IV. Preoccupazioni e timori di Lodovico Sforza e di Venezia per la nuova
condizione politica d'Italia. Preoccupazioni del pontefice e di Massimiliano.
Confederazione tra il pontefice il re de' romani i re di Spagna i veneziani e
il duca di Milano. Carlo VIII continua a non tener fede ai patti concordati co'
fiorentini. Principia il malcontento nei sudditi del reame di Napoli contro i
francesi.
E detto di
sopra che la cupidità d'usurpare il ducato di Milano, e la paura che aveva
degli Aragonesi e di Piero de' Medici, indussono Lodovico Sforza a procurare
che 'l re di Francia passasse in Italia; per la venuta del quale, poiché ebbe
ottenuto il suo ambizioso desiderio, e che gli Aragonesi furono ridotti in
tante angustie che con difficoltà poteano la propria salute sostentare, cominciò
a presentarsigli innanzi agli occhi il secondo timore molto più potente e molto
più giusto che 'l primo, cioè la servitù imminente a sé e a tutti gli italiani
se alla potenza del re di Francia il reame di Napoli s'aggiugnesse. Però aveva
desiderato che Carlo trovasse nel dominio de' fiorentini maggiore difficoltà; e
veduto essergli stato facilissimo il congiugnersi quella republica, e che con
la medesima facilità aveva superato l'opposizione del pontefice, e che senza
intoppo alcuno entrava nel regno di Napoli, gli pareva ogni dì tanto maggiore
il suo pericolo quanto riusciva maggiore e più facile il corso della vittoria
de' franzesi. Il medesimo timore cominciava a occupare l'animo del senato
viniziano; il quale, essendo perseverato nella prima deliberazione di
conservarsi neutrale, si era con tanta circospezione astenuto non solo da i
fatti ma da tutte le dimostrazioni che lo potessino fare sospetto di maggiore
inclinazione all'una parte che all'altra che, avendo eletti imbasciadori al re
di Francia Antonio Loredano e Domenico Trivisano, non però prima che quando
intese che aveva passato i monti, aveva tardato tanto a mandargli che 'l re
prima di loro era arrivato in Firenze. Ma vedendo poi l'impeto di tanta
prosperità, e che il re come un folgore, senza resistenza alcuna, per tutta
Italia discorreva, cominciò a riputare pericolo proprio il danno alieno e a
temere che alla ruina degli altri avesse a essere congiunta la sua; e massime
che l'avere Carlo occupata Pisa e l'altre fortezze de' fiorentini, lasciata
guardia in Siena e fatto poi il medesimo nello stato della Chiesa, pareva segno
pensasse più oltre che solamente al regno napoletano. Però prontamente prestò
gli orecchi alle persuasioni di Lodovico Sforza; il quale, subito che a Carlo
cederono i fiorentini, aveva cominciato a confortare che insieme con lui
rimediassino a' pericoli comuni. E si crede che se Carlo, o in terra di Roma o
nell'entrata del regno di Napoli, avesse riscontrato in qualche difficoltà,
arebbono prese l'armi congiuntamente contro a lui. Ma la vittoria succeduta con
tanta celerità prevenne tutte le cose che si trattavano per impedirla. E già
Carlo, insospettito degli andamenti di Lodovico, avea, dopo l'acquisto di
Napoli, condotto Gian Iacopo da Triulzio con cento lancie e con onorata
provisione, e congiuntisi con molte promesse il cardinale Fregoso e Obietto dal
Fiesco; questi per instrumenti potenti a travagliare le cose di Genova, quello
per essere capo della parte guelfa in Milano e avere l'animo alienissimo da
Lodovico: al quale similmente recusava di dare il principato di Taranto,
allegando non essere obligato se non quando avesse conquistato tutto il reame.
Le quali cose essendo molestissime a Lodovico, fece ritenere dodici galee che
per il re si armavano a Genova, e proibì che alcuni legni per lui non vi si
armassino; da che il re si lamentò essere proceduto che e' non avesse tentato
di nuovo con maggiore apparato di espugnare Ischia.
Crescendo
adunque da ogni parte continuamente i sospetti e gli sdegni, e avendo
l'acquisto tanto sùbito di Napoli rappresentato al senato viniziano e al duca
di Milano il pericolo maggiore e più propinquo, furono necessitati a non
differire di mettere in esecuzione i loro pensieri: alla quale deliberazione
gli faceva procedere con maggiore animo la compagnia potente che avevano;
perché al medesimo non era manco pronto il pontefice, impaurito sopramodo de'
franzesi; né manco pronto Massimiliano Cesare, al quale, per molte cagioni che
aveva di inimicizia con la corona di Francia e per le ingiurie gravissime
ricevute da Carlo, furono in ogni tempo più che a tutti gli altri molestissime
le prosperità franzesi. Ma quegli ne' quali i viniziani e Lodovico maggiore e
più fermo fondamento facevano erano Ferdinando e Isabella re e reina di Spagna;
i quali essendosi poco innanzi, non per altro effetto che per riavere da lui la
contea di Rossiglione, obligati a Carlo a non gli impedire l'acquisto di
Napoli, s'avevano astutamente insino ad allora lasciata libera la facoltà di
fare il contrario: perché (se è vero quel che essi publicorono) fu apposta ne'
capitoli fatti per quella restituzione una clausula di non essere tenuti a cosa
alcuna che il pregiudicio della Chiesa concernesse; con la quale eccezione
inferivano che se 'l pontefice, per l'interesse del suo feudo, gli ricercasse
ad aiutare il regno di Napoli, era in potestà loro il farlo senza contravenire
alla fede data e alle promesse. Aggiunsono poi che, per i medesimi capitoli,
era proibito loro l'opporsi a Carlo in caso constasse quel reame appartenersi a
lui giuridicamente. Ma quale sia di queste cose la verità, certo è che subito
che ebbono recuperate quelle terre non solo cominciorno a dare speranza agli
Aragonesi di aiutargli, e a fare occultamente instanza col pontefice che non abbandonasse
la causa loro, ma avendo nel principio confortato il re di Francia, con
moderate parole e come amatori della gloria sua e mossi dal zelo della
religione, a voltare più tosto l'armi contro agl'infedeli che contro a'
cristiani, continuavano nel confortarlo al medesimo, ma con maggiore efficacia
e con parole più sospette quanto più procedeva innanzi quella espedizione: le
quali perché avessino più autorità, e per nutrire con maggiore speranza il
pontefice e gli Aragonesi, e nondimeno da altra parte spargendo fama di pensare
solamente alla custodia della Sicilia, preparavano di mandarvi per mare una
armata, che vi arrivò dopo la perdita di Napoli; benché con apparato, secondo
il costume loro, maggiore nelle dimostrazioni che negli effetti, perché non condusse
più che ottocento giannettari e mille fanti spagnuoli. Con queste simulazioni
erano proceduti insino a tanto che l'avere i Colonnesi occupata Ostia, e le
minaccie che dal re di Francia si facevano contro al pontefice, dettono loro
più onesta occasione di mandare fuora quel che aveano conceputo nell'animo: la
quale abbracciando prontamente, feciono da Antonio Fonsecca loro imbasciadore
protestare apertamente al re, quando era in Firenze, che secondo l'ufficio di
prìncipi cristiani piglierebbono la difensione del pontefice e del regno
napoletano, feudo della Chiesa romana; e già avendo cominciato a trattare co'
viniziani e col duca di Milano di collegarsi, intesa che ebbono la fuga degli
Aragonesi, gli sollecitavano con grandissima instanza a intendersi con loro,
per la sicurtà comune, contro a' franzesi. Però finalmente, del mese di aprile,
nella città di Vinegia, dove erano gli imbasciadori di tutti questi prìncipi,
fu contratta confederazione tra il pontefice il re de' romani i re di Spagna i
viniziani e il duca di Milano; il titolo e la publicazione della quale fu
solamente a difesa degli stati uno dell'altro, riserbando luogo a chiunque
volesse entrarvi con le condizioni convenienti. Ma giudicando tutti necessario
di operare che 'l re di Francia non tenesse il reame di Napoli, fu ne' capitoli
più secreti convenuto: che le genti spagnuole venute in Sicilia aiutassino
Ferdinando di Aragona alla recuperazione di quel reame, il quale con speranza
grande della volontà de' popoli trattava di entrare nella Calavria, e che i
viniziani nel tempo medesimo assaltassino con l'armata loro i luoghi marittimi;
sforzassesi il duca di Milano, per impedire se di Francia venisse nuovo
soccorso, di occupare la città di Asti, nella quale con piccole forze era
rimasto il duca di Orliens; e che a' re de' romani e di Spagna fusse data dagli
altri confederati certa quantità di danari, acciocché ciascuno di loro rompesse
con potente esercito la guerra nel regno di Francia.
Desiderorno
oltre a queste cose i confederati che tutta Italia fusse unita in una medesima
volontà, e perciò feceno instanza che i fiorentini e il duca di Ferrara
entrassino nella medesima confederazione. Ricusò il duca, richiestone innanzi
che la lega si publicasse, di pigliare l'armi contro al re; e da altra parte,
con cautela italiana, consentì che don Alfonso suo primogenito si conducesse
col duca di Milano con cento cinquanta uomini d'arme, con titolo di
luogotenente delle sue genti. Diversa era la causa de' fiorentini, invitati
alla confederazione con offerte grandi, e che aveano giustissime cagioni di
alienarsi dal re: perché, publicata che fu la lega, Lodovico Sforza offerse
loro in nome di tutti i confederati, in caso vi entrassino, tutte le forze loro
per resistere al re, se ritornando da Napoli tentasse di offendergli, e di
aiutargli come prima si potesse alla recuperazione di Pisa e di Livorno; e da
altra parte il re, disprezzate le promesse fatte in Firenze, né da principio
gli aveva reintegrati nella possessione delle terre né dopo l'acquisto di
Napoli restituite le fortezze, posponendo la fede propria e il giuramento al
consiglio di coloro che, favorendo la causa de' pisani, persuadevano che i
fiorentini, subito che ne fussino reintegrati, si unirebbono con gli altri
italiani; a' quali si opponeva freddamente il cardinale di San Malò, benché
avesse ricevuti molti danari, per non venire per causa loro in controversia con
gli altri grandi. Né solo in questa ma in molte altre cose aveva dimostrato il
re non tenere conto né della fede né di quello che gli potesse, in tempo tale,
importare l'aderenza de' fiorentini; in modo che, querelandosi gli oratori loro
della ribellione di Montepulciano, e facendo instanza che, come era tenuto,
costrignesse i sanesi a restituirlo, rispose, quasi deridendo: - Che poss'io
fare se i sudditi vostri per essere male trattati si ribellano? E nondimeno i
fiorentini, non si lasciando traportare dallo sdegno contro alla propria
utilità, deliberorno di non udire le richieste de' collegati; sì per non
provocare di nuovo contro a sé, nel ritorno del re, l'armi franzesi, come
perché potevano sperare più la restituzione di quelle terre da chi l'aveva in
mano; e perché confidavano poco in queste promesse, sapendo di essere esosi a'
viniziani per l'opposizioni fatte in diversi tempi alle imprese loro, e
conoscendosi manifestamente che Lodovico Sforza v'aspirava per sé.
Nel quale tempo
era già la riputazione de' franzesi cominciata a diminuire molto nel regno di
Napoli, perché occupati da' piaceri, e governandosi a caso, non avevano atteso
a cacciare gli aragonesi di quegli pochi luoghi che si tenevano per loro, come,
se avessino seguitato il favore della fortuna, sarebbe succeduto facilmente. Ma
molto più era diminuita la grazia: perché se bene a' popoli il re molto
liberale e benigno dimostrato si fusse, concedendo per tutto il reame tanti
privilegi ed esenzioni che ascendevano ciascuno anno a più di dugentomila
ducati, nondimeno non erano state l'altre cose indirizzate con quell'ordine e
prudenza che si doveva; perché egli, alieno dalle fatiche e dall'udire le
querele e i desideri degli uomini, lasciava totalmente il peso delle faccende
a' suoi, i quali, parte per incapacità parte per avarizia, confusono tutte le
cose: perché la nobiltà non fu raccolta né con umanità né con premi, difficoltà
grandissima a entrare nelle camere e udienze del re, non fatta distinzione da
uomo a uomo, non riconosciuti se non a caso i meriti delle persone, non
confermati gli animi di coloro che naturalmente erano alieni dalla casa
d'Aragona, interposte molte difficoltà e lunghezze alla restituzione degli
stati e de' beni della fazione angioina e degli altri baroni che erano stati
scacciati da Ferdinando vecchio, fatte le grazie e i favori a chi gli procurava
con doni e con mezzi straordinari, a molti tolto senza ragione a molti dato
senza cagione, distribuiti quasi tutti gli uffici e i beni di molti ne'
franzesi, donate con grandissimo dispiacere loro quasi tutte le terre di
dominio (così chiamano quelle che sono solite a ubbidire immediatamente a' re),
e la maggiore parte a' franzesi; cose tanto più moleste a' sudditi quanto più
erano assuefatti a' governi prudenti e ordinati de' re aragonesi, e quanto più
del nuovo re promesso s'aveano. Aggiugnevasi il fasto naturale de' franzesi,
accresciuto per la facilità della vittoria, per la quale tanto di se stessi
conceputo aveano che teneano tutti gl'italiani in niuna estimazione; la
insolenza e impeto loro nell'alloggiare, non manco in Napoli che nell'altre
parti del regno dove erano distribuite le genti d'arme, le quali per tutto
facevano pessimi trattamenti: in modo che l'ardente desiderio che avevano avuto
gli uomini di loro era già convertito in ardente odio; e per contrario, in
luogo dell'odio contro agli Aragonesi era sottentrata la compassione di
Ferdinando, l'espettazione avutasi sempre generalmente della sua virtù, la
memoria di quel dì che con tanta mansuetudine e costanza avea, innanzi si
partisse, parlato a' napoletani. Donde e quella città e quasi tutto il reame
non con minore desiderio aspettavano occasione di potere richiamare gli
Aragonesi che pochissimi mesi innanzi avessino desiderato la loro distruzione.
Anzi già cominciava a essere grato il nome tanto odioso d'Alfonso, chiamando
giusta severità quella che, insino quando vivente il padre attendeva alle cose
domestiche del regno, solevano chiamare crudeltà, e sincerità d'animo veridico
quella che molt'anni avevano chiamata superbia e alterezza. Tale è la natura
de' popoli, inclinata a sperare più di quel che si debbe e a tollerare manco di
quel ch'è necessario, e ad avere sempre in fastidio le cose presenti; e
specialmente degli abitatori del regno di Napoli, i quali tra tutti i popoli
d'Italia sono notati di instabilità e di cupidità di cose nuove.
|