IX. Le posizioni de' due eserciti. La battaglia di Fornovo e le sue
vicende; il pericolo corso dal re di Francia. Tanto i veneziani quanto i
francesi si attribuiscono la vittoria. Confutazione di voci diffusesi intorno
al contegno di Lodovico Sforza. Carlo giunge ad Asti senza perdite per quanto
incalzato da truppe nemiche. Il fallimento del tentativo dei francesi contro
Genova.
Era la fronte
degli alloggiamenti dell'uno e dell'altro esercito distante manco di tre
miglia, distendendosi in sulla ripa destra del fiume del Taro, benché più
presto torrente che fiume, il quale nascendo nella montagna dello Apennino, poi
che ha corso alquanto per una piccola valle ristretta da due colline, si
distende nella pianura larga di Lombardia insino al fiume del Po. In sulla
destra di queste due colline, scendendo insino alla ripa del fiume, alloggiava
l'esercito de' collegati, fermatosi, per consiglio de' capitani, più presto da
questa parte che dalla ripa sinistra onde aveva a essere il cammino degli
inimici, per non lasciare loro facoltà di volgersi a Parma; della quale città,
per la diversità delle fazioni, non stava il duca di Milano senza sospetto,
accresciuto perché il re si era fatto concedere da' fiorentini insino in Asti
Francesco Secco, la cui figliuola era maritata nella famiglia de' Torelli,
famiglia nobile e potente nel territorio di Parma. Ed era l'alloggiamento de'
collegati fortificato con fossi e con ripari, e abbondante d'artiglierie:
innanzi al quale i franzesi, volendo ridursi nello astigiano, e però passando
il Taro accanto a Fornuovo, erano necessitati di passare, non restando in mezzo
tra loro altro che 'l fiume. Stette tutta la notte l'esercito franzese con non
mediocre travaglio, perché per la diligenza degli italiani, che facevano
correre gli stradiotti insino in sullo alloggiamento, si gridava spesso
all'arme nel campo loro, che tutto si sollevava a ogni strepito, e perché
sopravenne una repentina e grandissima pioggia mescolata con spaventosi folgori
e tuoni e con molte orribili saette, la quale pareva che facesse pronostico di
qualche tristissimo accidente; cosa che commoveva molto più loro che l'esercito
italiano, non solo perché, essendo in mezzo delle montagne e degli inimici, e
in luogo dove avendo qualche sinistro non restava loro speranza alcuna di
salvarsi, erano ridotti in molto maggiore difficoltà, e perciò avevano giusta
cagione d'avere maggiore terrore, ma ancora perché pareva più verisimile che i
minacci del cielo, non soliti a dimostrarsi se non per cose grandi,
accennassino più presto a quella parte dove si ritrovava la persona d'un re di
tanta degnità e potenza.
La mattina
seguente, che fu il dì sesto di luglio, cominciò a l'alba a passare il fiume
l'esercito franzese, precedendo la maggior parte dell'artiglierie seguitate
dall'antiguardia; nella quale il re, credendo che contro a quella avesse a
volgersi l'impeto principale degl'inimici, aveva messo trecento cinquanta
lancie franzesi, Gianiacopo da Triulzio con le sue cento lancie, e tremila
svizzeri che erano il nervo e la speranza di quello esercito, e con questi a
piede Engiliberto fratello del duca di Cleves e il baglì di Digiuno che gli
aveva condotti: a' quali aggiunse il re a piede trecento arcieri e alcuni
balestrieri a cavallo delle sue guardie, e quasi tutti gli altri fanti che
aveva seco. Dietro all'avanguardia seguitava la battaglia, in mezzo della quale
era la persona del re armato di tutte armi in su uno feroce corsiere; e appresso
a lui, per reggere col consiglio e con l'autorità sua questa parte
dell'esercito, monsignore della Tramoglia, capitano molto famoso nel regno di
Francia. Dietro a questi seguitava la retroguardia condotta dal conte di Fois,
e nell'ultimo luogo i carriaggi. E nondimeno il re, non avendo l'animo alieno
dalla concordia, sollecitò, nel tempo medesimo che il campo cominciò a
muoversi, Argentone che andasse a trattare co' proveditori veneti; ma essendo
già, per la levata sua, tutto in arme l'esercito italiano e deliberati i
capitani di combattere, non lasciava più la brevità del tempo e la propinquità
degli eserciti né spazio né comodità di parlare insieme: e già cominciavano a
scaramucciare da ogni parte i cavalli leggieri, già a tirare da ogni parte orribilmente
l'artiglierie, e già gli italiani, usciti tutti degli alloggiamenti,
distendevano i loro squadroni preparati alla battaglia in sulla ripa del fiume.
Per le quali cose non intermettendo i franzesi di camminare, parte in sul greto
del fiume, parte, perché nella stretta pianura non si potevano spiegare
l'ordinanze, per la spiaggia della collina, ed essendo già la avanguardia
condotta al dirimpetto dell'alloggiamento degli inimici, il marchese di
Mantova, con uno squadrone di seicento uomini d'arme de' più fioriti
dell'esercito e con una grossa banda di stradiotti e d'altri cavalli leggieri e
con cinquemila fanti, passò il fiume dietro alla retroguardia de' franzesi;
avendo lasciato in sulla ripa di là Antonio da Montefeltro, figliuolo naturale
di Federigo già duca d'Urbino, con uno grosso squadrone, per passare, quando
fusse chiamato, a rinfrescare la prima battaglia; e avendo oltre a ciò ordinato
che, come si era cominciato a combattere, un'altra parte della cavalleria
leggiera percotesse negli inimici per fianco, e che il resto degli stradiotti,
passando il fiume a Fornuovo, assaltasse i carriaggi de' franzesi: i quali, o
per mancamento di gente o per consiglio (come fu fama) del Triulzio, erano
restati senza guardia, esposti a qualunque volesse predargli. Da altra parte,
passò il Taro con quattrocento uomini d'arme, tra' quali era la compagnia di
don Alfonso da Esti, venuta in campo, perché così volle il padre, senza la sua
persona, e con dumila fanti il conte di Gaiazzo, per assaltare l'antiguardia franzese;
lasciato similmente in sulla ripa di là Annibale Bentivoglio con dugento uomini
d'arme, per soccorrere quando fusse chiamato: e a guardia degli alloggiamenti
restorono due grosse compagnie di gente d'arme e mille fanti, perché i
proveditori viniziani volleno riserbarsi intero, per tutti i casi, qualche
sussidio. Ma vedendo il re venire sì grande sforzo addosso al retroguardo,
contro a quello che si erano persuasi i suoi capitani, voltate le spalle
all'avanguardia, cominciò ad accostarsi con la battaglia al retroguardo,
sollecitando egli, con uno squadrone innanzi agli altri, tanto il camminare che
quando l'assalto incominciò si ritrovò essere nella fronte de' suoi tra' primi
combattitori. Hanno alcuni fatto memoria che non senza disordine passorono il
fiume le genti del marchese, per l'altezza delle ripe e per gli impedimenti
degli alberi e degli sterpi e virgulti, da' quali sono vestite comunemente le
ripe de' torrenti; e aggiungono altri che i fanti suoi, per questa difficoltà e
per l'acque del fiume ingrossate per la pioggia notturna, arrivorono alla
battaglia più tardi, e che tutti non vi si condussono ma ne restorono non pochi
di là dal fiume. Ma come si sia, certo è che l'assalto del marchese fu molto
furioso e feroce, e che gli fu corrisposto con simigliante ferocia e valore:
entrando da ogni parte nel fatto d'arme gli squadroni alla mescolata e non
secondo il costume delle guerre d'Italia, che era di combattere una squadra
contro a un'altra e in luogo di quella che fusse stracca o che cominciasse a
ritirarsi scambiarne un'altra, non facendo se non all'ultimo uno squadrone
grosso di più squadre: in modo che 'l più delle volte i fatti d'arme, ne' quali
sempre si faceva pochissima uccisione, duravano quasi un giorno intero, e
spesso si spiccavano cacciati dalla notte senza vittoria certa d'alcuna delle
parti. Rotte le lancie, nello scontro delle quali caddono in terra da ogni
parte molti uomini d'arme, molti cavalli, cominciò ciascuno a adoperare con la
medesima ferocia le mazze ferrate gli stocchi e l'altre armi corte, combattendo
co' calci co' morsi con gli urti i cavalli non meno che gli uomini;
dimostrandosi certamente nel principio molto egregia la virtù degli italiani,
per la fierezza massime del marchese, il quale, seguitato da una valorosa compagnia
di giovani gentiluomini e di lancie spezzate (sono questi soldati eletti tenuti
fuora delle compagnie ordinarie a provisione), e offerendosi prontissimamente a
tutti i pericoli, non lasciava indietro cosa alcuna, che a capitano
animosissimo appartenesse. Sostenevano valorosamente sì feroce impeto i
franzesi, ma essendo oppressati da moltitudine tanto maggiore cominciavano già
quasi manifestamente a piegarsi, non senza pericolo del re, appresso al quale
pochi passi fu fatto prigione, benché combattesse fieramente, il bastardo di
Borbone: per il caso del quale sperando il marchese avere il medesimo successo
contro alla persona del re, condotto improvidamente in luogo di tanto pericolo
senza quella guardia e ordine che conveniva a principe sì grande, faceva con
molti de' suoi grandissimo sforzo di accostarsegli. Contro a' quali il re,
avendo intorno a sé pochi de' suoi, dimostrando grande ardire si difendeva
nobilmente, più per la ferocia del cavallo che per l'aiuto loro. Né gli
mancorono in tanto pericolo quelli consigli che sogliono, nelle cose difficili,
essere ridotti alla memoria dal timore perché vedendosi quasi abbandonato da'
suoi, voltatosi agli aiuti celesti, fece voto a san Dionigi e a san Martino,
reputati protettori particolari del reame di Francia, che se passava salvo con
l'esercito nel Piemonte andrebbe, subito che fusse ritornato di là da' monti, a
visitare con grandissimi doni le chiese dedicate al nome loro, l'una appresso a
Parigi l'altra a Torsi; e che ciascuno anno farebbe, con solennissime feste e
sacrifici, testimonianza della grazia ricevuta per opera loro: i quali voti
come ebbe fatti, ripreso maggiore vigore, cominciò più animosamente a
combattere sopra le forze e sopra la sua complessione. Ma già il pericolo del
re aveva infiammato talmente quegli che erano manco lontani che, correndo tutti
a coprire con le persone proprie la persona reale, ritenevano pure indietro gli
italiani; e sopravenendo in questo tempo la battaglia sua che era restata
indietro, uno squadrone di quella urtò ferocemente gli inimici per fianco, da
che si raffrenò assai l'impeto loro. E si aggiunse che Ridolfo da Gonzaga, zio
del marchese di Mantova, condottiere di grande esperienza, mentre che i suoi
confortando e dove apparisse principio di disordine riordinando, e ora in qua
ora in là andando, fa l'ufficio di egregio capitano, avendo per sorte alzato
l'elmetto, ferito da uno franzese con uno stocco nella faccia e caduto a terra
del cavallo, non potendo in tanta confusione e tumulto e nella moltitudine sì
stretta di ferocissimi cavalli aiutarlo i suoi, anzi cadendogli addosso altri
uomini e altri cavalli, più tosto soffocato nella calca che per l'armi degli
inimici perdé la vita: caso certamente indegno di lui, perché e ne' consigli
del dì dinanzi e la mattina medesima, giudicando imprudenza il mettere, senza
necessità, tanto in potestà della fortuna, avea contro alla volontà del nipote
consigliato che si fuggisse il combattere. Così variandosi con diversi
accidenti la battaglia, né si scoprendo più per gli italiani che per i franzesi
vantaggio alcuno, era più che mai dubbio chi dovesse essere vincitore; e però,
pareggiata quasi la speranza e il timore, si combatteva da ogni parte con
ardore incredibile, riputando ciascheduno che nella sua mano destra e nella sua
fortezza fusse collocata la vittoria. Accendeva gli animi de' franzesi la
presenza e il pericolo del re, perché non altrimenti, appresso a quella
nazione, per inveterata consuetudine, è venerabile la maestà de' re che si
adori il nome divino, l'essere in luogo che con la vittoria sola potevano
sperare la loro salute; accendeva gli animi degli italiani la cupidità della
preda, la ferocia e l'esempio del marchese, l'avere cominciato a combattere con
prospero successo, il numero grande del loro esercito per il quale aspettavano
soccorso da molti de' suoi; cosa che non speravano i franzesi, perché le genti
loro o erano mescolate tutte nel fatto d'arme o veramente aspettavano a ogn'ora
di essere assaltate dagli inimici. Ma è grandissima (come ognuno sa) in tutte l'azioni
umane la potestà della fortuna, maggiore nelle cose militari che in qualunque
altra, ma inestimabile immensa infinita ne' fatti d'arme; dove uno comandamento
male inteso, dove una ordinazione male eseguita, dove una temerità, una voce
vana, insino d'uno piccolo soldato, traporta spesso la vittoria a coloro che
già parevano vinti; dove improvisamente nascono innumerabili accidenti i quali
è impossibile che siano antiveduti o governati con consiglio del capitano. Però
in tanta dubietà, non dimenticatasi del costume suo, operò quello che per
ancora non operava né la virtù degli uomini né la forza dell'armi. Perché
avendo gli stradiotti, mandati ad assaltare i carriaggi de' franzesi,
cominciato senza difficoltà a mettergli in preda, e attendendo a condurre chi
muli chi cavalli chi altri arnesi di là dal fiume, non solo quell'altra parte
degli stradiotti che era destinata a percuotere i franzesi per fianco, ma
quegli ancora che già erano entrati nel fatto d'arme, vedendo i compagni suoi
ritornarsene agli alloggiamenti carichi di spoglie, incitati dalla cupidità del
guadagno, si voltorono a rubare i carriaggi; l'esempio de' quali seguitando i
cavalli e i fanti, uscivano per la medesima cagione a schiere della battaglia:
donde mancando agli italiani non solo il soccorso ordinato ma inoltre
diminuendosi con tanto disordine il numero de' combattenti, né movendosi
Antonio da Montefeltro, perché, per la morte di Ridolfo da Gonzaga che aveva la
cura, quando fusse il tempo, di chiamarlo, niuno lo chiamava, cominciorno a
pigliare tanto di campo i franzesi che niuna cosa più sostentava gli italiani,
che già manifestamente declinavano, che 'l valore del marchese; il quale
combattendo fortissimamente sosteneva ancora l'impeto degli inimici, accendendo
i suoi, ora con l'esempio suo ora con voci caldissime, a volere più tosto
essere privati della vita che dell'onore. Ma non era più possibile che pochi
resistessino a molti; e già moltiplicando addosso a loro da ogni parte i
combattitori, mortine già una gran parte e feritine molti, massime di quegli
della compagnia propria del marchese, furno necessitati tutti a mettersi in
fuga per ripassare il fiume: il quale per l'acqua piovuta la notte, e che con
grandine e tuoni piovve grandissima mentre si combatteva, era cresciuto in modo
che dette difficoltà assai a chi fu costretto a ripassarlo. Seguitornogli i
franzesi impetuosamente insino al fiume, non attendendo se non ad ammazzare con
molto furore coloro che fuggivano senza farne alcuno prigione, e senza
attendere alle spoglie e al guadagno; anzi si udivano per la campagna spesse
voci di chi gridava: - Ricordatevi, compagnoni, di Guineguaste. - È Guineguaste
una villa in Piccardia presso a Terroana, dove, negli ultimi anni del regno di
Luigi undecimo, l'esercito franzese, già quasi vincitore in una giornata tra
loro e Massimiliano re de' romani, disordinato per avere cominciato a rubare,
fu messo in fuga. Ma nel tempo medesimo che da questa parte dell'esercito con
tanta virtù e ferocia si combatteva, l'avanguardia franzese, contro alla quale
il conte di Gaiazzo mosse una parte de' cavalli, si presentava alla battaglia
con tanto impeto che, impauriti, vedendo massime non essere seguitati da' suoi,
si disordinorono quasi per loro medesimi, in modo che essendo già morti alcuni
di loro, tra i quali Giovanni Piccinino e Galeazzo da Coreggio, ritornorono con
fuga manifesta al grosso squadrone. Ma il marisciallo di Gies, vedendo che
oltre allo squadrone del conte era in sulla ripa di là dal fiume un altro
colonnello di uomini di arme ordinato alla battaglia, non permesse a' suoi che
gli seguitassino: consiglio che dapoi ne' discorsi degli uomini fu da molti
riputato prudente, da molti, che consideravano forse meno la ragione che
l'evento, più presto vile che circospetto; perché non si dubita che se gli
avesse seguitati, il conte col suo colonnello voltava le spalle, empiendo di
tale spavento tutto 'l resto delle genti rimaste di là dal fiume che sarebbe
stato quasi impossibile a ritenerle che non fuggissino. Perché il marchese di
Mantova, il quale, fuggendo gli altri, ripassò con una parte de' suoi di là dal
fiume, più stretto e ordinato che e' potette, le trovò in modo sollevate che,
cominciando ognuno a pensare di salvare sé e le sue robe, già la strada maestra
per la quale si va da Piacenza a Parma era piena d'uomini di cavalli e di
carriaggi che si ritiravano a Parma: il quale tumulto si fermò in parte con la
presenza e autorità sua, perché mettendogli insieme andò riordinando le cose.
Ma le fermò molto più la giunta del conte di Pitigliano, il quale, in tanta
confusione dell'una parte e dell'altra, presa l'occasione se ne fuggì nel campo
italiano, dove confortando, ed efficacemente affermando che in maggiore
disordine e spavento si trovavano gl'inimici, confermò e assicurò assai gli
animi loro. Anzi fu affermato quasi comunemente che, se non fussino state le
parole sue, che o allora o almeno la notte seguente, si levava con grandissimo
terrore tutto l'esercito. Ritirati gli italiani nel campo loro, da coloro in
fuora che menati (come interviene ne' casi simili) dalla confusione e dal
tumulto, e spaventati dalle acque grosse del fiume, erano fuggiti dispersi in
vari luoghi, molti de' quali scontrandosi nelle genti franzesi sparse per la
campagna, furono ammazzati da loro, il re co' suoi andò a unirsi
all'antiguardia, che non si era mossa del luogo suo; dove consigliò co'
capitani se e' fusse da passare subito il fiume per assaltare agli
alloggiamenti suoi l'esercito inimico, e fu consigliato dal Triulzio e da
Cammillo Vitelli, il quale, mandata la compagnia sua dietro a coloro che
andavano all'impresa di Genova, avea con pochi cavalli seguitato il re per
ritrovarsi al fatto d'arme, che si assaltassino: il che più efficacemente di
tutti confortava Francesco Secco, dimostrando che la strada che si vedeva da
lontano era piena d'uomini e di cavalli, che denotava o che fuggissino verso
Parma o che, avendo incominciato a fuggire, se ne tornassino al campo. Ma era
pure non piccola la difficoltà di passare il fiume, e la gente, che parte avea
combattuto parte stata armata in sulla campagna, affaticata in modo che per
consiglio de' capitani franzesi fu deliberato che s'alloggiasse. Così andorno
ad alloggiare alla villa del Medesano in sulla collina, distante non molto più
d'uno miglio dal luogo nel quale si era combattuto; ove fu fatto
l'alloggiamento senza divisione o ordine alcuno, e con non piccola incomodità,
perché molti carriaggi erano stati rubati dagli inimici.
Questa fu la
battaglia fatta tra gl'italiani e franzesi in sul fiume del Taro, memorabile
perché fu la prima che, da lunghissimo tempo in qua, si combattesse con
uccisione e con sangue, in Italia; perché innanzi a questa morivano pochissimi
uomini in uno fatto d'arme. Ma in questa, se bene dalla parte de' franzesi ne
morirono meno di dugento uomini, degli italiani furno morti più di trecento
uomini d'arme, e tanti altri che ascesono al numero di tremila uomini; tra'
quali Rinuccio da Farnese, condottiere de' viniziani, e molti gentiluomini di
condizione: e rimase in terra per morto, percosso di una mazza ferrata in su
l'elmetto, Bernardino dal Montone, condottiere medesimamente de' viniziani, ma
chiaro più per la fama di Braccio dal Montone suo avolo, uno de' primi
illustratori della milizia italiana, che per propria fortuna o virtù. E fu più
maravigliosa agli italiani tanta uccisione perché la battaglia non durò più di
una ora, e perché, combattendosi da ogni parte con la fortezza propria e con
l'armi, s'adoperorno poco l'artiglierie. Sforzossi ciascuna delle parti di
tirare a sé la lama della vittoria e dell'onore di questo giorno. Gl'italiani,
per essere stati salvi i loro alloggiamenti e carriaggi, e per il contrario
l'averne i franzesi perduti molti e tra gli altri parte de' padiglioni propri
del re; gloriandosi, oltre a questo, che arebbono sconfitti gl'inimici se una
parte delle genti loro, destinata a entrare nella battaglia, non si fusse
voltata a rubare; il che essere stato vero non negavano i franzesi. E in modo
si sforzorono i viniziani d'attribuirsi questa gloria che, per comandamento
publico, se ne fece per tutto il dominio loro, e in Vinegia principalmente,
fuochi e altri segni d'allegrezza; né seguitorono nel tempo avvenire più
negligentemente l'esempio publico i privati, perché nel sepolcro di Marchionne
Trivisano, nella chiesa de' frati minori, furno alla sua morte scritte queste
parole: - che in sul fiume del Taro combatté con Carlo re di Francia
prosperamente. - E nondimeno, il consentimento universale aggiudicò la palma a'
franzesi: per il numero de' morti tanto differente, e perché scacciorono
gl'inimici di là dal fiume, e perché restò loro libero il passare innanzi, che
era la contenzione per la quale proceduto si era al combattere.
Soggiornò il dì
seguente il re nel medesimo alloggiamento, e in questo dì si seguitò, per mezzo
del medesimo Argenton, qualche parlamento con gl'inimici: e però si fece tregua
insino alla notte: desiderando, da una parte, il re la sicurtà del passare,
perché, sapendo che molti dell'esercito italiano non avevano combattuto e
vedendo stargli fermi nel medesimo alloggiamento, gli pareva il cammino di
tante giornate per il ducato di Milano pericoloso, con gl'inimici alla coda; e
da altra parte, non si sapeva risolvere, per il debole consiglio il quale,
disprezzati i consigli migliori, usava spesso nelle sue deliberazioni. Simile
incertitudine era negli animi degli italiani: i quali, benché da principio
fussino molto spaventati, si erano rassicurati tanto che la sera medesima della
giornata ebbono qualche ragionamento, proposto e confortato molto dal conte di
Pitigliano, d'assaltare la notte il campo franzese, alloggiato con molto
disagio e senza fortezza alcuna d'alloggiamento: pure, contradicendo molti
degli altri, fu come troppo pericoloso posto da parte questo consiglio.
Sparsesi allora
fama per tutta Italia che le genti di Lodovico Sforza, per ordine suo secreto,
non avevano voluto combattere, perché essendo sì potente esercito de' viniziani
nel suo stato non avesse forse manco in orrore la vittoria loro che de'
franzesi, i quali desiderasse che non restassino né vinti né vincitori, e che,
per essere più sicuro in ogni evento, volesse conservare intere le forze sue;
il che s'affermava essere stato causa che l'esercito italiano non avesse
conseguita la vittoria: la quale opinione fu fomentata dal marchese di Mantova,
e dagli altri condottieri de' viniziani per dare maggiore riputazione a se
medesimi, e accettata volentieri da tutti quegli che desideravano che la gloria
della milizia italiana si accrescesse. Ma io udi' già da persona gravissima, e
che allora era a Milano in grado tale che aveva notizia intera delle cose,
confutare efficacemente questo romore, perché avendo Lodovico voltate quasi
tutte le forze sue all'assedio di Novara, non aveva tante genti in sul Taro che
fussino di molto momento alla vittoria; la quale arebbe ottenuta l'esercito de'
confederati se non gli avessino nociuto più i disordini propri che il non avere
maggiore numero di gente, massime che molte delle viniziane non entrorono nella
battaglia. E se bene il conte di Gaiazzo mandò contro agli inimici una parte
sola, e quella freddamente, potette procedere perché era tanto gagliarda
l'antiguardia franzese che e' conobbe essere di molto pericolo il commettersi
alla fortuna; e in lui, per l'ordinario, arebbono dato più ammirazione l'azioni
animose che le sicure. E nondimeno non furono al tutto inutili le genti
sforzesche, perché, ancora che non combattessino, ritennono l'antiguardia
franzese che non soccorresse dove il re, con la minore e molto più debole parte
dello esercito, sosteneva con gravissimo pericolo tutto il peso della giornata.
Né è questa opinione confermata, se io non mi inganno, più dall'autorità che
dalla ragione. Perché, come è verisimile che se in Lodovico Sforza fusse stata
questa intenzione, non avesse più presto ordinato a' capitani suoi che
dissuadessino l'opporsi al transito de' franzesi? conciossiaché, se il re
avesse ottenuta la vittoria non sarebbono state più salve che l'altre le genti
sue, tanto propinque agli inimici, ancora che non si fussino mescolate nella
battaglia; e con che discorso, con che considerazione, con che esperienza delle
cose, si poteva promettere che, combattendosi, avesse a essere tanto pari la
fortuna che il re di Francia non avesse a essere né vinto, né vincitore? Né
contro al consiglio de' suoi si sarebbe combattuto, perché le genti viniziane,
mandate in quello stato solamente per sicurtà e salute sua, non arebbono
discrepato dalla volontà de' suoi capitani.
Levossi Carlo
con l'esercito, la seguente mattina innanzi giorno, senza sonare trombette, per
occultare il più poteva la sua partita; né fu per quel dì seguitato
dall'esercito de' collegati, impedito, quando bene avesse voluto seguitarlo,
dall'acque del fiume, ingrossato tanto la notte per nuova pioggia che non si
potette, per una grande parte del dì, passarlo. Solamente, declinando già il
sole, passò, non senza pericolo per l'impeto dell'acque, il conte di Gaiazzo
con dugento cavalli leggieri; co' quali seguitando le vestigie de' franzesi,
che camminavano per la strada diritta verso Piacenza, dette loro, massime il
prossimo dì, molti impedimenti e incomodità: e nondimeno essi, benché stracchi,
seguitorono, senza disordine alcuno e senza perdere un uomo solo, il suo cammino;
perché le vettovaglie erano assai abbondantemente somministrate dalle terre
vicine, parte per paura di non essere danneggiate parte per opera del Triulzio,
il quale, cavalcando innanzi a questo effetto, co' cavalli leggieri, moveva gli
uomini ora co' minacci ora con l'autorità sua, grande in quello stato appresso
a tutti ma grandissima appresso a' guelfi; né l'esercito della lega, mossosi il
dì seguente alla partita de' franzesi, e poco disposto, massime i proveditori
viniziani, a rimettersi più in arbitrio della fortuna, s'accostò loro mai tanto
che n'avessino uno minimo disturbo. Anzi, essendo il secondo dì alloggiati in
sul fiume della Trebbia poco di là da Piacenza, ed essendo, per più comodità
dell'alloggiare restate tra il fiume e la città di Piacenza dugento lancie i
svizzeri e quasi tutta l'artiglieria, la notte il fiume per le pioggie crebbe
tanto che, nonostante l'estrema diligenza fatta da loro, fu impossibile che o
fanti o cavalli passassino se non dopo molte ore del dì, né questo senza difficoltà
benché l'acqua fusse cominciata a diminuire: nondimeno non furono assaltati né
dall'esercito inimico che era lontano, né dal conte di Gaiazzo, che era entrato
in Piacenza per sospetto che e' non vi si facesse qualche movimento: sospetto
non al tutto senza cagione, perché si crede che se Carlo, seguitando il
consiglio del Triulzio, avesse spiegate le bandiere e fatto chiamare il nome di
Francesco, piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, sarebbe nata in quello ducato
facilmente qualche mutazione; tanto era grato il nome di colui che avevano per
legittimo signore e odioso quello dell'usurpatore, e di momento il credito e
l'amicizie del Triulzio. Ma il re, essendo intento solamente al passare
innanzi, non voluto udire pratica alcuna, seguitò con celerità il suo cammino;
con non piccolo mancamento, da' primi dì in fuora, di vettovaglie, perché di
mano in mano trovava le terre meglio guardate, avendo Lodovico Sforza
distribuiti, parte in Tortona, sotto Guasparri da San Severino cognominato il
Fracassa, parte in Alessandria, molti cavalli e mille dugento fanti tedeschi
levati dal campo di Novara; ed essendo i franzesi, poi che ebbono passata la
Trebbia, stati sempre infestati alla coda dal conte di Gaiazzo, che aveva
aggiunto a' suoi cavalli leggieri cinquecento fanti tedeschi che erano alla
guardia di Piacenza: non avendo potuto ottenere che gli fussino mandati
dall'esercito tutto il resto de' cavalli leggieri e quattrocento uomini d'arme,
perché i proveditori viniziani, ammuniti dal pericolo corso in sul fiume del
Taro, non vollono consentirlo. Pure i franzesi, avendo quando furno vicini ad
Alessandria preso il cammino più alto verso la montagna, dove ha meno acqua il
fiume del Tanaro, si condusseno senza perdita d'uomini o altro danno, in otto
alloggiamenti, alle mura d'Asti; nella quale città entrato il re alloggiò la
gente di guerra in campagna, con intenzione di accrescere il suo esercito, e
fermarsi tanto in Italia che avesse soccorso Novara; e il campo della lega che
l'aveva seguitato insino in tortonese, disperato di potergli più nuocere,
s'andò a unire con la gente sforzesca intorno a quella città: la quale pativa
già molto di vettovaglie, perché dal duca di Orliens e da' suoi non era stata
usata diligenza alcuna di provederla, come, per essere il paese molto fertile,
arebbono potuto fare abbondantissimamente; anzi, non considerando il pericolo
se non quando era passata la facoltà del rimedio, avevano atteso a consumare
senza risparmio quelle che vi erano.
Ritornorono,
quasi ne' medesimi dì, a Carlo i cardinali e i capitani i quali, con infelice
evento, avevano tentato le cose di Genova. Perché l'armata, presa che ebbe,
nella prima giunta, la terra della Spezie, s'indirizzò a Rapalle, il qual luogo
facilmente occupò; ma uscita del porto di Genova una armata di otto galee
sottili di una caracca e di due barche biscaine, pose di notte in terra
settecento fanti, i quali senza difficoltà presono il borgo di Rapalle con la
guardia de' franzesi che v'era dentro; e accostatasi poi all'armata franzese
che s'era ritirata nel golfo, dopo lungo combattere presono e abbruciorono
tutti i legni, restando prigioni il capitano, e fatti più famosi con questa
vittoria quegli luoghi medesimi ne' quali l'anno precedente erano stati rotti
gli aragonesi. Né fu questa avversità de' franzesi ristorata da quegli che
erano andati per terra: perché, condotti per la riviera orientale insino in val
di Bisagna e a' borghi di Genova, trovandosi ingannati dalla speranza che
avevano conceputa che in Genova si facesse tumulto, e intesa la perdita
dell'armata, passorno quasi fuggendo per la via de' monti, via molto aspra e
difficile, in valle di Pozzeveri, che è all'altra parte della città; donde, con
tutto che di paesani e di genti mandate in loro favore dal duca di Savoia molto
ingrossati fussino, s'indirizzorono con la medesima celerità verso il Piemonte:
né è dubbio che se quegli di dentro non si fussino astenuti da uscire fuora,
per sospetto che la parte Fregosa non facesse novità, che gli arebbono
interamente rotti e messi in fuga. Per il quale disordine, i cavalli de'
Vitelli che si erano condotti a Chiavari, inteso il successo di coloro co'
quali andavano a unirsi, se ne ritornorono tumultuosamente né senza pericolo a
Serezana; e dalla Spezie in fuora, l'altre terre della riviera ch'erano state
occupate da' fuorusciti richiamorono subito i genovesi: come similmente fece
nella riviera di ponente la città di Ventimiglia, che ne' medesimi dì era stata
occupata da Pol Battista Fregoso e da alcuni altri fuorusciti.
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