III. Carlo VIII s'impadronisce di Castelnuovo di Castel dell'Uovo e della
rocca di Gaeta. Prima della resa di Castel dell'Uovo chiama a sé don Federigo
d'Aragona e fa proposte di stati nel regno di Francia a favore di Ferdinando.
Risposta di Federigo. Ferdinando da Ischia dove s'era ritirato si reca in
Sicilia. Morte di Gemin ottomanno, fratello del gran turco, consegnato a Carlo
da Alessandro VI.
Travagliavano
in maniera tale le cose di Toscana. Ma in questo mezzo il re di Francia,
acquistato che ebbe Napoli, attendeva, per dare perfezione alla vittoria, a due
cose principalmente: l'una, a espugnare Castelnuovo e Castel dell'Uovo,
fortezze di Napoli le quali si tenevano ancora per Ferdinando, perché con
piccola difficoltà aveva ottenuta la Torre di San Vincenzio, edificata per
guardia del porto; l'altra, a ridurre a ubbidienza sua tutto il reame: nelle
quali cose la fortuna la medesima benignità gli dimostrava. Perché Castelnuovo,
abitazione de' re, posto in sul lito del mare, per la viltà e avarizia de'
cinquecento tedeschi che v'erano a guardia, fatta leggiera difesa, s'arrendé,
con condizione che n'uscissino salvi, con tutta la roba che essi medesimi
potessino portarne; nel quale essendo copia grandissima di vettovaglie, Carlo,
senza considerazione di quello che potesse succedere, le donò ad alcuni de'
suoi; e Castel dell'Uovo, il quale, fondato dentro al mare in su un masso già
contiguo alla terra, ma separatone anticamente per opera di Lucullo, si
congiugne con uno stretto ponte al lito poco lontano da Napoli, battuto
continuamente dall'artiglierie franzesi, benché potessino offendere la muraglia
ma non il vivo del masso, si convenne dopo non molti dì d'arrendersi, in caso
che fra otto dì non fusse soccorso. E a' capitani e alle genti d'arme, mandate
in diverse parti del reame, andavano incontro, parecchie giornate, i baroni e i
sindichi delle comunità, facendo a gara tra loro d'essere i primi a ricevergli,
e con tanta o inclinazione o terrore di ciascuno che i castellani delle
fortezze quasi tutti senza resistenza le dettono; e la rocca di Gaeta, che era
bene proveduta, combattuta leggiermente, s'arrendé a discrezione. In modo che
in pochissimi dì, con inestimabile facilità, tutto il regno si ridusse in
potestà di Carlo: eccetto l'isola d'Ischia, e le fortezze di Brindisi e di
Galipoli in Puglia, e in Calavria la fortezza di Reggio, città posta in sulla
punta d'Italia all'incontro di Sicilia, tenendosi la città per Carlo; e la
Turpia e la Mantia le quali da principio rizzorono le bandiere di Francia, ma
recusando di stare in dominio d'altri che del re, il quale l'aveva donate ad
alcuni de' suoi, mutato consiglio ritornorono al primo signore. E il medesimo
fece poco dipoi la città di Brindisi, alla quale non avendo Carlo mandato
gente, anzi per negligenza non solo non espediti ma appena uditi i sindici suoi
mandati a Napoli per capitolare, ebbono quegli che erano per Ferdinando nelle
fortezze facoltà di ritirare spontaneamente la città alla divozione aragonese:
per il quale esempio la città di Otranto che aveva chiamato il nome di Francia,
non v'andando alcuno a riceverla, non continuò nella medesima disposizione.
Andorono, da
Alfonso Davalo marchese di Pescara in fuora, il quale, lasciato in Castelnuovo
da Ferdinando, l'aveva, come si accorse della inclinazione de' tedeschi ad
arrendersi, seguitato, e due o tre altri che per avere Carlo donati gli stati
loro s'erano fuggiti in Sicilia, tutti i signori e baroni del reame a fare
omaggio al nuovo re. Il quale, desideroso di stabilire totalmente per via di
concordia sì grande acquisto, aveva, innanzi che ottenesse Castel dell'Uovo, chiamato
a sé sotto salvocondotto don Federigo, il quale per essere dimorato più anni
nella corte del padre, e per la congiunzione del parentado avuta col re, era
grato a tutti i signori franzesi; al quale offerse di dare a Ferdinando, in
caso rilasciasse quello che gli restava nel reame, stati ed entrate grandi in
Francia, e a lui dare ricompenso abbondante di tutto quello vi possedeva. Ma
essendo nota a don Federigo la deliberazione del nipote, di non accettare
partito alcuno se non restandogli la Calavria, rispose con gravi parole: che
poi che Dio la fortuna e la volontà di tutti gli uomini erano concorse a dargli
il reame di Napoli, che Ferdinando, non volendo fare resistenza a questa fatale
disposizione, né riputandosi vergogna il cedere a un tanto re, voleva non manco
che gli altri stare a sua ubbidienza e divozione, pure che da lui gli fusse
conceduta qualche parte del reame, accennando della Calavria, nella quale
stando, non come re ma come uno de' suoi baroni, potesse adorare la clemenza e
la magnanimità del re di Francia; al cui servigio sperava d'avere qualche volta
occasione di dimostrare quella virtù che la mala fortuna gli aveva vietato di
potere per la salute di se medesimo esercitare. Questo consiglio non potere
essere a Carlo di maggiore gloria, e simile a' consigli di quegli re memorabili
appresso all'antichità, i quali con tali opere aveano fatto immortale il nome
loro e conseguito appresso a' popoli gli onori divini; ma non essere consiglio
manco sicuro che glorioso, perché, ridotto Ferdinando alla sua divozione,
arebbe il regno stabilito, né arebbe a temere della mutazione della fortuna,
della quale era proprio, ogni volta che le vittorie non s'assicuravano con
moderazione e con prudenza, maculare con qualche caso inopinato la gloria
guadagnata.
Ma parendo a
Carlo che il concedere parte alcuna del reame al suo competitore mettesse tutto
il resto in manifestissimo pericolo, don Federigo si partì discorde da lui; e
Ferdinando, poiché furono arrendute le castella, se n'andò con quattordici
galee sottili male armate, con le quali s'era partito da Napoli, in Sicilia,
per essere parato a ogni occasione, lasciato a guardia della rocca d'Ischia
Inico Davalo fratello d'Alfonso, uomini amendue di virtù e di fede egregia
verso il suo signore. Ma Carlo, per privare gl'inimici di quello ricettacolo,
molto opportuno a turbare il reame, vi mandò l'armata, che finalmente era
arrivata nel porto di Napoli; la quale, trovata la terra abbandonata, non
combatté la rocca, disperandosi per la fortezza sua di poterla ottenere: però
deliberò il re far venire altri legni di Provenza e da Genova per pigliare
Ischia, e assicurare il mare infestato qualche volta da Ferdinando. Ma non era
pari alla fortuna la diligenza o il consiglio, governandosi tutte le cose
freddamente e con grandissima negligenza e confusione: perché i franzesi,
diventati per tanta prosperità più insolenti che 'l solito, lasciando portare
al caso le cose di momento, non attendevano ad altro che al festeggiare e a'
piaceri; e quegli che erano grandi appresso al re, a cavare privatamente della
vittoria più frutto potevano, senza considerazione alcuna della degnità o
dell'utilità del suo principe.
Nel qual tempo
morì in Napoli Gemin ottomanno, con sommo dispiacere di Carlo, perché lo
reputava grandissimo fondamento alla guerra la quale aveva in animo di fare
contro allo imperio de' turchi; e si credette, molto costantemente, che la sua
morte fusse proceduta da veleno, datogli a tempo terminato dal pontefice, o
perché avendolo conceduto contro alla sua volontà, e per questo privatosi de'
quarantamila ducati che ciascuno anno gli pagava Baiset suo fratello, pigliasse
per consolazione dello sdegno che chi ne l'aveva privato non ricevesse di lui
comodità, o per invidia che e' portasse alla gloria di Carlo; e forse temendo
che avendo prosperi successi contro agl'infedeli volgesse poi i pensieri suoi,
come, benché per interessi privati, era stimolato continuamente da molti, a
riformare le cose della Chiesa: le quali, allontanatesi totalmente dagli
antichi costumi, facevano ogni dì minore l'autorità della cristiana religione,
tenendo per certo ciascuno che avesse a declinare molto più nel suo
pontificato; il quale, acquistato con pessime arti, non fu forse giammai, alla
memoria degli uomini, amministrato con peggiori. Né mancò chi credesse, perché
la natura facinorosa del pontefice faceva credibile in lui qualunque iniquità,
che Baiset, come intese il re di Francia prepararsi a passare in Italia,
l'avesse, per mezzo di Giorgio Bucciardo, corrotto con danari a privare Gemin
della vita. Ma non cessando per la sua morte Carlo, il quale più con prontezza
d'animo che con prudenza e consiglio procedeva, di pensare alla guerra contro
a' turchi, mandò in Grecia l'arcivescovo di Durazzo di nazione albanese, perché
gli dava speranza di suscitare, per mezzo di certi fuorusciti, qualche
movimento in quella provincia. Ma nuovi accidenti lo costrinsono a volgere
l'animo a nuovi pensieri.
|