XII. Condizioni difficili de' francesi in Novara. Segrete pratiche di
concordia fra il re di Francia e il duca di Milano. Patti di pace proposti al
re di Francia e discussione di essi nel consiglio del re. Carlo VIII, fatta la
pace col duca di Milano, ritorna in Francia.
Ma le cose dentro a Novara diventavano
ogni dì più dure e più difficili, con tutto che la virtù de' soldati fusse
grande, e grandissima, per la memoria della ribellione, l'ostinazione de'
novaresi a difendersi; perché erano già diminuite le vettovaglie talmente che
la gente cominciava a patire molto de' cibi necessari: e benché Orliens, poiché
si vidde ristretto, avesse mandate fuora le bocche inutili, non era tanto
rimedio che bastasse; anzi de' soldati franzesi e de' svizzeri, poco abili a
tollerare queste incomodità, incominciavano a infermarsene ogni dì molti. Onde
Orliens, oppresso anche egli di febbre quartana, con messi spessi e lettere
sollecitava Carlo a non prolungare il soccorso; il quale, non essendo ancora
insieme tante genti che fussino abbastanza, non poteva essere sì presto che
alla necessità sua così urgente sodisfacesse. Tentorono nondimeno i franzesi
più volte di mettere di notte in Novara vettovaglia, condotta da grosse scorte
di cavalli e di fanti, ma scoperti sempre dagl'inimici furno costretti a
ritirarsi, e qualche volta con danno non piccolo di coloro la conducevano. E
per chiudere da ogni parte a quegli di dentro la via delle vettovaglie, il
marchese di Mantova assaltò il monasterio di San Francesco propinquo alle mura
di Novara, ed espugnatolo vi messe in guardia dugento uomini d'arme e tremila
fanti tedeschi: donde gli eserciti si sgravorono di molte fatiche, restando
assicurata la strada per la quale si conducevano le loro vettovaglie e serrata
la via della porta di verso il monte di Biandrana, che era la via più facile a
entrare in Novara. Espugnò di più il dì seguente il bastione fatto da' franzesi
alla punta del borgo di San Nazaro, e la notte prossima tutto il borgo e
l'altro bastione contiguo alla porta; nel quale messe la guardia, e fortificò
il borgo: dove il conte di Pitigliano, che era stato condotto da' viniziani con
titolo di governatore, ferito d'uno archibuso appresso alla cintura, stette in
grave pericolo di morte. Per i quali progressi il duca d'Orliens, diffidandosi
di potere più difendere gli altri borghi, i quali quando si ritirò in Novara
aveva fortificati, fattovi mettere fuoco, la notte seguente ridusse tutti i
suoi alla guardia solamente della città, sostentandosi nella estremità della
fame con la speranza del soccorso, che gli cresceva; perché essendo pure
cominciati ad arrivare i svizzeri, l'esercito franzese, passato il fiume della
Sesia, era uscito ad alloggiare in campagna un miglio fuora di Vercelli, e
messa guardia in Bolgari aspettava il resto de' svizzeri, credendosi che come
fussino arrivati si andrebbe subitamente a soccorrere Novara: cosa piena di
molte difficoltà, perché le genti italiane erano alloggiate in forte sito e con
gagliardi ripari, e il cammino da Vercelli a Novara era cammino copioso
d'acque, e difficile per i fossi molto larghi e profondi de' quali è pieno il paese;
e tra Bolgari, guardato da' franzesi, e l'alloggiamento degli italiani era
Camariano, guardato da essi. Per le quali difficoltà non appariva nell'animo
del re né degli altri molta prontezza. E nondimeno, se tutto il numero de'
svizzeri fusse arrivato più presto, arebbono tentata la fortuna della
battaglia: l'evento della quale non poteva essere se non molto dubbio per
ciascuna delle parti. E però, conoscendosi il pericolo da tutti, non mancavano
continuamente tra il re di Francia e il duca di Milano secrete pratiche di
concordia; benché con poca speranza, per la diffidenza grande che era tra loro,
e perché l'uno e l'altro, per mantenersi in maggiore riputazione, dimostrava di
non averne desiderio.
Ma il caso
aperse uno altro mezzo più espedito a tanta conclusione. Perché essendo in
quegli medesimi dì morta la marchesana di Monferrato, e trattandosi di chi
dovesse pigliare il governo di un piccolo figliuolo che aveva lasciato, al
quale governo aspiravano il marchese di Saluzzo e Costantino fratello della
marchesana morta, uno degli antichi signori di Macedonia, occupata molti anni
innanzi da Maumeth ottomanno, il re, desideroso della quiete di quello stato,
mandò, per ordinarlo secondo il consenso de' sudditi, Argenton a Casale
Cervagio; dove essendo similmente andato, per condolersi della medesima morte,
un maestro di casa del marchese di Mantova, nacque, tra questi due,
ragionamento del beneficio che riporterebbe ciascuna delle parti della pace; il
quale ragionamento procedé tanto avanti che, avendo Argenton, per conforto suo
scritto sopra il medesimo a' proveditori viniziani, ripetendo le cose
cominciate a trattare con loro insino in sul Taro, essi prestando orecchi e
comunicando co' capitani del duca di Milano, finalmente tutti concordi
mandorono a ricercare il re, il quale era venuto a Vercelli, che deputasse
alcuni de' suoi, acciocché in qualche luogo comodo si conducessino a parlamento
con quegli i quali sarebbono deputati da loro: il che avendo il re consentito,
si congregorno il dì seguente, tra Bolgari e Camariano, per i viniziani il
marchese di Mantova e Bernardo Contarino proveditore de' loro stradiotti, per
il duca di Milano Francesco Bernardino Visconte, e per il re di Francia il
cardinale di San Malò, il principe d'Oranges, il quale passato nuovamente di
qua da' monti aveva per commissione del re la cura principale di tutto
l'esercito, il marisciallo di Gies, Pienes e Argenton. I quali essendosi
convenuti insieme più volte; e inoltre andati, in diversi dì, alcuni di essi,
dall'uno esercito all'altro, si ristrignevano principalmente le differenze alla
città di Novara: perché il re, non ponendo difficoltà nell'effetto della
restituzione ma nel modo, per minore offesa dell'onore proprio faceva instanza
che, in nome del re de' romani, diretto signore del ducato di Milano, si
dipositasse in mano d'uno di quegli capitani tedeschi che erano nel campo
italiano; ma i collegati instavano si rilasciasse liberamente. Né si potendo
questa e l'altre difficoltà che accadevano risolvere così presto come arebbono
avuto di bisogno quegli che erano in Novara, ridotti tanto allo estremo che già
per la fame, e per le infermità causate da quella, vi erano morti circa dumila
uomini della gente di Orliens, fu fatto tregua per otto dì; dando facoltà a lui
e al marchese di Saluzzo di andare con piccola compagnia a Vercelli, ma con
promessa di ritornare dentro con la medesima compagnia se la pace non si
facesse: per sicurtà del quale, avendo a passare per le forze degli inimici, il
marchese di Mantova andò a una torre presso a Bolgari, in potestà del conte di
Fois. Né arebbeno i soldati, i quali restorono in Novara, lasciatolo partire se
da lui non avessino avuta la fede che, fra tre dì, o vi ritornerebbe o che essi
arebbono per opera sua facoltà d'uscirsene; e dal marisciallo di Gies, che era
andato a Novara per condurlo fuora, un suo nipote per statico: perché erano
consumati non solo i cibi consueti al vitto umano ma eziandio gli immondi, da'
quali gli uomini in tanta estremità non si erano astenuti. Ma come il duca
d'Orliens fu arrivato al re si prolungò la tregua per pochi dì, con patto che
tutta la gente sua uscisse di Novara, lasciando la terra in potestà del popolo,
sotto giuramento di non la dare ad alcuna delle parti senza il consentimento
comune; e che nella rocca rimanessino per Orliens trenta fanti, a' quali fusse
dal campo italiano giornalmente mandata la vettovaglia. Così uscirono di Novara
tutti i soldati, accompagnati, insino che furono in luogo sicuro dal marchese
di Mantova e da Galeazzo da San Severino, ma tanto indeboliti e consumati dalla
fame che non pochi di loro morirono appena arrivati a Vercelli e gli altri
restorno inutili a adoperarsi in questa guerra. E in quegli dì medesimi arrivò
il baglì di Digiuno col resto de' svizzeri; de' quali se bene non n'avesse
dimandati più che diecimila, non aveva potuto proibire che alla fama de' danari
del re di Francia non concorressino quasi popolarmente, in modo che ascendevano
al numero di ventimila: de' quali la metà si congiunse col campo che era appresso
a Vercelli, l'altra metà si fermò discosto dieci miglia, non si giudicando
totalmente sicuro che tanta quantità di quella nazione stesse insieme nel
medesimo esercito. La cui venuta se fusse stata qualche dì prima arebbe
facilmente interrotte le pratiche dell'accordo, perché nell'esercito del re
erano, oltre a questi, ottomila fanti franzesi, dumila svizzeri di quegli che
erano stati a Napoli, e le compagnie di mille ottocento lancie; ma essendo la
materia tanto avanti, e già abbandonata Novara, non si intermessono i
ragionamenti; con tutto che il duca di Orliens facesse opera efficace in
contrario, e che nella sua sentenza molti altri concorressino. E perciò erano
ogni dì i deputati nel campo italiano a praticare col duca di Milano,
ritornatovi nuovamente per trattare da se medesimo cosa di tanta importanza,
benché in presenza continuamente degli imbasciadori de' collegati; e finalmente
i deputati ritornorono al re, riportando, per ultima conclusione di quello in
che si poteva convenire: che tra il re di Francia e il duca di Milano fusse
perpetua pace e amicizia, non derogando per questo il duca all'altre sue
confederazioni; consentendo che la terra di Novara gli fusse restituita dal
popolo e rilasciatagli la rocca da' fanti, e si restituissino la Spezie e gli
altri luoghi occupati da ciascheduna delle parti: che al re fusse lecito armare
a Genova, suo feudo, quanti legni volesse, e servirsi di tutte le comodità di
quella città, eccetto che in favore degl'inimici di quello stato; e che per
sicurtà di questo i genovesi gli dessino certi statichi: che 'l duca di Milano
gli facesse restituire i legni perduti a Rapallo e le dodici galee ritenute a
Genova, e gli armasse di presente a spese proprie due caracche grosse genovesi,
le quali, insieme con quattro altre armate in nome suo, disegnava di mandare al
soccorso del regno di Napoli; e che l'anno futuro fusse tenuto a dargliene tre
nel modo medesimo: concedesse passo alle genti che 'l re mandasse per terra al
medesimo soccorso, ma non passando per lo stato suo più che dugento lancie per
volta; e in caso che il re ritornasse a quella impresa personalmente dovesse il
duca seguitarlo con certo numero di genti: avessino i viniziani facoltà
d'entrare fra due mesi in questa pace, ed entrandovi ritirassino l'armata loro
del regno di Napoli né potessino dare soccorso alcuno a Ferdinando; il che
quando non osservassino, se il re volesse muovere loro la guerra fusse obligato
il duca ad aiutarlo, per il quale si acquistasse tutto quello che si pigliasse
dello stato de' viniziani: pagasse il duca, per tutto marzo prossimo, ducati
cinquantamila a Orliens per le spese fatte a Novara; e de' danari prestati al
re quando passò in Italia lo liberasse d'ottantamila ducati, gli altri, ma con
termine più lungo, gli fussino restituiti: fusse assoluto dal bando avuto dal
duca, e rendutogli i suoi beni, il Triulzio; e il bastardo di Borbone preso
nella giornata del Taro, e Miolans che era stato preso a Rapalle e tutti gli
altri prigioni, fussino liberati: che il duca facesse partire di Pisa il
Fracassa il quale poco innanzi v'aveva mandato, e tutte le genti sue e de'
genovesi; né potesse impedire la recuperazione delle terre a' fiorentini:
deponesse infra un mese il castelletto di Genova nelle mani del duca di
Ferrara, che chiamato, per questo, dall'uno e dall'altro era venuto nel campo
italiano; il quale l'avesse a guardare due anni a spese comuni, obligandosi con
giuramento di consegnarlo, eziandio durante il tempo predetto, al re di Francia
in caso che 'l duca di Milano non gli osservasse le promesse; il quale,
conchiusa che fusse la pace, avesse a dare subito statichi al re per sicurtà di
deporre al tempo convenuto il castelletto. Queste condizioni, riferite al re
dai suoi che l'avevano trattate, furono da lui proposte nel suo consiglio; nel
quale, variando gli animi di molti, monsignore della Tramoglia parlò in questa
sentenza:
- Se nella
presente deliberazione non si trattasse, magnanimo re, se non d'accrescere con
opere valorose nuova gloria alla corona di Francia, io mi moverei per avventura
più lentamente a confortare che la persona vostra reale si esponesse a nuovi
pericoli; ancora che l'esempio di voi medesimo vi dovesse consigliare in
contrario, perché non mosso da altro che dalla cupidità della gloria deliberaste,
contro a' consigli e contro a' prieghi di quasi tutto il vostro reame, di
passare l'anno precedente in Italia al conquisto del regno di Napoli: ove
avendo con tanta fama e onore avuto sì prospero successo la impresa vostra, è
cosa manifestissima che oggi non viene solo in consulta se s'ha a rifiutare
l'occasione d'acquistare onori e gloria nuova, ma se s'ha a deliberarsi di
disprezzare e di lasciare perdere quella che con sì gravi spese e con tanti
pericoli avete conseguita, e convertire l'onore acquistato in grandissima
ignominia, ed essere voi quello che riprendiate e condanniate le deliberazioni
fatte da voi medesimo. Perché poteva la Maestà Vostra senza alcuno carico suo
starsene in Francia, né poteva quello che al presente sarà attribuito da tutto
il mondo a somma timidità e viltà essere allora attribuito ad altro che a
negligenza, o alla età occupata ne' piaceri. Poteva la Maestà Vostra, subito
che fu giunta in Asti, con molto minore vergogna sua ritornarsene in Francia,
dimostrando che a lei le cose di Novara non attenessino; ma ora, poiché fermata
qui con l'esercito suo ha publicato d'essersi fermata per liberare dallo
assedio Novara e, per questo, fatto venire di Francia tanta nobiltà, e con
intollerabile spesa condotti tanti svizzeri, chi può dubitare che, non la
liberando, la gloria vostra e del vostro reame non si converta in eterna
infamia? Ma ci sono più potenti o (se ne' petti magnanimi de' re non può essere
maggiore né più ardente stimolo che la cupidità della fama e de la gloria)
almanco più necessarie ragioni: perché la ritirata nostra in Francia,
consentendo per accordo la perdita di Novara, non vuole dire altro che la
perdita di tutto il regno di Napoli, che la distruzione di tanti capitani, di
tanta nobiltà franzese, rimasta sotto la speranza vostra, sotto la fede data da
voi di presto soccorrergli, alla difesa di quel reame; i quali resteranno
disperati del soccorso come intenderanno che voi, trovandovi in sulle frontiere
d'Italia con tanto esercito, con tante forze, cediate agl'inimici. Dependono in
grande parte, come ognuno sa, dalla riputazione i successi delle guerre; la
quale quando declina, declina insieme la virtù de' soldati diminuisce la fede
de' popoli annichilansi l'entrate deputate a sostenere la guerra, e per
contrario cresce l'animo degl'inimici alienansi i dubbii e augumentansi in
infinito tutte le difficoltà. Però mancando, con nuova sì infelice,
all'esercito nostro il suo vigore, e diventando maggiori le forze e la
riputazione degl'inimici, chi dubita che presto sentiremo la ribellione di
tutto il regno di Napoli? presto la disfazione del nostro esercito? e che
quella impresa, cominciata e proseguita con tanta gloria, non ci arà partorito
altro frutto che danno e infamia inestimabile? Perché chi si persuade che
questa pace si faccia con buona fede dimostra di considerare poco le condizioni
delle cose presenti, dimostra di conoscere poco la natura di coloro co' quali
si tratta; essendo facile a comprendere che, come aremo voltate le spalle
all'Italia, non ci sarà osservata cosa alcuna di quelle che si capitolano, e
che in cambio di darci gli aiuti promessi sarà mandato soccorso a Ferdinando; e
quelle genti medesime che si glorieranno d'averci fatto vilmente fuggire
d'Italia andranno a Napoli ad arricchirsi delle spoglie de' nostri. La quale
ignominia io tollererei più facilmente se per alcuna probabile cagione si
potesse dubitare della vittoria. Ma come può nascere in alcuno questo sospetto
che, considerando la grandezza del nostro esercito, l'opportunità che abbiamo
del paese circostante, si ricordi che, stracchi della lunghezza del cammino,
assediati delle vettovaglie, pochissimi di numero e in mezzo di tutto il paese
inimico, combattemmo sì ferocemente contro a grossissimo esercito in sul fiume
del Taro? il quale fiume corse quel dì con grande impeto, più grosso di sangue
degli inimici che d'acqua propria; aprimmoci col ferro la strada, e vittoriosi
cavalcammo otto giorni per il ducato di Milano, che tutto ci era contrario?
Abbiamo al presente il doppio più cavalleria e tanti più fanti franzesi che
allora non avevamo, e in cambio di tremila svizzeri n'abbiamo ora ventiduemila:
gl'inimici, se bene augumentati di fanti tedeschi, si può dire che a
comparazione nostra siano poco augumentati, perché la cavalleria loro è quasi
la medesima, sono i medesimi capitani; e battuti una volta con tanto danno da
noi, ritorneranno con grande spavento a combattere. E forse i premi della
vittoria sono sì piccoli che abbino a essere vilipesi da noi? e non più presto
tali che debbiamo cercare di conseguirgli con qualunque pericolo? Perché non si
combatte solamente la conservazione di tanta gloria acquistata, la
conservazione del regno di Napoli, la salute di tanti vostri capitani e di
tanta nobiltà, ma sarà posto in mezzo della campagna lo imperio di tutta
Italia; la quale, vincendo qui, sarà per tutto preda della vittoria nostra:
perché, che altre genti che altri eserciti restano agli inimici? nel campo de'
quali sono tutte l'armi tutti i capitani che hanno potuto mettere insieme. Un
fosso che noi passiamo, un riparo che noi spuntiamo, ci mette in seno cose sì
grandi: lo imperio e le ricchezze di tutta Italia, la facoltà di vendicarci di
tante ingiurie. I quali due stimoli, soliti ad accendere gli uomini pusillanimi
e ignavi, se non moveranno la nazione nostra bellicosa e feroce potremo dire
certamente esserci mancata più presto la virtù che la fortuna; la quale ci ha
arrecato occasione di guadagnare in sì piccolo campo, in sì poche ore, premi
tanto grandi e tanto degni che né più grandi né più degni n'aremmo saputo noi
medesimi desiderare. -
Ma in contrario
il principe di Oranges parlò così:
- Se le cose
nostre, cristianissimo re, non fussino ridotte in tanta strettezza di tempo, ma
fussino in grado che ci dessino spazio d'accompagnare le forze con la prudenza
e con la industria, e non ci necessitassino, se vogliamo perseverare nell'armi,
a procedere impetuosamente e contro a tutti i precetti dell'arte militare,
sarei ancora io uno di quegli che consiglierei che si rifiutasse l'accordo;
perché in verità molte ragioni ci confortano a non l'accettare, non si potendo
negare che il continuare la guerra sarebbe molto onorevole e molto a proposito
delle cose nostre di Napoli. Ma i termini ne' quali è ridotta Novara e la
rocca, dove non è da vivere pure per un giorno, ci costringono, se la vogliamo
soccorrere, ad assaltare gl'inimici subitamente; e quando pure, lasciandola
perdere, pensiamo a trasferire in altra parte dello stato di Milano la guerra,
la stagione del verno che si appropinqua, molto incomoda a guerreggiare in
questi luoghi bassi e pieni di acqua, la qualità del nostro esercito il quale,
per la natura e moltitudine sì grande de' svizzeri, se non sarà adoperato
presto potrebbe essere più pernicioso a noi che agl'inimici, la carestia
grandissima de' danari per la quale è impossibile il mantenerci qui lungamente,
ci necessitano, non accettando l'accordo, a cercare di terminare presto la
guerra: il che non si può fare altrimenti che andando a dirittura a combattere
con gl'inimici. La qual cosa, per le condizioni loro e del paese, è tanto
pericolosa che e' non si potrà dire che il procedere in questo modo non sia
somma temerità e imprudenza: perché l'alloggiamento loro è tanto forte per
natura e per arte, avendo avuto tempo sì lungo a ripararlo e a fortificarlo, i
luoghi circostanti, che gli hanno messo in guardia sono sì opportuni alla
difesa loro e sì bene muniti, il paese per la fortezza de' fossi e per
l'impedimento dell'acque è sì difficile a cavalcare, che chi disegna d'andare
distesamente a trovargli, e non d'accostarsi loro di passo in passo con le
comodità e co' vantaggi e (come si dice) guadagnando il paese e gli
alloggiamenti opportuni a palmo a palmo, non cerca altro che avventurarsi con
grandissimo e quasi certissimo pericolo. Perché con quale discorso, con quale
ragione di guerra, con quale esempio di eccellenti capitani, si debbe egli
impetuosamente assaltare un esercito sì grosso che sia in uno alloggiamento sì
forte, e sì copioso d'artiglierie? Bisogna, chi vuole procedere altrimenti che
a caso, cercare di diloggiargli del forte loro, col prendere qualche
alloggiamento che gli soprafaccia o con l'impedire loro le vettovaglie; delle
quali cose non veggo se ne possa sperare alcuna se non procedendo maturamente e
con lunghezza di tempo, il quale ciascuno conosce che abilità abbiamo di
aspettare: senza che, la cavalleria nostra non è né di quel numero né di quel
vigore che molti forse si persuadono, essendone, come ognuno sa, ammalati
molti, molti ancora, e con licenza e senza licenza, ritornatisene in Francia, e
la maggiore parte di quegli che restano, stracchi per la lunga milizia, sono
più desiderosi d'andarsene che di combattere; e il numero grande de' svizzeri,
che è il nervo principale del nostro esercito, ci è forse così nocivo come
sarebbe inutile il piccolo numero. Perché chi è quello che, esperto della
natura e de' costumi di quella nazione e che sappia quanto sia difficile,
quando sono tanti insieme, il maneggiargli, ci assicuri che non faccino qualche
pericoloso tumulto, massime procedendo le cose con lunghezza? nella quale, per
cagione de' pagamenti ne' quali sono insaziabili, e per altri accidenti,
possono nascere mille occasioni di alterargli. Così restiamo incerti se gli
aiuti loro ci abbino a essere medicina o veleno; e in questa incertitudine come
possiamo noi fermare i nostri consigli? come possiamo noi risolverci a
deliberazione alcuna animosa e grande? Nessuno dubita che più onorevole
sarebbe, più sicura per la difesa del regno di Napoli, la vittoria che
l'accordo; ma in tutte le azioni umane, e nelle guerre massimamente, bisogna
spesso accomodare il consiglio alla necessità, né, per desiderio di ottenere
quella parte che è troppo difficile e quasi impossibile, esporre il tutto a
manifestissimo pericolo; né è manco ufficio del valoroso capitano fare
operazione di savio che d'animoso. Né è stata l'impresa di Novara
principalmente impresa vostra, né appartiene se non per indiretto a voi che non
pretendete diritto al ducato di Milano; né fu la partita vostra da Napoli per
fermarsi a fare la guerra nel Piemonte ma per ritornare in Francia, a fine di
riordinarvi di danari e di genti, da potere più gagliardamente soccorrere il
regno di Napoli: il quale, in questo mezzo, col soccorso dell'armata partita da
Nizza, con le genti vitellesche con gli aiuti e co' danari de' fiorentini, si
intratterrà tanto che potrà facilmente aspettare le potenti provisioni che,
ricondotto in Francia, voi farete. Non sono già io di quegli che affermi che il
duca di Milano osserverà questa capitolazione; ma essendovi da lui e da'
genovesi dati gli ostaggi, e depositando il castelletto secondo la forma de'
capitoli, n'arete pure qualche arra e qualche pegno. Né sarebbe però da
maravigliarsi molto che egli, per non avere a essere sempre il primo percosso
da voi, desiderasse la pace; né hanno per sua natura le leghe, dove
intervengono molti, tale fermezza o tale concordia che non si possa sperare
d'averne a raffreddare o a disunire dagli altri qualcuno: ne' quali ogni
piccola apertura che noi facessimo, ogni piccolo spiraglio che ci apparisse,
aremmo la vittoria facile e sicura. Io finalmente vi conforto, re
cristianissimo, all'accordo, non perché per se stesso sia utile o laudabile ma
perché appartiene a' prìncipi savi, nelle deliberazioni difficili e moleste,
approvare per facile e desiderabile quella che sia necessaria o che sia manco
di tutte l'altre ripiena di difficoltà e di dispiacere. -
Ripigliò il
duca d'Orliens le parole del principe di Oranges, e con tanta acerbità che,
trascorrendo l'uno e l'altro impetuosamente dalle parole calde alle ingiuriose,
Orliens, presenti tutti, lo smentì; e nondimeno la inclinazione della maggiore
parte del consiglio e quasi di tutto l'esercito era che s'accettasse la pace, potendo
tanto in tutti, e non meno nel re che negli altri, la cupidità del ritornarsene
in Francia che impediva il conoscere il pericolo del regno di Napoli, e quanto
fusse ignominioso il lasciare perdere innanzi agli occhi propri Novara, e la
partita d'Italia con condizioni, per la incertitudine della osservanza, così
inique: la quale deliberazione fu con tanta caldezza favorita dal principe di
Oranges che molti dubitorono che a requisizione del re de' romani, al quale era
deditissimo, non riguardasse meno all'interesse del duca di Milano che a quello
del re di Francia. Ed era grande appresso a Carlo la sua autorità, parte per lo
ingegno e valore suo, parte perché facilmente da' prìncipi sono riputati savi
quegli consigli che si conformano più alla loro inclinazione. Fu adunque
stipulata la pace, la quale non prima giurata dal duca di Milano, il re, tutto
intento al ritorno di Francia, se ne andò subito a Turino; sollecitato anche al
partirsi da Vercelli perché quella parte de' svizzeri che era nel campo suo,
per assicurarsi d'avere lo stipendio per tre mesi interi, come dicevano avere
sempre osservato seco Luigi undecimo, con tutto che e' non fusse stato loro
promesso, e che non avessino militato tanto tempo per lui, trattavano di
ritenere o il re o i principali della sua corte: dal quale pericolo benché
liberatosi con la sùbita partita, nondimeno, avendo essi fatto prigioni il
baglì di Digiuno e gli altri capi che gli avevano condotti fu alla fine
necessitato d'assicurargli, con statichi e con promesse, della dimanda la quale
facevano. Da Turino il re, desideroso di stabilire la pace fatta, mandò al duca
di Milano il marisciallo di Gies il presidente di Gannai e Argenton, per
indurlo a parlamento seco, il che egli dimostrava di desiderare ma dubitare di
qualche fraude; e o per questo sospetto, o forse studiosamente interponendo
difficoltà per non ingelosire gli animi de' collegati, o per ambizione di
condurvisi come non inferiore al re di Francia, proponeva di fare
l'abboccamento in mezzo di qualche riviera, in sulla quale, essendo stabilito
un ponte o con le barche o con altra materia, restasse tra loro uno steccato
forte di legname: nel qual modo si erano altre volte abboccati insieme i re di
Francia e di Inghilterra, e altri prìncipi grandi di ponente. Il che essendo
ricusato dal re come cosa indegna di sé, e avendo ricevuto da lui gli statichi,
mandò Perone di Baccie a Genova, per ricevere le due caracche promessegli e per
armarne a spese proprie quattro altre, per soccorrere le castella di Napoli; le
quali era già certificato non avere ricevuto il soccorso dell'armata mandata da
Nizza, e perciò avere convenuto di arrendersi se fra trenta dì non fussino
soccorse: disegnando mettervi su tremila svizzeri, e congiugnerle con l'armata
ritiratasi a Livorno e con alcuni altri legni che s'aspettavano di Provenza, i
quali senza le navi grosse genovesi non sarebbono stati bastanti a questo
soccorso, essendo già ripieno il porto di Napoli di grossa armata; perché,
oltre a' legni condottivi da Ferdinando, vi avevano i viniziani mandate venti
galee e quattro navi di quella che aveva espugnato Monopoli. Mandò ancora il re
Argenton a Vinegia per ricercargli che entrassino nella pace; e dipoi prese il
cammino di Francia, con tanta celerità e ardore, egli e tutta la corte, d'esservi
presto che, non che altro, non volesse soprasedere in Italia pochi dì per
aspettare che i genovesi gli dessino gli statichi promessi, come senza dubbio
non si partendo così presto fatto arebbono: e così, alla fine d'ottobre
dell'anno mille quattrocento novantacinque, si ritornò di là da' monti, simile
più tosto, non ostante le vittorie ottenute, a vinto che a vincitore; lasciato
in Asti, la quale città simulò d'avere comperata dal duca d'Orliens,
governatore Gianiacopo da Triulzi con cinquecento lancie franzesi, le quali
quasi tutte, fra pochi dì, di propria autorità lo seguitorono; né avendo
lasciato al soccorso del regno di Napoli altra provisione che l'ordine delle
navi che si armavano a Genova e in Provenza, e l'assegnamento degli aiuti e de'
danari promessigli da' fiorentini.
|