V. Deliberazioni di Carlo VIII per la confederazione degli stati italiani.
Carlo prima della partenza da Napoli distribuisce le cariche e gli uffici.
Ardore del re e della corte di ritornare in Francia. Trattative fra Carlo e il
pontefice per l'investitura del regno di Napoli. Carlo dopo aver assunto il
titolo e le insegne reali parte da Napoli. Gli Orsini chiedono invano d'esser
lasciati in libertà. Il pontefice per evitare d'incontrarsi con Carlo si reca a
Orvieto e, quindi, a Perugia. Nuovi tentativi de' fiorentini di riavere le
fortezze. Carlo prende, ma per breve tempo, in protezione Siena.
Aveva il re,
insino innanzi si facesse la nuova lega, quasi stabilito di ritornarsene presto
in Francia; mosso più da leggiera cupidità e dal desiderio ardente di tutta la
corte che da prudente considerazione, perché nel reame restavano indecise
innumerabili e importanti faccende di prìncipi e di stati, né avea la vittoria
avuta perfezione, non essendo conquistato tutto il regno. Ma inteso che ebbe
essere fatta contro a sé confederazione di tanti prìncipi, commosso molto di
animo, consultava co' suoi quel che in tanto accidente fusse da fare;
affermandosi verissimamente per ciascuno essere già molte età che tra i
cristiani non si era fatta unione tanto potente. Per consiglio de' quali fu
principalmente deliberato che si accelerasse la partita, dubitando che quanto
più si soprastava tanto più si accrescessino le difficoltà, perché si darebbe
tempo a' collegati di fare preparazioni maggiori (e già era fama che per ordine
loro passerebbe in Italia numero grande di tedeschi, e si cominciava a
vociferare della persona di Cesare); che 'l re provedesse che di Francia
passassino con prestezza in Asti nuove genti, per conservare quella città e per
necessitare il duca di Milano ad attendere a difendere le cose proprie, e
perché fussino pronte a passare più innanzi quando il re giudicasse che così
fusse necessario. E fu nel medesimo consiglio deliberato di affaticarsi con
ogni diligenza e con offerte grandissime per separare il pontefice dagli altri
collegati, e per disporlo a concedere [a Carlo] la investitura del regno di
Napoli; la quale benché a Roma avesse convenuto di concedere assolutamente,
avea insino a quel dì ricusato di concedere, eziandio con dichiarazione che per
questa concessione non si facesse pregiudicio alle ragioni degli altri. Né in
tanto grave deliberazione, e tra sì importanti pensieri, cadde la memoria delle
cose di Pisa; perché desiderando, per molti rispetti, che in potestà sua fusse il
disporne, e dubitando che dal popolo pisano non gli fusse con l'aiuto de'
collegati tolta la cittadella, vi mandò per mare, insieme con gli imbasciadori
pisani che erano appresso a lui, seicento fanti di quegli del regno suo. I
quali, come arrivorono in Pisa, presa la medesima affezione che avevano presa
gli altri lasciati in quella città, e mossi da cupidità di rubare, andorono con
le genti de' pisani, da' quali ebbono danari, a campo al castello di
Librafatta; dove i pisani, de' quali era capitano Lucio Malvezzo, essendosi
accampati non molti dì prima, preso animo per avere i fiorentini mandata una
parte delle genti verso Montepulciano, inteso dipoi approssimarsi gl'inimici si
erano levati innanzi dì: ma ritornativi di nuovo con questo presidio franzese
l'espugnorono in pochi dì; essendo stato l'esercito fiorentino, il quale
ritornava per soccorrerla, impedito dalla grossezza dell'acque a passare il
fiume del Serchio, né avendo avuto ardire di pigliare il cammino allato alle
mura di Lucca, per la disposizione del popolo lucchese, concitato molto in
favore della libertà de' pisani. Con le genti de' quali, dopo l'acquisto di
Librafatta, scorsono i franzesi, che si riserborono Librafatta, per tutto il
contado di Pisa, come inimici manifesti de' fiorentini; a' quali, quando si
querelavano, non rispondeva altro Carlo se non che, come fusse arrivato in
Toscana, osserverebbe loro le cose promesse, confortandogli che questa breve
dilazione senza molestia tollerassino.
Ma non era a
Carlo sì facile la deliberazione del partirsi com'era pronto il desiderio,
perché non aveva tanto esercito che, diviso in due parti, potesse senza
pericolo contro alla opposizione de' confederati condurlo in Asti, e che fusse
bastante a difendere, in tanti movimenti che si preparavano, facilmente il
regno di Napoli. Nelle quali difficoltà fu costretto, e perché il regno non
rimanesse spogliato di difensori diminuire delle provisioni opportune alla sua
salute, e per non mettere se in pericolo sì manifesto non vi lasciare quel
potente presidio che sarebbe stato di bisogno. Però deliberò lasciarvi la metà
de' svizzeri e una parte de' fanti franzesi, ottocento lancie franzesi, e circa
a cinquecento uomini d'arme italiani, condotti a' soldi suoi parte sotto il
preletto di Roma parte sotto Prospero e Fabrizio Colonna e Antonello Savello,
tutti capitani beneficati da lui nella distribuzione che fece di quasi tutte le
terre e stati del regno; e massimamente i Colonnesi, perché a Fabrizio aveva
conceduto i contadi d'Albi e di Tagliacozzo, posseduti prima da Verginio
Orsino, e a Prospero il ducato di Traietto e la città di Fondi con molte
castella, che erano della famiglia Gaetana, e Montefortino con altre terre
circostanti, tolte alla famiglia de' Conti: con le quali genti pensava che in
ogni bisogno si unissino le forze di quegli baroni i quali, per la sicurtà
propria, erano necessitati di desiderare la sua grandezza, e sopra tutti del
principe di Salerno, restituito da lui all'ufficio dell'ammiraglio, e del
principe di Bisignano. Luogotenente generale di tutto il regno diputò Giliberto
di Mompensieri, capitano più stimato per la grandezza sua e per essere del
sangue reale che per proprio valore; e diputò oltre a lui vari capitani in
molte parti del regno, a' quali tutti aveva donato stati ed entrate: e di
questi furono i principali Obignì al governo della Calavria, fatto da lui gran
conestabile; a Gaeta il siniscalco di Belcari, al quale aveva dato l'ufficio
del gran camarlingo; nell'Abruzzi Graziano di Guerra, valoroso e riputato capitano.
A queste genti promesse di mandare danari e presto soccorso, ma non lasciò
altra provisione che l'assegnamento di quegli che giornalmente si riscotessino
dell'entrate del regno. Il quale già vacillava, cominciando a risorgere in
molti luoghi il nome aragonese: perché Ferdinando era, ne' dì medesimi che 'l
re voleva partire da Napoli, smontato in Calavria, accompagnato dagli spagnuoli
venuti in sull'armata nell'isola di Sicilia; a cui concorseno subito molti
degli uomini del paese, e se gli arrendé incontinente la città di Reggio, la
fortezza della quale si era sempre tenuta in nome suo; e nel tempo medesimo si
scoperse ne' liti di Puglia l'armata viniziana, della quale era capitano
Antonio Grimanno, uomo in quella republica di grande autorità. Ma non per
questo, né per molti altri segni dell'alterazione futura, si rimosse o pure si
ritardò in parte alcuna la deliberazione del partirsi; perché, oltre a quello a
che gli persuadeva forse la necessità, era incredibile l'ardore che il re e
tutta la corte avevano di ritornarsene in Francia: come se il caso che era
stato bastante a fare acquistare tanta vittoria fusse bastante a farla
conservare. Nel quale tempo si tenevano per Ferdinando l'isola d'Ischia e
l'isole di Lipari, membro, benché propinque alla Sicilia, del regno di Napoli,
Reggio recuperato nuovamente; e nella medesima Calavria, Terranuova e la
fortezza, con alcun'altre fortezze e luoghi circostanti; Brindisi, dove si era
fermato don Federigo, Galipoli, la Mantia e la Turpia.
Ma innanzi che
'l re partisse si trattorono tra il pontefice e lui varie cose, non senza
speranza di concordia; per le quali andò dal pontefice al re, e dipoi ritornò a
Roma, il cardinale di San Dionigi, e dal re a lui Franzi monsignore: perché il
re desiderava sommamente la investitura del regno di Napoli; desiderava che il
pontefice, se non voleva essere congiunto seco, almeno non aderisse cogli
inimici suoi, e che si contentasse di riceverlo in Roma come amico. Alle quali
cose benché il pontefice da principio prestasse orecchi, nondimeno, avendo
l'animo alieno da confidarsi di lui, e perciò non volendo separarsi da'
collegati, né concedergli la investitura, non la reputando mezzo sufficiente a
fare fedele reconciliazione, interponeva all'altre dimande varie difficoltà; e
a quella della investitura, benché il re si riducesse ad accettarla senza
pregiudicio delle ragioni d'altri, rispondeva volere che prima si vedesse
giuridicamente a chi di ragione apparteneva: e da altra parte, desiderando di
proibire con l'armi che 'l re non entrasse in Roma, ricercò il senato viniziano
e il duca di Milano che gli mandassino aiuto; i quali gli mandorono mille
cavalli leggieri e dumila fanti, e promessono mandargli mille uomini d'arme;
con le quali genti aggiunte alle forze sue sperava potere resistere. Ma,
parendo poi loro troppo pericoloso il discostare tanto le genti dagli stati
propri, né avendo ancora in ordine tutto l'esercito disegnato, ed essendo parte
delle genti occupate alla impresa di Asti, e riducendosi oltre a ciò in memoria
la infedeltà del pontefice, e l'avere, quando passò Carlo, chiamato in Roma con
l'esercito Ferdinando e poi fattolo partire, mutato consiglio, cominciorono a
persuadergli che più tosto si riducesse in luogo sicuro che, per sforzarsi di
difendere Roma, esporre la sua persona a sì grave pericolo; atteso che quando
bene il re entrasse in Roma se ne partirebbe subito, senza lasciarvi gente
alcuna. Le quali cose accrebbono la speranza del re di potere venire seco a
qualche composizione.
Partì adunque
il re da Napoli il vigesimo dì di maggio; ma perché prima non aveva assunto con
le cerimonie consuete il titolo e le insegne reali, pochi dì innanzi si
partisse ricevé solennemente nella chiesa catedrale, con grandissima pompa e
celebrità secondo il costume de' re napoletani, le insegne reali, e gli onori e
i giuramenti consueti prestarsi a' nuovi re; orando in nome del popolo di
Napoli Giovanni Ioviano Pontano. Alle laudi del quale, molto chiarissime per
eccellenza di dottrina e di azioni civili e di costumi, détte quest'atto non
piccola nota; perché essendo stato lungamente segretario de' re aragonesi e
appresso a loro in grandissima autorità, precettore ancora nelle lettere e
maestro d'Alfonso, parve che, o per servare le parti proprie degli oratori o
per farsi più grato a' franzesi, si distendesse troppo nella vituperazione di
quegli re, da' quali era sì grandemente stato esaltato: tanto è qualche volta
difficile osservare in se stesso quella moderazione e quegli precetti co' quali
egli, ripieno di tanta erudizione, scrivendo delle virtù morali, e facendosi,
per l'universalità dello ingegno suo in ogni specie di dottrina, maraviglioso a
ciascuno, aveva ammaestrato tutti gli uomini. Andorono con Carlo ottocento
lancie franzesi e dugento gentil'uomini della sua guardia, il Triulzio con
cento lancie tremila fanti svizzeri mille franzesi e mille guasconi; e con
ordine che in Toscana seco si unissino Cammillo Vitelli e i fratelli con
dugento cinquanta uomini d'arme, e che l'armata di mare se ne ritornasse verso
Livorno.
Seguitorono il
re, non con altra guardia che data la fede di non partirsi senza licenza,
Verginio Orsino e il conte di Pitigliano. La causa de' quali, perché si
querelavano non essere stati fatti giustamente prigioni, era stata prima
commessa al consiglio reale; innanzi al quale avevano allegato che al tempo che
s'arrenderono era già stato agli uomini mandati da loro non solo conceduto per
la bocca propria del re il salvocondotto, ma eziandio ridotto in scrittura e
sottoscritto dalla sua mano; e che avendone ricevuto avviso da' suoi che
aspettavano l'espedizione de' secretari, avevano, sotto questa fidanza, al
primo araldo che andò a Nola, alzato le bandiere del re, e al primo capitano,
il quale aveva seco pochissimi cavalli, consegnato le chiavi: non ostante che,
avendo con loro più di quattrocento uomini d'arme, avessino facilmente potuto
resistere. Raccontavano l'antica divozione della famiglia degli Orsini, la
quale avendo sempre tenuta la parte guelfa, aveano, e loro e chiunque era mai
nato o nascerebbe di quella casa, scolpito nel cuore il nome e il segno della
corona di Francia. Da questo essere proceduto l'avere con tanta prontezza
ricevuto il re negli stati loro di terra di Roma. E perciò non convenire né
essere giusto, né attesa la fede data dal re né attese l'opere loro, che e'
fussino ritenuti prigioni. Ma non meno prontamente si rispondeva per la parte
di Lignì, dalle cui genti erano stati presi a Nola: il salvocondotto, benché
deliberato e sottoscritto dal re, non intendersi perfettamente conceduto insino
a tanto non fusse corroborato col sigillo regio e con le soscrizioni de'
secretari, e dipoi consegnato alla parte. Questo essere in tutte le concessioni
e patenti il costume antichissimo di tutte le corti, acciocché si potesse
moderare quel che dalla bocca del principe, o per la moltiplicità de' pensieri
e delle faccende o per non essere stato informato pienamente delle cose,
inconsideratamente fusse caduto. Né avere questa fidanza mosso gli Orsini ad
arrendersi a sì piccolo numero di gente ma la necessità e il timore, perché non
rimaneva loro facoltà né di difendersi né di fuggirsi, essendo già tutto 'l
paese circostante occupato dall'armi de' vincitori; ed essere falso quel che
aveano allegato de' meriti loro, i quali quando fussino affermati da altri
doverebbono essi medesimi per l'onore proprio negare, perché era manifestissimo
a tutto il mondo che, non per volontà ma per fuggire il pericolo, partendosi
nell'avversità dagli Aragonesi da' quali nelle prosperità aveano ricevuti
grandissimi benefici, apersono al re le terre loro. Dunque, essendo agli
stipendi degli inimici e di animo alienissimo dal nome franzese, né avendo
ricevuta perfettamente sicurtà alcuna, essere stati per giusta ragione di guerra
fatti prigioni. Queste cose si dicevano contro agli Orsini, le quali essendo
sostentate dalla potenza di Lignì e dall'autorità de' Colonnesi, i quali per
l'antiche emulazioni e diversità delle fazioni apertamente gli impugnavano, non
era stata mai data sentenza ma deliberato che seguitassino il re: benché data
speranza di liberargli, come fusse arrivato in Asti.
Ma il
pontefice, benché per l'averlo i collegati confortato a partirsi, non fusse
stato senza inclinazione di riconciliarsi con Carlo, col quale continuamente
trattava, nondimeno, prevalendo finalmente il sospetto conceputo di lui, con
tutto che al re avesse dato qualche speranza di aspettarvelo, due dì innanzi
che egli entrasse in Roma, accompagnato dal collegio de' cardinali e da dugento
uomini d'arme mille cavalli leggieri e tremila fanti, e messo sufficiente
presidio in Castel Santo Angelo se ne andò a Orvieto; lasciato legato in Roma
il cardinale di Santa Anastasia a ricevere e onorare il re; il quale, entrato
per Trastevere per sfuggire Castel Santo Angelo, andò ad alloggiare nel borgo,
rifiutato l'alloggiamento offertogli per commissione del pontefice nel palagio
di Vaticano. Da Orvieto il pontefice, come intese il re approssimarsi a
Viterbo, benché gli avesse di nuovo data speranza di convenire seco in qualche
luogo comodo tra Viterbo e Orvieto, se ne andò a Perugia, con intenzione, se
Carlo si dirizzava a quel cammino, di andare ad Ancona, per potere con la
comodità del mare ridursi in luogo totalmente sicuro. E nondimeno il re, benché
sdegnato molto con lui, rilasciò le fortezze di Civitavecchia e di Terracina,
riserbandosi Ostia, la quale, alla partita sua d'Italia, lasciò in potestà del
cardinale di San Piero a Vincola vescovo ostiense: passò medesimamente per il
paese della Chiesa come per paese amico; eccetto che l'antiguardia, ricusando
gli uomini di Toscanella di alloggiarla nella terra, entratavi dentro per
forza, la messe a sacco con uccisione di molti.
Dimorò poi il
re, senza alcuna cagione, sei giorni in Siena, non considerando, né per se
stesso né per essergli instantemente ricordato dal cardinale di San Piero in
Vincola e dal Triulzio, quanto fusse pernicioso il dare tanto tempo agli
inimici di provedersi, e di unire le forze loro. Né ricompensò perciò la
perdita del tempo con l'utilità delle deliberazioni. Perché in Siena si trattò
la restituzione delle fortezze de' fiorentini, dal re alla partita sua di
Napoli efficacemente promessa, e poi nel cammino più volte confermata; per la
quale i fiorentini, oltre a essere parati a pagargli trentamila ducati che
restavano della somma convenuta in Firenze, offerivano di prestargliene
settantamila, e mandare seco insino in Asti Francesco Secco loro condottiere
con trecento uomini d'arme e dumila fanti: in modo che la necessità che aveva
il re di danari, l'essergli molto utile l'augumentare l'esercito suo, il
rispetto della fede e del giuramento reale, indusse quasi tutti quegli del
consiglio a confortare efficacemente la restituzione, riservandosi Pietrasanta
e Serezana, quasi come instrumento a volgere alla divozione sua più agevolmente
l'animo de’ genovesi. Ma era destinato che in Italia rimanesse accesa la
materia di nuove calamità. Lignì, giovane e inesperto, ma che era nato d'una
sorella della madre del re e molto favorito da lui, mosso o da leggierezza o da
sdegno che i fiorentini si fussino accostati al cardinale di San Malò, impedì
questa deliberazione, non allegando altra ragione che la compassione de'
pisani, e disprezzando gli aiuti de' fiorentini, per essere (come diceva)
l'esercito franzese potente a battere tutte le genti di guerra italiane unite
insieme; e a Lignì acconsentiva monsignore di Pienes, perché sperava ch'il re
gli concedesse il dominio di Pisa e di Livorno.
Trattossi
ancora in Siena del governo di quella città; perché molti degli ordini del
popolo e de' riformatori, per deprimere la potenza dell'ordine del Monte de'
nove, instavano che, introdotta una forma nuova di governo, e levata la guardia
tenuta dal Monte de' nove al palagio publico, vi restasse una guardia di
franzesi sotto la cura di Lignì: la quale offerta benché nel consiglio regio,
come cosa poco durabile e impertinente al tempo presente, rifiutata fusse,
nondimeno Lignì, il quale vanamente disegnava di farsene signore, ottenne che
Carlo pigliasse in protezione con certi capitoli quella città, obligandosi alla
difesa di tutto lo stato possedevano; eccetto che di Montepulciano, del quale
disse non volere né per i fiorentini né per i sanesi intromettersi; e la
comunità di Siena, con tutto che di questo non si facesse menzione nella
capitolazione, elesse, con consentimento di Carlo, Lignì per suo capitano,
promettendogli ventimila ducati per ciascun anno, con obligazione di tenervi un
luogotenente con trecento fanti per guardia della piazza: che vi lasciò di
quegli che erano con l'esercito franzese. La vanità delle quali deliberazioni
presto apparì, perché non molto dipoi l'ordine de' nove, vendicatasi con l'armi
la solita autorità, cacciò di Siena la guardia, e licenziò monsignore di Lilla
che Carlo v'aveva lasciato per suo imbasciadore.
|