IV. Intimazione del re di Francia al castellano di Pisa d'osservare gli
ordini suoi riguardo alla consegna della fortezza. Il castellano consegna la
fortezza a' pisani. I pisani distruggono la fortezza e si rivolgono al re de'
romani e a diversi stati d'Italia per aiuti. I pisani si pongono sotto la
protezione de' veneziani. Il senato li riceve in protezione. Esaltazione in
Milano della sapienza e dell'ingegno di Lodovico Sforza. Per opera di questo le
fortezze di Serezana e Serezanello son consegnate a' genovesi anziché a'
fiorentini.
Nella fine di
questo anno si terminorono le cose della cittadella di Pisa. Perché il re,
intesa la ostinazione del castellano, vi aveva ultimatamente mandato, con
comandamenti minatori e aspri non solo a lui ma a tutti i franzesi che vi erano
dentro, Gemel, e non molto poi Bonò cognato del castellano, acciocché
dimostratagli per persona confidente la facoltà che aveva di cancellare con
l'ubbidienza gli errori commessi, e da altra parte i pregiudici ne' quali
incorrerebbe perseverando nella disubbidienza, si disponesse più facilmente a
eseguire i comandamenti del re; e nondimeno egli, continuando nella contumacia
medesima, disprezzò le parole di Gemel: il quale vi soprasedé pochissimi dì,
per la commissione che aveva dal re d'andare con Cammillo Vitelli a Verginio.
Né la venuta di Bonò, il quale ritardò molti dì perché per ordine del duca di
Milano fu ritenuto a Serezana, rimosse il castellano dalla sua ostinazione;
anzi tirato Bonò nella sentenza sua, si convenne co' pisani, interponendosi tra
loro Luzio Malvezzi in nome del duca: per virtù della quale convenzione
consegnò a' pisani, il primo dì dell'anno mille quattrocento novantasei, la
cittadella di Pisa, ricevuti da loro per sé dodicimila ducati e ottomila per
distribuire a' soldati che vi erano dentro; de' quali danari, non essendo i
pisani potenti a pagargli, n'ebbono quattromila da' viniziani quattromila da i
genovesi e lucchesi e quattromila dal duca di Milano: il quale nel tempo
medesimo, governandosi con le sue arti, benché poco credute, trattava
simulatamente di ristrignersi co' fiorentini in ferma amicizia e intelligenza, ed
era già restato d'accordo con gli oratori loro delle condizioni. Non pareva per
ragione alcuna verisimile che né Lignì né Entraghes né alcuno altro avessino
usata tanta trasgressione senza volontà del re, essendo massime in non piccolo
detrimento suo; perché la città di Pisa, se bene Entraghes avesse capitolato
che restasse suddita della corona di Francia, rimaneva manifestamente a
divozione de' confederati, e per non avere effetto la restituzione si privavano
i franzesi che erano nel regno di Napoli del soccorso molto necessario delle
genti e de' danari promessi nella capitolazione di Turino. E nondimeno i
fiorentini, i quali con somma diligenza osservorono i progressi di tutte queste
cose, ancoraché da principio molto ne dubitassino, restorono finalmente in
credenza che tutto fusse proceduto contro alla volontà del re: cosa da parere
incredibile a ciascuno che non sapesse quale fusse la sua natura e le
condizioni dello ingegno e de' costumi suoi, e la piccola autorità che egli
riteneva co' suoi medesimi, e quanto si ardisca contro a uno principe che sia
diventato contennendo.
I pisani,
entrati nella cittadella, la distrusseno subito popolarmente insino da'
fondamenti; e conoscendo di non avere forze sufficienti a difendersi per se
stessi, mandorono in un tempo medesimo imbasciadori al papa al re de' romani a'
viniziani al duca di Milano a' genovesi a' sanesi e a' lucchesi, dimandando
soccorso da tutti, ma con maggiore instanza da' viniziani e dal duca di Milano;
nel quale aveano avuto prima inclinazione di trasferire liberamente il dominio
di quella città, parendo loro d'essere costretti di non avere per fine
principale tanto la conservazione della libertà quanto il fuggire la necessità
di ritornare in potestà de' fiorentini, e sperando in lui più che in alcuno
altro, per avergli incitati alla rebellione, per la vicinità, e perché, non
avendo dagli altri collegati riportato altro che speranze, avevano ottenuti da
lui pronti sussidi. Ma il duca, benché ne ardesse di desiderio, era stato sospeso
ad accettarla per non sdegnare gli altri confederati, nel consiglio de' quali
si erano cominciate a trattare le cose de' pisani come causa comune; ora
confortandogli a differire ora proponendo che la dedizione si facesse più tosto
palesemente in nome de' Sanseverini, per iscoprirla effettualmente per sé
quando giudicasse il tempo opportuno: pure, partito che fu d'Italia il re di
Francia, parendogli alleggerito il bisogno che aveva de' collegati, deliberò
d'accettarla. Ma era ne' pisani cominciata a raffreddarsi questa inclinazione,
per la speranza grande che già aveano di essere aiutati dal senato viniziano;
ed era anche dimostrato loro da altri potere più facilmente conservarsi con
l'aiuto di molti che restrignendosi a uno solo, e proposta con questo modo
maggiore speranza di mantenere la libertà: le quali considerazioni potendo più
poiché ebbono ottenuta la cittadella, si sforzavano di aiutarsi co' favori di
ciascuno. Alla quale intenzione era molto opportuna la disposizione degli stati
d'Italia: perché i genovesi per odio de' fiorentini, i sanesi e i lucchesi per
odio e per timore, erano per porgergli sempre qualche sussidio, e per farlo più
ordinatamente trattavano di convenirsi con obligazioni determinate a questo
effetto; e i viniziani e il duca di Milano, per la cupidità di insignorirsene,
non erano per comportare che e' ritornassino sotto il dominio fiorentino; e
giovava loro appresso al pontefice e gli oratori de' re di Spagna il desiderio
della bassezza de' fiorentini, come troppo inclinati alle cose franzesi. Però
uditi in ciascuno luogo benignamente, e ottenuta da Cesare per privilegio la
confermazione della libertà, riportorono da Vinegia e da Milano quelle medesime
promesse di conservargli in libertà che avevano prima, di comune consentimento,
fatte loro, per aiutargli a liberarsi da' franzesi; e il pontefice, in nome e
di consenso di tutti i potentati della lega, gli confortò, per un breve, al
medesimo, promettendo che da tutti sarebbono difesi potentemente: ma il
soccorso efficace fu da' viniziani e dal duca di Milano, questo augumentandovi
le genti che prima v'aveva, quegli mandandovene non piccola quantità. Nella
quale cosa se avessino tutt'a due continuato, non arebbono avuto i pisani
necessità di aderire più all'uno che all'altro di loro, donde si sarebbe forse
più facilmente conservata la concordia comune. Ma accadde presto che il duca,
alienissimo sempre dallo spendere e inclinato da natura a procedere con
simulazioni e con arte, né parendogli che per allora potesse pervenire in lui
il dominio di Pisa, cominciando a somministrare parcamente le cose che
dimandavano i pisani, dette loro occasione di inclinare più l'animo a'
viniziani, i quali senza risparmio alcuno gli provedevano. Onde procedette che,
non molti mesi poi che i franzesi avevano lasciata la cittadella, il senato
viniziano, pregatone con somma instanza da' pisani, deliberò di accettare la
città di Pisa in protezione, più tosto confortandonegli che dimostrando
essergli molesto Lodovico Sforza, ma senza comunicarne con gli altri confederati,
benché da principio gli avessino confortati a mandarvi gente: i quali, ne'
tempi seguenti, allegorono essere restati disobligati dalla promessa fatta a'
pisani d'aiutargli, poi che senza consenso loro avevano convenuto
particolarmente co' viniziani.
È certissimo
che né il desiderio di conservare ad altri la libertà, la quale nella propria
patria tanto amano, né il rispetto della salute comune, come allora e dappoi
con magnifiche parole predicorono, ma la cupidità sola di acquistare il dominio
di Pisa, fu cagione che i viniziani facessino questa deliberazione; per la
quale non dubitavano dovere in breve tempo adempiere il desiderio loro con
volontà de' pisani medesimi, i quali eleggerebbono volentieri di stare sotto
l'imperio veneto per assicurarsi in perpetuo di non avere a ritornare nella
servitù de' fiorentini. E nondimeno questa cosa fu più volte disputata nel
senato lungamente, ritardandosi la inclinazione quasi comune per l'autorità di
alcuni senatori de' più vecchi e di maggiore riputazione, che molto
efficacemente contradicevano; affermando che 'l farsi propria la difesa di Pisa
era cosa piena di molte difficoltà, per essere quella città distante molto per
terra da' loro confini e molto più distante per mare, non potendo essi andarvi
se non per ricetti e porti di altri, e con lunga circuizione di tutti a due i
mari da' quali è cinta Italia; e però non si potere senza gravissime spese
difendere dalle molestie continue de' fiorentini. Essere verissimo che quello
acquisto sarebbe molto opportuno allo imperio veneto, ma doversi prima
considerare le difficoltà del conservarlo, e molto più le condizioni de' tempi
presenti e che effetti potesse partorire questa deliberazione: perché essendo
tutta Italia naturalmente sospettosa della grandezza loro, non potrebbe se non
estremamente dispiacere a tutti uno augumento tale, il che facilmente
partorirebbe maggiori e più pericolosi accidenti che molti per avventura non
pensavano; ingannandosi non mediocremente coloro che si persuadevano che gli
altri potentati avessino oziosamente a comportare che allo imperio veneto,
formidabile a tutti gli italiani, si aggiugnesse l'opportunità sì grande del
dominio di Pisa; i quali se bene non erano potenti come per il passato a
vietarlo con le forze proprie, avevano da altra parte, poi che agli
oltramontani era stata insegnata la strada del passare in Italia, maggiore
occasione di opporsi loro col ricorrere agli aiuti forestieri; a' quali non
essere dubbio che prontamente ricorrerebbono e per odio e per timore, essendo
vizio comune degli uomini volere più tosto servire agli strani che cedere a'
suoi medesimi. E come potersi credere che 'l duca di Milano, solito a
permettere tanto di sé ora alla cupidità e alla speranza ora al timore, e
movendolo al presente non meno lo sdegno che l'emulazione che ne' viniziani si
trasferisse quella preda che avea con tante arti procurata per sé, non fusse
più presto per conturbare di nuovo Italia che sopportare che Pisa fusse
occupata da loro? E benché con le parole e consigli suoi dimostrasse
altrimenti, potersi molto agevolmente comprendere non essere questa la verità
del cuore suo ma insidie, e per fini non sinceri artificiosi consigli: in
compagnia del quale essere prudenza il sostentare quella città, se non per
altro, per interrompere che i pisani non si dessino a lui; ma farsi propria
questa causa e tirare addosso a sé tanta invidia e tanto peso non essere savio
consiglio. Doversi considerare quanto fussino contrari questi pensieri
dall'opere nelle quali si erano affaticati tanti mesi, e continuamente
s'affaticavano; perché non altre cagioni avere mosso quel senato a pigliare
l'armi, con tante spese e pericoli, che 'l desiderio d'assicurare sé e tutta
Italia, da' barbari: a che avendo con sì gloriosi successi dato principio, e
nondimeno essendo appena il re di Francia ripassato di là da' monti, e
tenendosi ancora per cui con uno esercito potente la maggiore parte del regno
di Napoli, che imprudenza che infamia sarebbe, quando era il tempo di stabilire
la libertà e la sicurtà d'Italia, spargere semi di nuovi travagli! che
potrebbeno facilitare al re di Francia il ritornarvi, o al re de' romani
l'entrarvi, che forse, come era noto a ciascuno, non avea, per quello che
pretendeva contro allo stato loro, maggiore e più ardente desiderio di questo.
Non essere la republica veneta in grado che fusse costretta ad abbracciare
consigli pericolosi o farsi incontro alle occasioni immature, anzi niuno in
Italia potere più aspettare l'opportunità de' tempi e la maturità delle
occasioni. Perché le deliberazioni precipitose o dubbie convenivano a chi aveva
difficili o sinistre condizioni, o a chi stimolato dalla ambizione e dalla
cupidità di fare illustre il nome suo temeva non gli mancasse il tempo, non a
quella republica, che collocata in tanta potenza degnità e autorità era temuta
e invidiata da tutto 'l resto d'Italia, e la quale essendo a rispetto de' re e
degli altri prìncipi quasi immortale e perpetua, ed essendo sempre il medesimo
nome del senato viniziano, non aveva cagione di affrettare innanzi al tempo le
sue deliberazioni; e appartenere più alla sapienza e gravità di quel senato,
considerando, come era proprio degli uomini veramente prudenti, i pericoli che
si ascondevano sotto queste speranze e cupidità, e più i fini che i princìpi
delle cose, rifiutati i consigli temerari, astenersi, così nell'occasione di
Pisa come nell'altre che s'offerivano, da spaventare e irritare gli animi degli
altri, almeno insino a tanto che Italia fusse meglio assicurata da' pericoli e
sospetti degli oltramontani; e avvertire sopratutto di non dare causa che di
nuovo vi entrassino, perché l'esperienza aveva dimostrato, in pochissimi mesi,
che tutta Italia quando non era oppressa da nazioni straniere seguitava quasi
sempre l'autorità del senato viniziano, ma quando erano barbari in Italia, in
cambio di essere seguitato e temuto dagli altri, bisognava che insieme con gli
altri temesse le forze forestiere.
Queste e simili
ragioni erano, oltre alla cupidità del numero maggiore, superate ancora dalle
persuasioni di Agostino Barbarico doge di quella città, la cui autorità era
divenuta sì grande che, eccedendo la riverenza de' dogi passati, meritava più
tosto nome di potenza che di autorità; perché, oltre all'essere stato con
felici successi in quella degnità molti anni e l'avere molte preclare doti e
ornamenti, aveva, procedendo artificiosamente, conseguito che molti senatori
che volentieri si opponevano a quegli che, per la fama d'essere prudenti per la
lunga esperienza e per l'avere ottenute le degnità supreme, erano nella
republica di maggiore estimazione, congiuntisi a lui, seguitavano comunemente,
più tosto a uso di setta che con gravità o integrità senatoria, i suoi
consigli. Il quale, cupidissimo di lasciare, con l'ampliazione dello imperio,
chiarissima la memoria del suo nome, né terminando l'appetito della gloria
l'essersi sotto il suo principato l'isola di Cipri, mancati i re della famiglia
Lusignana, aggiunta al dominio viniziano, era molto inclinato che si accettasse
qualunque occasione di accrescere il loro stato. Però, opponendosi a coloro che
nella causa pisana consigliavano il contrario, dimostrava con efficacissime
parole quanto fusse utile e opportuno a quel senato l'acquistare Pisa, e quanto
importante il reprimere con questo mezzo l'audacia de' fiorentini; per opera
de' quali aveano, nella morte di Filippo Maria Visconte, perduta l'occasione di
insignorirsi del ducato di Milano, e che per la prontezza de' danari avevano,
nella guerra di Ferrara e nelle altre imprese, nociuto più loro che alcun altro
de' potentati maggiori. Ricordava quanto rare fussino sì belle occasioni, con
quanta infamia si perdessino, e quanto pungenti stimoli di penitenza
seguitassino chi non l'abbracciava: non essere le condizioni d'Italia tali che
gli altri potentati potessino per se stessi opporsegli; e manco essere da
temere che per questa o indegnazione o timore ricorressino al re di Francia,
perché né il duca di Milano che l'aveva tanto ingiuriato ardirebbe mai di
confidarsene, né muovere l'animo del pontefice questi pensieri, né potere più
il re di Napoli, quando bene avesse ricuperato il regno suo, udire il nome
franzese. Né l'entrare loro in Pisa, benché molesto agli altri, essere
accidente sì impetuoso, né tanto propinquo il pericolo, che per questo s'avessino
gli altri potentati a precipitare a' rimedi che s'usano nell'ultime
disperazioni; perché nelle infermità lente non si accelerano le medicine
pericolose, pensando gli uomini non dovere mancare tempo a usarle: e se in
questa debolezza e disunione degli altri d'Italia essi per timidità
rifiutassino tanta occasione, aspettarsi vanamente di poterlo fare con maggiore
sicurtà quando gli altri potentati fussino ritornati nel pristino vigore e
assicurati dal timore degli oltramontani. Doversi, per rimedio del troppo
timore, considerare che l'azioni mondane erano sottoposte tutte a molti
pericoli, ma conoscere gli uomini savi che non sempre viene innanzi tutto
quello di male che può accadere, perché, per beneficio o della fortuna o del
caso, molti pericoli diventano vani, molti sfuggirsene con la prudenza e con la
industria; e perciò non doversi confondere, come molti poco consideratori della
proprietà de' nomi e della sostanza delle cose affermano, la timidità con la
prudenza, né riputare savi coloro che, presupponendo per certi tutti i pericoli
che sono dubbi e però temendo di tutti, regolano, come se tutti avessino
certamente a succedere, le loro deliberazioni. Anzi non potersi in maniera
alcuna chiamare prudenti o savi coloro che temono del futuro più che non si
debbe. Convenirsi molto più questo nome e questa laude agli uomini animosi,
imperocché conoscendo e considerando i pericoli, e per questo differenti da'
temerari che non gli conoscono e non gli considerano, discorrono nondimeno
quanto spesso gli uomini, ora per caso ora per virtù, si liberano da molte
difficoltà: dunque, nel deliberare, non chiamando meno in consiglio la speranza
che la viltà, né presupponendo per certi gli eventi incerti, non così
facilmente come quegli altri l'occasioni utili e onorate rifiutano. Però,
proponendosi innanzi agli occhi la debolezza e la disunione degli altri
italiani, la potenza e la fortuna grande della republica viniziana, la
magnanimità e gli esempli gloriosi de' padri loro, accettassino con franco
animo la protezione de' pisani, per la quale perverrebbe loro effettualmente la
signoria di quella città, uno senza dubbio degli scaglioni opportunissimi a
salire alla monarchia di tutta Italia.
Ricevette
adunque il senato per publico decreto in protezione i pisani, promettendo
espressamente di difendere la loro libertà. La quale deliberazione non fu da
principio considerata dal duca di Milano quanto sarebbe stato conveniente,
perché non essendo escluso per questo di potervi tenere delle sue genti gli era
grato avere compagni allo spendere, e disegnando per avarizia diminuire del
numero de' soldati che vi teneva non riputava alieno dal beneficio suo che
Pisa, in uno tempo medesimo, fusse cagione di spese gravi a' viniziani e a'
fiorentini; persuadendosi oltre a ciò che i pisani, per la grandezza e per la
vicinità dello stato suo e per la memoria dell'opere fatte da lui per la loro
liberazione, gli fussino tanto dediti che avessino sempre a preporlo a tutti
gli altri. Accresceva questi disegni e speranze fallaci la persuasione, nella
quale poco ricordandosi della varietà delle cose umane si nutriva da se stesso,
d'avere quasi sotto i piedi la fortuna, della quale affermava publicamente
essere figliuolo: tanto era invanito de' prosperi successi, ed enfiato che per
opera e per i consigli suoi fusse passato il re di Francia in Italia,
attribuendo a sé l'essere suto privato Piero de' Medici, poco ossequente alla
sua volontà, dello stato di Firenze, la ribellione de' pisani da' fiorentini, e
l'essere stati cacciati del regno di Napoli gli Aragonesi suoi inimici; e che
poi, avendo mutata sentenza, fusse per i consigli e autorità sua proceduta la
congiunzione di tanti potentati contro a Carlo, la ritornata di Ferdinando nel
regno di Napoli, e la partita del re di Francia d'Italia con condizioni indegne
di tanta grandezza; e che insino nel capitano che aveva in custodia la
cittadella di Pisa avesse potuto più la sua o industria o autorità che la
volontà e i comandamenti del proprio re. Con le quali regole misurando il futuro,
e giudicando la prudenza e lo ingegno di tutti gli altri essere molto inferiore
alla prudenza e ingegno suo, si prometteva d'avere a indirizzare sempre ad
arbitrio suo le cose d'Italia e di potere con la sua industria circonvenire
ciascuno: la quale vana impressione non dissimulandosi né per lui né per i
suoi, né con parole né con dimostrazioni, anzi essendogli grato che così fusse
creduto e detto da tutti, risonava Milano il dì e la notte di voci vane, e si
celebrava per ciascuno, con versi latini e volgari e con publiche orazioni e
adulazioni, la sapienza ammirabile di Lodovico Sforza, dalla quale dependeva la
pace e la guerra d'Italia; esaltando insino al cielo il nome suo e il cognome
del Moro: il quale cognome, impostogli insino da gioventù, perché era di colore
bruno e per l'opinione che già si divulgava della sua astuzia, ritenne
volentieri mentre durò lo imperio suo.
Né fu minore
l'autorità del Moro nelle altre fortezze de' fiorentini che fusse stata in
quella di Pisa, parendo che ad arbitrio suo si governassino in Italia non meno
gli inimici che gli amici. Perché se bene il re udite le querele gravissime
fattegli dagli imbasciadori de' fiorentini se ne fusse commosso gravemente, e
perché almanco fussino restituite loro l'altre avesse mandato, con nuove
commissioni e con lettere di Lignì, Ruberto di Veste suo cameriere, nondimeno,
non essendo appresso agli altri in maggiore prezzo l'autorità sua che ella
fusse appresso a se medesimo, fu tanta l'audacia di Lignì, il quale a molti
affermava non procedere così senza volontà del re, che per le commissioni sue,
aggiunte alla mala volontà de' castellani, furono poco stimati i comandamenti
regi. Però il bastardo di Bienna, il quale per ordine e sotto nome di Lignì
teneva la guardia di Serezana, poiché ebbe condottevi le genti e i commissari
de' fiorentini per riceverne la possessione, la consegnò per prezzo di
venticinquemila ducati a' genovesi; e il medesimo fece, ricevuta certa somma di
danari, il castellano di Serezanello: essendone stato autore e mezzano il Moro.
Il quale, opposto a' fiorentini, benché sotto nome de' genovesi, il Fracassa
con cento cavalli e quattrocento fanti, impedì che e' non ricuperassino tutte
le altre terre che avevano perdute in Lunigiana; delle quali, con l'occasione
delle genti mandate per ricevere Serezana, avevano recuperato una parte. E poco
dipoi Entraghes, sotto la custodia del quale erano anche le fortezze di
Pietrasanta e di Mutrone, e in cui mano era similmente venuta Librafatta,
ritenutasi questa, la quale non molti mesi poi concedette a' pisani, vendé
quelle per ventiseimila ducati a' lucchesi, come precisamente ordinò il duca di
Milano: il quale aveva prima desiderato che le conseguissino i genovesi, ma
mutata poi sentenza elesse gratificarne i lucchesi, acciocché avessino cagione
d'aiutare più prontamente i pisani, e per congiugnersigli più mediante questo
beneficio. Le quali cose significate in Francia, con tutto che 'l re se ne
dimostrasse alterato con Lignì e facesse sbandire Entraghes di tutto il reame,
nondimeno ritornando Bonò, che oltre a essere stato partecipe de' danari de'
pisani aveva trattato in Genova la vendita di Serezana, furono accettate le sue
giustificazioni; e raccolto gratamente uno imbasciadore de' pisani, mandato
insieme con lui a persuadere di volere essere sudditi fedeli della corona di
Francia, e a prestare il giuramento della fedeltà: benché non molto poi,
apparendo vane le sue commissioni, fusse licenziato. Né a Lignì fu imposta
altra pena che, per segno di escluderlo dal favore regio, toltagli la facoltà
di dormire, secondo che era consueto, nella camera del re, alla quale fu presto
restituito; rimanendo in contumacia solamente, benché per non molto lungo
tempo, Entraghes: potendo in queste cose, oltre alla natura del re e gli altri
mezzi e favori, la persuasione, non falsa, che i fiorentini fussino necessitati
a non si separare da lui; perché essendo manifesta per tutto la cupidità de'
viniziani e del duca di Milano, si teneva per certo che e' non arebbono
consentito che essi fussino reintegrati di Pisa, quando bene avessino
acconsentito di collegarsi con loro alla difesa d'Italia. Alla quale cosa
cercavano di indurgli cogli spaventi e co' minacci, non tentando però per
allora altro contro a loro, ma bastandogli, con le genti che avevano messe in
Pisa, mantenere viva quella città e non gli lasciare perdere interamente il
contado.
|