XVI. Carlo VIII in marcia verso Firenze si ferma a Signa con intenzioni
ostili. Precauzioni de' fiorentini e nascosti preparativi di difesa. Entrata di
Carlo in Firenze. Eccessive esigenze di Carlo ed eccitazione degli animi de'
fiorentini. Piero de' Medici, invitato da Carlo, si consiglia co' veneziani che
lo confortano a non muoversi da Venezia. Sdegnose parole di Pier Capponi a
Carlo e patti conclusi fra questo e i fiorentini.
Fermossi dipoi
Carlo a Signa, luogo propinquo a Firenze a sette miglia, per aspettare, innanzi
che entrasse in quella città, che alquanto fusse cessato il tumulto del popolo
fiorentino, il quale non aveva deposte l'armi prese il dì che era stato
cacciato Piero de' Medici; e per dare tempo a Obignì, il quale, per entrare con
maggiore spavento in Firenze, aveva mandato a chiamare, con ordine che
lasciasse l'artiglierie a Castrocaro e licenziasse dagli stipendi suoi i
cinquecento uomini d'arme italiani che erano seco in Romagna e insieme le genti
d'arme del duca di Milano, in modo che de' soldati sforzeschi non lo seguitò
altri che 'l conte di Gaiazzo con trecento cavalli leggieri: e per molti indizi
si comprendeva essere il pensiero del re di indurre i fiorentini col terrore
delle armi a cedergli il dominio assoluto della città; né egli sapeva
dissimularlo con gli imbasciadori medesimi i quali più volte andorno a Signa
per risolvere seco il modo dello entrare in Firenze, e per dare perfezione alla
concordia che si trattava. Non è dubbio che 'l re, per l'opposizione che gli
era stata fatta, aveva contro al nome fiorentino grandissimo sdegno e odio
conceputo; e ancora che e' fusse manifesto non essere proceduta dalla volontà
della republica, e che la città se ne fusse seco diligentissimamente
giustificata nondimeno non ne restava con l'animo purgato; indotto, come si
crede, da molti de' suoi, i quali giudicavano non dovere pretermettersi
l'opportunità di insignorirsene, o mossi da avarizia non volevano perdere
l'occasione di saccheggiare sì ricca città: e era vociferazione per tutto
l'esercito che per l'esempio degli altri si dovesse abbruciare, poiché primi in
Italia di opporsi alla potenza di Francia presunto avevano. Né mancava tra i
principali del suo consiglio chi alla restituzione di Piero de' Medici lo
confortasse, e specialmente Filippo monsignore di Brescia, fratello del duca di
Savoia, indotto da amicizie private e da promesse; in modo che, o prevalendo la
persuasione di questi, benché il vescovo di San Malò consigliasse il contrario,
o sperando con questo terrore fare inclinare più i fiorentini alla sua volontà,
o per avere occasione di prendere più facilmente in sul fatto quello partito
che più gli piacesse, scrisse una lettera a Piero e gli fece scrivere da
Filippo monsignore, confortandolo ad accostarsi a Firenze, perché per
l'amicizia stata tra i padri loro e per il buono animo dimostratogli da lui
nella consegnazione delle fortezze, era deliberato di reintegrarlo nella
pristina autorità. Le quali lettere non lo trovorono, come il re aveva creduto,
in Bologna, perché Piero, mosso dalla asprezza delle parole di Giovanni
Bentivogli e dubitando non essere perseguitato dal duca di Milano e forse dal
re di Francia, era per sua infelicità andato a Vinegia; dove gli furno mandate
dal cardinale suo fratello, il quale era restato a Bologna.
In Firenze si
dubitava molto della mente del re, ma non vedendo con quali forze o con quale
speranza gli potessino resistere, avevano eletto per manco pericoloso il
riceverlo nella città, sperando pure d'avere in qualche modo a placarlo; e
nondimeno, per essere proveduti a ogni caso, avevano ordinato che molti
cittadini si empiessino le case occultamente d'uomini del dominio fiorentino, e
che i condottieri i quali militavano agli stipendi della republica entrassino,
dissimulando la cagione, con molti de' loro soldati in Firenze, e che ciascuno
nella città e ne' luoghi circostanti stesse attento per pigliare l'armi al
suono della campana maggiore del publico palagio. Entrò dipoi il re con
l'esercito, con grandissima pompa e apparato, fatto con sommo studio e
magnificenza così dalla sua corte come dalla città; e entrò, in segno di
vittoria, armato egli e il suo cavallo, con la lancia in sulla coscia: dove si
ristrinse subito la pratica dell'accordo, ma con molte difficoltà. Perché,
oltre al favore immoderato prestato da alcuni de' suoi a Piero de' Medici e le
dimande intollerabili che si faceano di danari, Carlo scopertamente il dominio
di Firenze dimandava, allegando che, per esservi entrato in quel modo armato,
l'aveva, secondo gli ordini militari del regno di Francia, legittimamente
guadagnato; dalla quale domanda benché finalmente si partisse, voleva nondimeno
lasciare in Firenze certi imbasciadori di roba lunga, (così chiamano in Francia
i dottori e le persone togate), con tale autorità che, secondo gli instituti
franzesi, arebbe potuto pretendere essersegli attribuita in perpetuo non
piccola giurisdizione; e pel contrario i fiorentini erano ostinatissimi a
conservare intera, non ostante qualunque pericolo, la propria libertà: donde,
trattando insieme con opinioni tanto diverse, si accendevano continuamente gli
animi di ciascuna delle parti. E nondimeno niuno era pronto a terminare le
differenze con l'armi, perché il popolo di Firenze, dato per lunga consuetudine
alle mercatanzie e non agli esercizi militari, temeva grandemente, avendo intra
le proprie mura uno potentissimo re con tanto esercito, pieno di nazioni
incognite e feroci; e a' franzesi faceva molto timore l'essere il popolo
grandissimo e l'avere dimostrato, in quegli dì che fu mutato il governo, segni
maggiori d'audacia che prima non sarebbe stato creduto, e la fama publica che,
al suono della campana grossa, quantità d'uomini innumerabile di tutto il paese
circostante concorresse. Nella quale comune paura levandosi spesso romori vani,
ciascuna delle parti per sua sicurtà tumultuosamente pigliava l'armi, ma niuna
assaltava l'altra o provocava.
Riuscì vano al
re il fondamento di Piero de' Medici, perché Piero, sospeso tra la speranza
datagli e il timore di non essere dato in preda agli avversari, domandò sopra
le lettere del re consiglio al senato viniziano. Niuna cosa è certamente più
necessaria nelle deliberazioni ardue, niuna da altra parte più pericolosa, che
'l domandare consiglio; né è dubbio che manco è necessario agli uomini prudenti
il consiglio che agli imprudenti; e nondimeno, che molto più utilità riportano
i savi del consigliarsi. Perché chi è quello di prudenza tanto perfetta che
consideri sempre e conosca ogni cosa da se stesso? e nelle ragioni contrarie
discerna sempre la migliore parte? Ma che certezza ha chi domanda il consiglio
d'essere fedelmente consigliato? Perché chi dà il consiglio, se non è molto fedele
o affezionato a chi 'l domanda, non solo mosso da notabile interesse ma per
ogni suo piccolo comodo, per ogni leggiera sodisfazione, dirizza spesso il
consiglio a quel fine che più gli torna a proposito o di che più si compiace; e
essendo questi fini il più delle volte incogniti a chi cerca d'essere
consigliato, non s'accorge, se non è prudente, della infedeltà del consiglio.
Così intervenne a Piero de' Medici, perché i viniziani, giudicando che l'andata
sua faciliterebbe a Carlo il ridurre le cose di Firenze a' suoi disegni, il che
per lo interesse proprio sarebbe stato loro molestissimo, e però consigliando
più tosto se medesimi che Piero, efficacissimamente lo confortorno a non si
mettere in potestà del re, il quale da lui si teneva ingiuriato; e per dargli
maggiore cagione di seguitare il consiglio loro gli offersono d'abbracciare le
cose sue e di prestargli, quando il tempo lo comportasse, ogni favore a
rimetterlo nella patria: né contenti di questo, per assicurarsi che allora di
Vinegia non si partisse, gli posono, se è stato vero quel che poi si divulgò,
segretissime guardie.
Ma in questo
mezzo erano in Firenze da ogni parte esacerbati gli animi e quasi trascorsi a
manifesta contenzione, non volendo il re dall'ultime sue domande declinare, né
i fiorentini a somma di danari intollerabile obligarsi, né giurisdizione o
preminenza alcuna nel loro stato consentirgli. Le quali difficoltà, quasi
inesplicabili se non con l'armi, sviluppò la virtù di Piero Capponi, uno di
quattro cittadini diputati a trattare col re, uomo di ingegno e d'animo grande,
e in Firenze molto stimato per queste qualità, e per essere nato di famiglia
onorata e disceso di persone che avevano potuto assai nella republica. Perché
essendo un dì egli e i compagni suoi alla presenza del re, e leggendosi da uno
secretario regio i capitoli immoderati i quali per ultimo per la parte sua si
proponevano, egli con gesti impetuosi, tolta di mano del secretario quella
scrittura la stracciò innanzi agli occhi del re, soggiugnendo con voce
concitata:
- Poiché si
domandano cose sì disoneste, voi sonerete le vostre trombe e noi soneremo le
nostre campane. - Volendo espressamente inferire che le differenze si
deciderebbono con l'armi; e col medesimo impeto, andandogli dietro i compagni,
si partì subito della camera. Certo è che le parole di questo cittadino, noto
prima a Carlo e a tutta la corte perché pochi mesi innanzi era stato in Francia
imbasciadore de' fiorentini, messono in tutti tale spavento, non credendo massime
che tanta audacia fusse in lui senza cagione, che richiamatolo, e lasciate le
dimande alle quali si ricusava di consentire, si convennono insieme il re e i
fiorentini in questa sentenza: che rimesse tutte le ingiurie precedenti, la
città di Firenze fusse amica, confederata e in protezione perpetua della corona
di Francia: che in mano del re, per sicurtà sua, rimanessino la città di Pisa,
la terra di Livorno, con tutte le loro fortezze: le quali fusse obligato a
restituire senza alcuna spesa a fiorentini subito che avesse finito l'impresa
del regno di Napoli, intendendosi finita ogni volta che avesse conquistata la
città di Napoli o composto le cose con pace o con tregua di due anni o che per
qualunque causa la persona sua d'Italia si partisse, e che i castellani
giurassino di presente di restituirle ne' casi sopradetti, e in questo mezzo il
dominio, la giurisdizione, il governo, l'entrate delle terre fussino de'
fiorentini, secondo il solito; e che le cose medesime si facessino di
Pietrasanta, di Serezana e di Serezanello, ma che, per pretendere i genovesi
d'avere ragione in queste, fusse lecito al re procurare di terminare le
differenze loro o per concordia o per giustizia, ma che non l'avendo terminate
nel soprascritto tempo, le restituisse a' fiorentini: che 'l re potesse
lasciare in Firenze due imbasciadori, senza intervento de' quali, durante la
detta impresa, non si trattasse cosa alcuna appartenente a quella; né potessino
nel tempo medesimo eleggere senza sua partecipazione capitano generale delle genti
loro: restituissinsi subito tutte l'altre terre tolte o ribellatesi da'
fiorentini, a' quali fusse lecito recuperarle con l'armi in caso recusassino di
ricevergli: donassino al re per sussidio della sua impresa ducati cinquantamila
fra quindici dì, quarantamila per tutto marzo e trentamila per tutto giugno
prossimi: fusse perdonato a' pisani il delitto della ribellione e gli altri
delitti commessi poi: liberassinsi Piero de' Medici e i fratelli dal bando e
dalla confiscazione, ma non potesse accostarsi Piero per cento miglia a i
confini del dominio fiorentino, il che si faceva per privarlo della facoltà di
stare a Roma, né i fratelli per cento miglia alla città di Firenze. Questi
furono gli articoli più importanti della capitolazione tra il re e i fiorentini;
la quale, oltre all'essere stipulata legittimamente, fu con grandissima
cerimonia publicata nella chiesa maggiore intra gli offici divini; dove il re
personalmente, a richiesta del quale fu fatto questo, e i magistrati della
città, promessono l'osservanza con giuramento solenne, prestato in sull'altare
principale, presente la corte e tutto il popolo fiorentino. E due dì poi partì
Carlo di Firenze, dove era dimorato dieci dì, e andò a Siena; la quale città,
confederata col re di Napoli e co' fiorentini, aveva seguitato la loro
autorità, insino a tanto che l'andata di Piero de' Medici a Serezana gli
costrinse a pensare da se stessi alla propria salute.
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