LIBRO TERZO.
I. Lodi generali al senato veneziano ed al duca di Milano per aver essi
liberato l'Italia dai francesi. Lodovico Sforza mantiene fede solo ad alcune
delle condizioni di pace. Fa spogliare delle scritture riguardanti i patti
conclusi con Carlo VIII l'oratore fiorentino. Ambizione de' veneziani e dello
Sforza al dominio di Pisa. Restituzione della terra e delle fortezze di Livorno
ai fiorentini. Entraghes malgrado le lettere del re non consegna Pisa ai
fiorentini ed impedisce che essi se ne impadroniscano.
La ritornata
poco onorata del re di Francia di là da' monti, benché proceduta più da
imprudenza o da disordini che da debolezza di forze o da timore, lasciò negli
animi degli uomini speranza non mediocre che Italia, percossa da infortunio
tanto grave, avesse presto a rimanere del tutto libera dallo imperio insolente
de' franzesi; onde risonavano per tutto le laudi del senato viniziano e del
duca di Milano che, prese l'armi, con savia e animosa deliberazione, avessino
vietato che sì preclara parte del mondo non cadesse in servitù di forestieri: i
quali se, acciecati dalle cupidità particolari, non avessino, eziandio con
danno e infamia propria, corrotto il bene universale, non si dubita che Italia
reintegrata co' consigli e le forze loro nel pristino splendore, sarebbe stata
per molti anni sicura dall'impeto delle nazioni oltramontane. Ma l'ambizione,
la quale non permesse che alcuno di loro stesse contento a' termini debiti, fu
cagione di rimettere presto Italia in nuove turbazioni, e che non si godesse il
frutto della vittoria che ebbono poi contro all'esercito franzese, che era
rimasto nel regno di Napoli; la quale vittoria la negligenza e i consigli
imprudenti del re lasciorono loro facilmente conseguire, essendo il soccorso
disegnato da lui, quando si partì d'Italia, restato vano, perché né le
provisioni dell'armata né gli aiuti promessi da' fiorentini ebbono effetto.
Non era
Lodovico Sforza condisceso con sincera fede alla pace con Carlo, perché
ricordandosi, come è natura di chi offende, delle ingiurie che gli avea fatte
si persuadeva non potere più sicuramente commettersi alla sua fede, ma il
desiderio di ricuperare Novara e di liberare dalla guerra lo stato proprio
l'avevano indotto a promettere quello che non aveva in animo di osservare. Né
si dubitò che alla pace fatta con questa simulazione fusse intervenuto il
consentimento del senato viniziano, desideroso d'alleggerirsi senza infamia sua
della spesa smisurata la quale per la loro republica si sosteneva intorno a
Novara. E nondimeno Lodovico, per non si partire subito così impudentemente, ma
con qualche colore, dalla capitolazione, adempié quello che e' non poteva negare
che fusse in arbitrio suo: dette gli statichi, fece liberare i prigioni pagando
del suo proprio le taglie loro, restituì i legni presi a Rapalle, rimosse di
Pisa il Fracassa, il quale non poteva dissimulare che fusse stipendiario suo; e
infra 'l mese convenuto ne' capitoli, consegnò il castelletto di Genova al duca
di Ferrara, che andò in persona a riceverlo. Ma da altra parte lasciò in Pisa
Luzio Malvezzo con non piccolo numero di gente, come soldato de' genovesi;
permesse che andassino nel regno di Napoli due caracche che a Genova s'erano
armate per Ferdinando, scusandosi che, per averle egli soldate innanzi si
conchiudesse la pace, non si consentiva a Genova il negargliene; impedì
occultamente che i genovesi gli dessino gli ostaggi; e, quello che fu di
maggiore momento alla perdita delle castella di Napoli, poi che 'l re ebbe
finito d'armare le quattro navi, ed egli proveduto alle due alle quali era
tenuto, operò che i genovesi dimostrando timore ricusassino ch'elle si
armassino di soldati del re, se prima non ricevevano da lui sufficiente sicurtà
di non se le appropriare, né di tentare con esse di mutare il governo di
Genova: delle quali cavillazioni facendo il re per uomini propri querela a
Lodovico, ora rispondeva avere promesso di dare le navi ma non obligatosi che
le si potessino fornire di gente franzese, ora che il dominio che aveva di
Genova non era assoluto, ma limitato con tali condizioni che in potestà sua non
era il costringergli a fare tutto quello che gli paresse, e specialmente le
cose che essi pretendessino essere pericolose allo stato e alla città propria;
le quali escusazioni per corroborare più, operò che il pontefice comandasse a'
genovesi e a lui, sotto pena delle censure, che non lasciassino cavare di
Genova legni di alcuna sorte al re di Francia. Onde restò vano questo soccorso,
aspettato con sommo desiderio da' franzesi che erano nel reame di Napoli. Come
similmente restorono vani i danari e gli aiuti promessi da' fiorentini. Perché
dopo l'accordo fatto a Turino essendo partito subito con tutte le espedizioni
necessarie Guidantonio Vespucci, uno degli oratori che erano intervenuti a
conchiuderlo, e passando senza sospetto per il ducato di Milano perché la
republica fiorentina non si era dichiarata inimica di alcuno, fu per commissione
del duca ritenuto in Alessandria, toltegli tutte le scritture, ed egli condotto
a Milano; dove intesa la capitolazione e le promesse de' fiorentini, fu
deliberato da' viniziani e dal duca essere bene di non lasciare perire i
pisani, i quali, subito che il re di Francia era partito da Pisa, avevano per
nuovi imbasciadori raccomandate a Vinegia e a Milano le cose loro: movendosi
amendue, con consenso del pontefice e degli oratori degli altri confederati,
sotto pretesto di impedire i danari e le genti che i fiorentini doveano,
riavendo Pisa e l'altre terre, mandare nel regno di Napoli: e perché, essendo
congiunti al re di Francia, potrebbono, diventati più potenti per la
recuperazione di quella città e liberatisi da quello impedimento, nuocere in
molti modi alla salute d'Italia.
Ma si movevano
principalmente per la cupidità d'insignorirsi di Pisa; alla quale preda,
disegnata molto prima da Lodovico, incominciavano medesimamente a volgere gli
occhi i viniziani, come quegli che, per essere dissoluta l'antica unione degli
altri potentati e indebolita una parte di coloro che solevano opporsegli,
abbracciavano già co' pensieri e con le speranze la monarchia d'Italia: alla
quale cosa pareva che fusse molto opportuno il possedere Pisa, per cominciare
con la comodità del porto suo, in quale si giudicava che difficilmente
potessino, non avendo Pisa, conservarsi lungo tempo i fiorentini, a distendersi
nel mare di sotto, e per fermare con la comodità della città un piede di non
piccola importanza in Toscana. Nondimeno erano stati più pronti gli aiuti del
duca di Milano; il quale, intrattenendosi nel tempo medesimo con varie pratiche
co' fiorentini, aveva ordinato che Fracassa, sotto colore di faccende private,
perché avea possessioni in quello contado, andasse a Pisa, e che i genovesi vi
mandassino di nuovo fanti: attendendo in questo mezzo i viniziani a confortare
i pisani con promesse di mandare loro aiuto, per il che avevano mandato a
Genova uno secretario a soldare fanti e a confortare i genovesi a non
abbandonare i pisani; ma il mandargli a Pisa eseguivano lentamente, perché,
mentre che la cittadella era tenuta per il re e, molto più, mentre che il re
era in Italia, non giudicavano essere da fare molto fondamento in quelle cose.
E da altra
parte i fiorentini, intese le nuove convenzioni fatte dagli oratori loro col re
a Turino, avevano augumentato l'esercito loro, per potere, subito che
arrivassino l'espedizioni regie, costrignere i pisani a ricevergli: le quali
mentre ritardano, per l'arrestamento fatto del loro imbasciadore, preso il
castello di Palaia, poseno il campo a Vico Pisano. L'oppugnazione del qual
castello riuscì vana: parte perché i capitani, o con cattivo consiglio o perché
giudicassino non avere gente sufficiente a porre il campo dalla parte di verso
Pisa, massime avendovi i pisani fatto uno bastione in luogo rilevato assai
vicino alla terra, s'accamporono dalla banda di sotto verso Bientina, luogo
poco opportuno a nuocere a Vico, e dove stando restava aperto il cammino da
Pisa e da Cascina agli assediati; parte perché Pagolo Vitelli con la compagnia
sua e de' fratelli, ricevuti tremila ducati da' pisani, v'entrò alla difesa,
dicendo avere lettere dal re e comandamento dal generale di Linguadoca,
fratello del cardinale di San Malò, il quale infermo era rimasto a Pietrasanta,
di difendere, insino che altro non gli fusse ordinato, Pisa e il suo contado:
ed era certamente cosa maravigliosa che in uno tempo medesimo i pisani fussino
difesi dalle genti del re di Francia e aiutati similmente da quelle del duca di
Milano e nutriti di speranze da' viniziani, con tutto che e quel senato e il
duca fussino in manifesta guerra col re. Per il soccorso delle genti de'
Vitelli si difese facilmente Vico Pisano, e con danno non piccolo del campo de'
fiorentini, il quale alloggiava in luogo sì scoperto che era molto offeso
dall'artiglierie state condotte in Vico da' pisani; in modo che, dopo esservi
dimorato molti dì, fu necessario che i capitani disonoratamente se ne
levassino. Ma essendo arrivate poi l'espedizioni regie, le quali duplicate
erano state mandate occultamente per diverse vie, furno subito restituite a'
fiorentini la terra e le fortezze di Livorno e del porto, da Saliente
luogotenente di monsignore di Beumonte, al quale il re l'aveva date a guardia;
e monsignore di Lilla, deputato commissario a ricevere da' fiorentini la
ratificazione dell'accordo fatto a Turino e a fare eseguire la restituzione,
cominciò a trattare con Entraghes, castellano della cittadella di Pisa e delle
rocche di Pietrasanta e di Mutrone, per stabilire seco il dì e il modo del
consegnarle.
Ma Entraghes,
indotto o dalla medesima inclinazione che ebbono in Pisa tutti i franzesi o da
secrete commissioni che avesse da Lignì, sotto 'l cui nome e come dependente da
lui era, quando il re partì da Pisa, stato proposto a questa guardia, o
stimolato dall'amore portava a una fanciulla figliuola di Luca del Lante
cittadino pisano, perché non è credibile lo movessino solamente i danari, de'
quali poteva sperare di ricevere maggiore quantità da' fiorentini, cominciò a
interporre varie difficoltà; ora dando interpretazione fuora del vero senso
alle patenti regie, ora affermando d'avere avuto da principio comandamento di
non le restituire se non riceveva contrasegni occulti da Lignì: sopra le quali
cose essendosi disputato qualche dì, fu necessario a' fiorentini fare nuova
instanza col re, il quale ancora era a Vercelli, che facesse provisione a
questo disordine, nato con tanta offesa della degnità e utilità propria.
Dimostrò il re molestia grande della disubbidienza d'Entraghes, però non senza
indegnazione comandò a Lignì che lo costrignesse a ubbidire; con intenzione di
mandare, con questo ordine e con nuove patenti, e con lettere efficaci del duca
d'Orliens del quale esso era suddito, un uomo d'autorità: ma potendo più la
pertinacia di Lignì e i favori suoi che il poco consiglio del re, fu prolungata
l'espedizione per qualche dì, e alla fine mandato con essa non un uomo
d'autorità ma Lanciaimpugno privato gentiluomo; col quale andò Cammillo
Vitelli, per condurre nel reame di Napoli, con parte de' danari che avevano a
sborsare i fiorentini, le genti sue, le quali, subito che arrivorono le patenti
regie, s'erano unite con l'esercito loro. Non partorì questa espedizione frutto
maggiore che avesse partorito la prima, benché 'l castellano avesse già
ricevuto dumila ducati da' fiorentini per sostentare, insino alla risposta del
re, i fanti che erano alla guardia della cittadella, e che a Cammillo fussino
stati pagati tremila ducati perché aveva impedito che, altrimenti, le lettere
regie si presentassino. Perché il castellano, il quale, secondo che si credé,
aveva ricevute per altra via occultamente da Lignì commissioni contrarie, dopo
cavillazione di molti dì, giudicando che i fiorentini, per essere in Pisa oltre
agli uomini della terra e del contado mille fanti forestieri, non fussino
bastanti a sforzare il borgo di San Marco, congiunto alla porta fiorentina
contigua alla cittadella, alla fronte del quale aveano prima, di suo
consentimento, lavorato uno bastione molto grande, e così potersi da sé
conseguire l'effetto medesimo senza privarsi di tutte l'escusazioni appresso al
re, fece intendere a' commissari fiorentini che si presentassino con l'esercito
alla porta predetta, il che non potevano fare se non espugnavano il borgo,
perché se i pisani non volessino mettergli dentro d'accordo, gli sforzerebbe ad
abbandonarla, essendo sottoposta quella porta all'artiglierie della cittadella,
in modo che contro alla volontà di chi v'era dentro non si poteva difendere.
Però andativi con grande apparato, e con grande ardire e accesa disposizione di
tutto il campo, che alloggiava a San Rimedio luogo vicino al borgo, assaltorono
con tale valore da tre bande il bastione, della disposizione del quale e de'
ripari aveano informazione da Pagolo Vitelli, che molto presto messono in fuga
quegli che lo difendevano; e seguitandogli entrorono alla mescolata con essi
nel borgo, per un ponte levatoio che si congiugneva col bastione, ammazzando e facendo
prigioni molti di loro. Né è dubbio che col medesimo impeto e senza avere aiuto
dalla cittadella arebbono nel tempo medesimo, per la porta dove già erano
entrati alcuni de' loro uomini d'arme, acquistata Pisa, perché i pisani messi
in fuga niuna resistenza faceano; ma il castellano, vedendo le cose riuscire a
fine contrario di quello che aveva disegnato, cominciò a tirare con
l'artiglierie alle genti de' fiorentini: dal quale improviso accidente
sbigottiti i commissari e i condottieri, essendo già dall'artiglierie stati
morti e feriti molti soldati, tra' quali Pagolo Vitelli ferito in una gamba,
disperati di potere con l'opposizione della cittadella pigliare in quel dì
Pisa, fatto sonare a raccolta, feciono ritirare le genti, restando in potestà
loro il borgo acquistato, benché fra pochi giorni fussino necessitati di
abbandonarlo, perché battuti continuamente dall'artiglierie della cittadella
danno grandissimo vi ricevevano; e si ritirorno verso Cascina, attendendo che
provisioni facesse più il re contro a sì manifesta contumacia de' suoi
medesimi.
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