagio vedesse l'armi de' Colonnesi in sulle porte di Roma? in che spavento
Piero de' Medici, avendo inimico il sangue suo medesimo, la città devotissima
del nome franzese e cupidissima di recuperare la libertà oppressa da lui? Non
potere cosa alcuna ritenere l'impeto del re insino a' confini del regno di
Napoli, dove accostandosi sarebbono i medesimi tumulti e spaventi, né altro per
tutto che o fuga o ribellione. Temere forse che avessino a mancargli i danari?
i quali, come si sentisse lo strepito dell'armi sue, il tuono orribile di
quelle impetuose artiglierie, gli sarebbono portati a gara da tutti gli
italiani; e se pure alcuno si mettesse a resistere, le spoglie le prede le
ricchezze de' vinti gli nutrirebbono l'esercito: perché in Italia, assuefatta
per molti anni più alle immagini delle guerre che alle guerre vere, non era
nervo da sostenere il furore franzese. Però, quale timore quale confusione
quali sogni quali ombre vane essere entrate, nel petto suo? Dove essere perduta
sì presto la sua magnanimità? dove quella ferocia con la quale, quattro dì
prima, si vantava di vincere tutta Italia unita insieme? Considerasse non
essere più in potestà propria i consigli suoi; troppo oltre essere andate le cose,
per l'alienazione delle terre, per gl'imbasciadori uditi mandati e scacciati,
per tante spese fatte, per tanti apparati, per la publicazione fatta per tutto,
per essere già condotta la sua persona quasi in sull'Alpe. Strignerlo la
necessità, quando bene la impresa fusse pericolosissima, a seguitarla; poi che
tra la gloria e l'infamia, tra il vituperio e i trionfi, tra l'essere o il più
stimato re o il più dispregiato di tutto il mondo, non gli restava più mezzo
alcuno. Che dunque dovere fare a una vittoria, a uno trionfo già preparato e
manifesto?
Queste cose,
dette in sostanza dal cardinale ma, secondo la sua natura, più con sensi
efficaci e con gesti impetuosi e accesi che con ornato di parole, commossono
tanto l'animo del re che, non uditi più se non quegli che lo confortavano alla
guerra, partì il medesimo dì da Vienna, accompagnato da tutti i signori e
capitani del reame di Francia, eccetto il duca di Borbone, al quale commesse in
luogo suo l'amministrazione di tutto il regno, e l'ammiraglio e pochi altri
deputati al governo e alla guardia delle provincie più importanti; e passando
in Italia per la montagna di Monginevra, molto più agevole a passare che quella
del Monsanese, e per la quale passò anticamente ma con incredibile difficoltà
Annibale cartaginese, entrò in Asti il dì nono di settembre dell'anno mille
quattrocento novantaquattro, conducendo seco in Italia i semi di innumerabili
calamità, di orribilissimi accidenti, e variazione di quasi tutte le cose:
perché dalla passata sua non solo ebbono principio mutazioni di stati,
sovversioni di regni, desolazioni di paesi, eccidi di città, crudelissime
uccisioni, ma eziandio nuovi abiti, nuovi costumi, nuovi e sanguinosi modi di
guerreggiare, infermità insino a quel dì non conosciute; e si disordinorono di
maniera gli instrumenti della quiete e concordia italiana che, non si essendo
mai poi potuta riordinare, hanno avuto facoltà altre nazioni straniere e
eserciti barbari di conculcarla miserabilmente e devastarla. E per maggiore infelicità,
acciocché per il valore del vincitore non si diminuisseno le nostre vergogne,
quello per la venuta del quale si causorno tanti mali, se bene dotato sì
amplamente de' beni della fortuna, spogliato di quasi tutte le doti della
natura e dell'animo.
Perché certo è
che Carlo, insino da puerizia, fu di complessione molto debole e di corpo non
sano, di statura piccolo, di aspetto, se tu gli levi il vigore e la degnità
degli occhi, bruttissimo, e l'altre membra proporzionate in modo che e' pareva
quasi più simile a mostro che a uomo: né solo senza alcuna notizia delle buone
arti ma appena gli furno cogniti i caratteri delle lettere; animo cupido di
imperare ma abile più a ogn'altra cosa, perché aggirato sempre da' suoi non
riteneva con loro né maestà né autorità; alieno da tutte le fatiche e faccende,
e in quelle alle quali pure attendeva povero di prudenza e di giudicio. Già, se
alcuna cosa pareva in lui degna di laude, risguardata intrinsicamente, era più
lontana dalla virtù che dal vizio. Inclinazione alla gloria ma più presto con
impeto che con consiglio, liberalità ma inconsiderata e senza misura o
distinzione, immutabile talvolta nelle deliberazioni ma spesso più ostinazione
mal fondata che costanza; e quello che molti chiamavano bontà meritava più
convenientemente nome di freddezza e di remissione di animo.
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