XIV. Incitamenti di Lorenzo e di Giovanni de' Medici a Carlo VIII perché
s'accosti a Firenze. Aumenta lo sdegno di Carlo contro Piero de' Medici.
L'esercito francese passa l'Appennino. Gli svizzeri di Carlo prendono Fivizzano
compiendo stragi. Le fortezze di Serezana e di Serezanello. Malumore in Firenze
contro Piero de' Medici. Questi consegna fortezze de' fiorentini a Carlo.
L'esercito aragonese si ritira dalla Romagna e la flotta dal porto di Livorno.
Al re, il dì
medesimo che si mosse da Piacenza, venneno Lorenzo e Giovanni de' Medici; i
quali, fuggiti occultamente delle loro ville, facevano instanza che 'l re si
accostasse a Firenze, promettendo molto della volontà del popolo fiorentino
inverso la casa di Francia, e non meno dell'odio contro a Piero de' Medici.
Contro al quale era, per nuove cagioni, augumentato non poco lo sdegno del re:
perché avendo mandato da Asti uno imbasciadore a Firenze a proporre molte
offerte se gli consentivano il passo e in futuro si astenevano dall'aiutare
Alfonso, e in caso perseverassino nella prima deliberazione, molte minaccie; e
avendogli, per fare maggiore terrore, commesso che se subito non si
determinavano si partisse; gli era stato, cercando scusa del differire,
risposto che, per essere i cittadini principali del governo, come in quella stagione
è costume de' fiorentini, alle loro ville, non potevano dargli risposta certa
così subito, ma che per uno imbasciadore proprio farebbono presto intendere al
re la mente loro.
Non era mai
stato nel consiglio reale messo in disputazione che fusse più tosto da
dirizzarsi con l'esercito per il cammino il quale, per la Toscana e per il
territorio di Roma, conduce diritto a Napoli che per quello che, per la Romagna
e per la Marca, passato il fiume del Tronto, entra nell'Abruzzi; non perché non
confidassino di cacciare le genti aragonesi, le quali con difficoltà
resistevano a Obignì, ma perché pareva cosa indegna della grandezza di tanto re
e della gloria delle armi sue, essendosi il pontefice e i fiorentini dichiarati
contro a lui, dare causa agli uomini di pensare che egli sfuggisse quel cammino
perché si diffidasse di sforzargli; e perché si stimava pericoloso il fare la
guerra nel reame di Napoli lasciandosi alle spalle inimica la Toscana e lo
stato ecclesiastico: e si deliberò di passare l'Apennino più tosto per la
montagna di Parma, come Lodovico Sforza, desideroso di insignorirsi di Pisa,
aveva insino in Asti consigliato, che per il cammino diritto di Bologna. Però
l'antiguardia, della quale era capitano Giliberto monsignore di Mompensieri
della famiglia di Borbone, del sangue de' re di Francia, seguitandola il re col
resto dell'esercito, passò a Pontriemoli, terra appartenente al ducato di
Milano, posta al piè dello Apennino in sul fiume della Magra; il quale fiume
divide il paese di Genova, chiamato anticamente Liguria, dalla Toscana. Da
Pontriemoli entrò Mompensieri nel paese della Lunigiana, della quale una parte
ubbidiva a' fiorentini, alcune castella erano de' genovesi, il resto de'
marchesi Malespini; i quali, sotto la protezione chi del duca di Milano chi de'
fiorentini chi de' genovesi, i loro piccoli stati mantenevano. Unironsi seco in
quegli confini i svizzeri che erano stati alla difesa di Genova, e
l'artiglierie venute per mare a Genova e dipoi alla Spezie; e accostatosi a Fivizano,
castello de' fiorentini, dove gli condusse Gabriello Malaspina marchese di
Fosdinuovo loro raccomandato, lo presono per forza e saccheggiorno, ammazzando
tutti i soldati forestieri che vi erano dentro e molti degli abitatori: cosa
nuova e di spavento grandissimo a Italia, già lungo tempo assuefatta a vedere
guerre più presto belle di pompa e di apparati, e quasi simili a spettacoli,
che pericolose e sanguinose.
Facevano i
fiorentini la resistenza principale in Serezana, piccola città stata da loro
molto fortificata; ma non l'avevano proveduta contro a inimico così potente
come sarebbe stato necessario, perché non v'avevano messo capitano di guerra
d'autorità né molti soldati, e quegli già ripieni di viltà per la fama sola
dello approssimarsi l'esercito franzese: e nondimeno non si riputava di facile
espugnazione, massimamente la fortezza; e molto più Serezanello, rocca molto
munita, edificata in sul monte sopra Serezana. Né poteva dimorare l'esercito in
questi luoghi molti dì, perché quel paese sterile e stretto, rinchiuso tra 'l
mare e il monte, non bastava a nutrire tanta moltitudine; né potendo venirvi
vettovaglie se non di luoghi lontani, non potevano essere a tempo al bisogno
presente. Da che parea che le cose del re potessino facilmente ridursi in non
piccole angustie; perché, se bene non gli potesse essere vietato che,
lasciatasi indietro la terra o la fortezza di Serezana e Serezanello,
assaltasse Pisa, o per il contado di Lucca, la quale città per mezzo del duca
di Milano aveva occultamente deliberato di riceverlo, entrasse in altra parte
del dominio fiorentino, nondimeno malvolentieri si riduceva a questa
deliberazione, parendogli che se non espugnava la prima terra che se gli era
opposta, si diminuisse tanto della sua riputazione che tutti gli altri
piglierebbono facilmente animo a fare il medesimo. Ma era destinato che, o per
beneficio della fortuna o per ordinazione di altra più alta potestà (se però
queste scuse meritano le imprudenze e le colpe degli uomini), a tale impedimento
sopravenisse rimedio subito: imperocché in Piero de' Medici non fu né maggiore
animo né maggiore costanza nelle avversità che fusse stata o moderazione o
prudenza nelle prosperità.
Era
continuamente moltiplicato il dispiacere che la città di Firenze aveva da
principio ricevuto dall'opposizione che si faceva al re, non tanto per essere
stati di nuovo sbandeggiati i mercatanti fiorentini di tutto il reame di
Francia quanto per il timore della potenza de' franzesi, cresciuto eccessivamente
come si intese l'esercito avere cominciato a passare l'Apennino, e dipoi la
crudeltà usata nella occupazione di Fivizano. E però da ciascuno era
palesemente detestata la temerità di Piero de' Medici, che senza necessità, e
credendo più a se medesimo e al consiglio di ministri temerari e arroganti ne'
tempi della pace, inutili ne' tempi pericolosi, che a' cittadini amici paterni,
da' quali era stato saviamente consigliato, avesse con tanta inconsiderazione
provocato l'armi d'un re di Francia, potentissimo e aiutato dal duca di Milano;
essendo massime egli imperito delle cose della guerra, e Pisa, città d'animo
inimico, non fortificata e poco proveduta di soldati e di munizioni, e così
tutto il resto del dominio fiorentino mal preparato a difendersi da tanto
impeto, né si dimostrando degli aragonesi, per i quali erano esposti a tanto
pericolo, altro che 'l duca di Calavria, impegnato con le sue genti in Romagna
per la opposizione solo di una piccola parte dell'esercito franzese; e perciò
la patria loro, abbandonata da ognuno, restare in odio smisurato e in preda
manifesta di chi aveva con tanta instanza cercato di non avere necessità di
nuocere loro. Questa disposizione, già quasi di tutta la città, era accesa da
molti cittadini nobili a' quali sommamente dispiaceva il governo presente, e
che una famiglia sola s'avesse arrogato la potestà di tutta la republica; e
questi, augumentando il timore di coloro che da se stessi temevano e dando
ardire a coloro che cose nuove desideravano, avevano in modo sollevato gli
animi del popolo che già cominciava molto a temersi che la città facesse
tumultuazione; incitando ancora più gli uomini la superbia e il procedere
immoderato di Piero, discostatosi in molte cose dai costumi civili e dalla
mansuetudine de' suoi maggiori: donde quasi insino da puerizia era stato sempre
odioso all'universalità de' cittadini, e in modo che è certissimo che il padre
Lorenzo, contemplando la sua natura, si era spesso lamentato con gli amici più
intimi che l'imprudenza e arroganza del figliuolo partorirebbe la ruina della
sua casa. Spaventato adunque Piero dal pericolo il quale prima aveva
temerariamente disprezzato, mancandogli i sussidi promessi dal pontefice e da
Alfonso, occupati per la perdita d'Ostia, per l'oppugnazione di Nettunno e per il
timore dell'armata franzese, si risolvé precipitosamente d'andare a cercare
dagl'inimici quella salute la quale più non sperava dagli amici; seguitando,
come pareva a lui, l'esempio del padre, il quale, essendo l'anno mille
quattrocento settantanove, per la guerra fatta a' fiorentini da Sisto pontefice
e da Ferdinando re di Napoli, ridotto in gravissimo pericolo, andato a Napoli a
Ferdinando, ne riportò a Firenze la pace publica e la sicurtà privata. Ma è
senza dubbio molto pericoloso il governarsi con gli esempli se non concorrono,
non solo in generale ma in tutti i particolari, le medesime ragioni, se le cose
non sono regolate con la medesima prudenza, e se, oltre a tutti gli altri
fondamenti, non v'ha la parte sua la medesima fortuna. Con questa determinazione
partito da Firenze, ebbe, innanzi che arrivasse al re, avviso che i cavalli di
Pagolo Orsino e trecento fanti mandati da' fiorentini per entrare in Serezana
erano stati rotti da alcuni cavalli de' franzesi corsi di qua dalla Magra, e
restati la maggiore parte o morti o prigioni. Aspettò a Pietrasanta il
salvocondotto regio, dove andorno per condurlo sicuro il vescovo di San Malò e
alcun'altri signori della corte; dai quali accompagnato entrò in Serezana il dì
medesimo che il re col resto dell'esercito si unì con l'antiguardia, la quale
accampata a Serezanello batteva quella rocca, ma non con tale progresso che
avessino speranza di espugnarla. Introdotto innanzi al re, e da lui raccolto
benignamente più con la fronte che con l'animo, mitigò non poco della sua
indegnazione col consentire a tutte le sue dimande, che furono alte e
immoderate: che le fortezze di Pietrasanta e di Serezana e Serezanello, terre
che da quella parte erano come chiave del dominio fiorentino, e le fortezze di
Pisa e del porto di Livorno, membri importantissimi del loro stato, si
deponessino in mano del re; il quale per uno scritto di mano propria
s'obligasse a restituirle come prima avesse acquistato il regno di Napoli:
procurasse Piero che i fiorentini gli prestassino dugentomila ducati, e gli
ricevesse il re in confederazione e sotto la sua protezione: delle quali cose,
promesse con semplici parole, si differisse a espedirne le scritture in
Firenze, per la quale città il re intendeva di passare. Ma non si differì già
la consegnazione delle fortezze, perché Piero gli fece subito consegnare quelle
di Serezana, di Pietrasanta e di Serezanello, e pochi dì poi fu per ordine suo
fatto il medesimo di quelle di Pisa e di Livorno; maravigliandosi grandemente
tutti i franzesi che Piero così facilmente avesse consentito a cose di tanta
importanza, perché il re senza dubbio arebbe convenuto con molto minori
condizioni. Né pare in questo luogo da pretermettere quel che argutamente
rispose a Piero de' Medici Lodovico Sforza, che arrivò il dì seguente
all'esercito: perché scusandosi Piero che, essendo andatogli incontro per
onorarlo, l'avere Lodovico fallito la strada era stato cagione che la sua
andata fusse stata vana, rispose molto prontamente: - Vero è che uno di noi ha
fallito la strada, ma sarete forse voi stato quello. - Quasi rimproverandogli
che per non avere prestata fede a' consigli suoi fusse caduto in tante
difficoltà e pericoli. Benché i successi seguenti dimostrorno avere fallito il
cammino diritto ciascuno di loro, ma con maggiore infamia e infelicità di colui
il quale, collocato in maggiore grandezza, faceva professione di essere con la
prudenza sua la guida di tutti gli altri.
La
deliberazione di Piero non solo assicurò il re delle cose della Toscana ma gli
rimosse del tutto gli ostacoli della Romagna, dove già declinavano molto gli
aragonesi. Perché (come è difficile a chi appena difende se stesso dagli
imminenti pericoli provedere nel tempo medesimo a' pericoli degli altri),
mentre che Ferdinando sta sicuro nel forte alloggiamento della cerca di Faenza,
gli inimici ritornati nel contado d'Imola, poiché con parte dell'esercito
ebbono assaltato il castello di Bubano, ma invano, perché per il piccolo
circuito bastava poca gente a difenderlo, e per la bassezza del luogo il paese
era inondato dall'acque, preseno per forza il castello di Mordano, con tutto
che assai forte e proveduto copiosamente di soldati per difenderlo; ma fu tale
l'impeto dell'artiglierie, tale la ferocia dell'assalto de' franzesi che,
benché nel passare i fossi pieni di acqua non pochi d'essi v'annegassino,
quegli di dentro non potettono resistere: contro a' quali talmente in ogni età,
in ogni sesso, incrudelirono che empierono tutta la Romagna di grandissimo
terrore. Per il quale caso Caterina Sforza disperata d'avere soccorso
s'accordò, per fuggire il pericolo presente, co' franzesi, promettendo
all'esercito loro ogni comodità degli stati sottoposti al figliuolo. Donde
Ferdinando, insospettito della volontà de' faventini e parendogli pericoloso lo
stare in mezzo d'Imola e di Furlì, tanto più essendogli già nota l'andata di
Piero de' Medici a Serezana, si ritirò alle mura di Cesena, dimostrando tanto
timore che per non passare appresso a Furlì condusse l'esercito per i poggi,
via più lunga e difficile, accanto a Castrocaro castello de' fiorentini; e
pochi dì poi, come ebbe inteso l'accordo fatto da Piero de' Medici, per il
quale partirono da lui le genti de' fiorentini, si dirizzò al cammino di Roma.
E nel tempo medesimo don Federigo, partito del porto di Livorno, si ritirò con
l'armata verso il regno di Napoli; dove cominciavano a essere necessarie ad
Alfonso per la difesa propria quelle armi le quali aveva mandate con tanta
speranza ad assaltare gli stati d'altri, procedendo non meno infelicemente in quelle
parti le cose sue. Perché, non gli succedendo la oppugnazione tentata di
Nettunno avea ridotto l'esercito a Terracina, e l'armata franzese, della quale
erano capitani il principe di Salerno e monsignore di Serenon, si era scoperta
sopra Ostia: benché, publicando di non volere offendere lo stato della Chiesa,
non poneva gente in terra né faceva segno alcuno di inimicizia col pontefice,
con tutto che 'l re avesse pochi dì innanzi recusato di udire Francesco
Piccoluomini cardinale di Siena mandatogli legato da lui.
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