VIII. Colloqui e accordi di Lodovico Sforza con Massimiliano Cesare.
Massimiliano Cesare in Italia. Fedeltà de' fiorentini ai francesi e consigli
politici del Savonarola. Vicende della guerra de' fiorentini per riconquistare
Pisa. Morte di Piero Capponi. Maggiori aiuti de' veneziani a Pisa e minore
fiducia de' pisani in Lodovico Sforza.
È detto di
sopra che, per paura degli apparati franzesi, si era cominciato, più per
sodisfazione di Lodovico Sforza che de' viniziani, a trattare di fare passare
Massimiliano Cesare in Italia; col quale, mentre durava il medesimo timore, fu
convenuto che i viniziani e Lodovico gli dessino per tre mesi ventimila ducati
ciascuno mese perché menasse seco un certo numero di cavalli e di fanti. La
quale convenzione come fu fatta, Lodovico, accompagnato dagli oratori de'
collegati, andò a Manzo, luogo di là dalle Alpi a' confini di Germania, ad
abboccarsi seco; nel quale luogo avendo parlato lungamente, ed essendosi il
medesimo dì ritirato di qua dall'Alpi a Bormi, terra del ducato di Milano,
Cesare il dì seguente, sotto specie di andare cacciando, si trasferì nel luogo
medesimo: ne' quali colloqui di due dì avendo Cesare stabilito con loro il
tempo e il modo del passare, se ne tornò in Germania per sollecitare
l'esecuzione di quel che s'era deliberato. Ma raffreddando intanto il romore
delle preparazioni franzesi, in modo che a questo effetto non pareva più
necessario il farlo passare, Lodovico disegnò di servirsi, ad ambizione, di
quello che prima aveva procurato per propria sicurtà. Però continuando di
sollecitarlo a passare, né volendo i viniziani concorrere a promettergli
trentamila ducati, i quali dimandava oltre a' primi sessantamila che gli erano
stati promessi, si obligò egli a questa dimanda; tanto che finalmente passò
Cesare in Italia, poco innanzi alla morte di Ferdinando: la quale intesa quando
era già vicino a Milano, ebbe qualche pensiero di favorire che il regno di
Napoli pervenisse in Giovanni figliuolo unico del re di Spagna, suo genero; ma
essendogli dimostrato da Lodovico che questo, essendo molesto a tutta Italia,
disunirebbe i confederati e conseguentemente faciliterebbe i disegni del re di
Francia, non solo se ne astenne ma favorì con lettere la successione di
Federigo.
La passata sua
in Italia fu con pochissimo numero di gente, dando voce che prestamente
passerebbe insino alla somma la quale era obligato di menare; e si fermò a
Vigevano. Ove in presenza di Lodovico e del cardinale di Santa Croce,
mandatogli legato dal pontefice, e degli altri oratori de' collegati, fu
ragionato che andasse nel Piemonte, per pigliare Asti e separare dal re di
Francia il duca di Savoia e il marchese di Monferrato: i quali, come membri
dependenti dallo imperio, ricercò che andassino a parlare seco in qualche terra
del Piemonte; ma essendo le forze sue da disprezzare né corrispondendo gli
effetti all'autorità del nome imperiale, né alcuno di essi consentì di andare a
lui, né dell'impresa d'Asti v'era speranza che avesse a succedere
prosperamente. Fece similmente instanza che andasse a lui il duca di Ferrara,
il quale sotto nome di feudatario dello imperio possedeva le città di Modona e
di Reggio, offerendogli per sicurtà sua la fede di Lodovico suo genero; il
quale ricusò di andarvi, allegando così convenire all'onore suo, per tenere
ancora in diposito il castelletto di Genova. Però Lodovico, il quale stimolato
dalla sua antica cupidità e dal dispiacere che Pisa, tanto desiderata da sé,
cadesse con pericolo di tutta Italia in potestà de' viniziani desiderava
sommamente di interrompere questa cosa, confortò Cesare che andasse a quella
città; persuadendosi, con discorso pieno di fallacie, che i fiorentini,
impotenti a resistere a lui e alle forze de' collegati, si rimoverebbono per
necessità dalla congiunzione del re di Francia, né potrebbono ricusare di dare
arbitrio a Cesare che, se non per concordia almeno per via di giustizia,
terminasse le differenze loro co' pisani; e che in sua mano si deponesse Pisa
con tutto il contado: alle quali cose egli sperava con l'autorità sua di fare
consentire i pisani, e che i viniziani, concorrendovi massime la volontà di
tutti gli altri confederati, non si opporrebbono a una conclusione la quale si
dimostrava con tanto beneficio comune e onestissima per sua natura. Perché,
essendo Pisa anticamente terra di imperio, pareva non appartenesse ad altri che
a Cesare la cognizione delle ragioni di quegli che vi pretendevano; e deposta
Pisa in mano di Cesare, sperava Lodovico, con danari e con l'autorità che aveva
con lui, che facilmente glien'avesse a concedere. Questo parere, proposto nel
consiglio sotto colore che, poi che al presente cessava il timore della guerra
[de'] franzesi, era da usare la venuta di Cesare per indurre i fiorentini a
unirsi con gli altri confederati contro al re di Francia, piaceva a Cesare,
malcontento che la venuta sua in Italia non partorisse effetto alcuno, e
perché, avendo, per i concetti suoi vastissimi, e non meno per i suoi disordini
e smisurata prodigalità, sempre necessità di danari, sperava che Pisa avesse a
essere instrumento di cavarne, o da' fiorentini o da altri, grandissima
quantità. Ma fu medesimamente approvato da tutti i confederati, come cosa molto
utile alla sicurtà d'Italia; non contradicendo anche l'oratore veneto, perché
quello senato se bene si accorgeva a che fine tendessino i pensieri di Lodovico
si confidava facilmente d'interrompergli, e sperava che per l'andata di Cesare
potesse facilmente acquistarsi a' pisani il porto di Livorno, il quale unito a
Pisa pareva che privasse d'ogni speranza i fiorentini di potere giammai più
ricuperare quella città.
Avevano prima i
collegati fatto molte volte instanza a' fiorentini che s'unissino con loro e,
nel tempo che più temevano della passata de' franzesi, data speranza di
obligarsi a operare talmente che Pisa ritornasse sotto il dominio loro; ma
essendo sospetta a' fiorentini la cupidità de' viniziani e di Lodovico, né
volendo leggiermente alienarsi dal re di Francia, non avevano udito con molta
prontezza queste offerte. Movevagli inoltre la speranza d'avere, per la passata
del re, a recuperare Pietrasanta e Serezana, le quali terre non potevano
sperare di ottenere da' confederati; e molto più perché, facendo giudicio più
da' meriti loro e da quello che tolleravano per il re che dalla sua natura o
consuetudine, si persuadevano d'avere a conseguire, per mezzo della sua vittoria,
non solo Pisa ma quasi tutto il resto di Toscana: nutriti in questa persuasione
dalle parole di Ieronimo Savonarola, il quale continuamente prediceva molte
felicità e ampliazioni di imperio, destinate dopo molti travagli a quella
republica, e grandissimi mali che accadrebbono alla corte romana e a tutti gli
altri potentati d'Italia; al quale benché non mancassino de' contradittori,
nondimeno dalla maggiore parte del popolo gli era prestata fede grande, e molti
de' principali cittadini, chi per bontà chi per ambizione chi per timore, gli
aderivano. In modo che essendo i fiorentini disposti a continuare nell'amicizia
del re di Francia, non pareva senza ragione che i confederati tentassino di
ridurgli con la forza a quello da che con la volontà erano alieni; e si
giudicava impresa non difficile, perché erano odiati da tutti i vicini, non
potevano sperare aiuto dal re di Francia, conciossiacosaché avendo abbandonato
la salute de' suoi medesimi era credibile avesse a dimenticarsi quella degli
altri, e le spese gravissime con la diminuzione dell'entrate, sopportate già
tre anni, gli avevano talmente esausti che non si credeva potessino tollerare
lunghi travagli.
Perché e questo
anno medesimo avevano continuata sempre la guerra co' pisani: nella quale erano
stati vari gli accidenti, e memorabili più per la perizia dell'armi dimostrata
in molte opere militari da ciascuna delle parti, e per l'ostinazione con la
quale le cose si trattavano, che per la grandezza degli eserciti o per la
qualità de' luoghi intorno a quali si combatteva, che erano castella ignobili e
in sé di piccolo momento. Perché avendo le genti de' fiorentini, poco poi che
la cittadella fu data a' pisani e innanzi che a Pisa sopravenissino gli aiuti
de' viniziani, preso il castello di Buti e accampatisi a Calci, e innanzi lo
pigliassino, per assicurarsi delle vettovaglie, cominciato a fabricare un
bastione in sul monte della Dolorosa, furono i fanti che vi erano a guardia,
per la negligenza loro, rotti dalle genti de' pisani; e poco dipoi, essendo
Francesco Secco con molti cavalli alloggiato nel borgo di Buti, acciocché le
vettovaglie potessino andare sicuramente a Ercole Bentivogli, il quale con la
fanteria de' fiorentini era intorno alla piccola fortezza del monte della
Verrucola, assaltato allo improviso da fanti usciti di Pisa, ed essendo in
luogo difficile a adoperarsi i cavalli, ne perdé non piccola parte. Per i quali
successi parendo più prospere le cose de' pisani, e con speranza di procedere a
maggiore prosperità perché già cominciavano ad arrivare gli aiuti de'
viniziani, Ercole Bentivoglio che alloggiava nel castello di Bientina, inteso
che Giampaolo Manfrone condottiere de' viniziani era con la prima parte delle
genti loro arrivato a Vico Pisano, vicino a Bientina a due miglia, simulando
timore, e ora uscendo in campagna ora, come si scoprivano le genti venete,
ritirandosi in Bientina, poiché lo vedde ripieno d'audacia e di
inconsiderazione, lo condusse con grande astuzia un giorno in un aguato, dove
lo ruppe con perdita della più parte de' fanti e de' cavalli, seguitandolo
insino alle mura di Vico Pisano: ma perché la vittoria non fusse del tutto
lieta, quando volleno ritirarsi, Francesco Secco, il quale quella mattina si
era unito con Ercole, fu morto da uno archibuso. Sopravenneno poi l'altre genti
de' viniziani, tra' quali erano ottocento stradiotti e con loro Giustiniano
Morosino proveditore; per il che essendo i pisani molto superiori, Ercole
Bentivoglio, peritissimo del sito del paese, non volendo mettersi in pericolo né
abbandonare del tutto la campagna, alloggiò in luogo fortissimo tra il castello
di Pontadera e il fiume dell'Era, con l'opportunità del quale alloggiamento
raffrenò assai l'impeto degli inimici: i quali in tutto questo tempo non
presono altro che il castello di Buti, ottenendolo a discrezione; e attendevano
a predare tutto il paese co' loro stradiotti, de' quali trecento che avevano
fatta una cavalcata in Val d'Era furono rotti da genti mandate loro dietro da
Ercole. Ed erano i fiorentini nel tempo medesimo infestati da' sanesi; i quali,
presa l'occasione de' travagli che avevano nel contado di Pisa e stimolati da'
collegati, mandorono il signore di Piombino e Giovanni Savello a campo al
bastione del ponte a Valiano; ma intendendo sopravenire il soccorso guidato da
Renuccio da Marciano si ritirorono tumultuosamente, lasciatavi parte
dell'artiglierie. Per il che i fiorentini, assicurate le cose da quella banda,
voltorono Renuccio con le genti in quel di Pisa; in modo che, essendo quasi
pareggiate le forze, si ridusse la guerra alle castella delle colline: le quali
per essere affezionate a' pisani, procedevano più tosto le cose con
disavvantaggio de' fiorentini. E accadde anche che i pisani, entrati per
trattato nel castello di Ponte di Sacco, svaligiorono una compagnia d'uomini
d'arme e feceno prigione Lodovico da Marciano, benché per sospetto delle genti
de' fiorentini che erano vicine subito l'abbandonassino; e per impadronirsi
meglio delle colline, importanti molto per le vettovaglie che di quivi a Pisa
si conducevano e perché interrompevano a' fiorentini il commercio del porto di
Livorno, fortificorono la più parte di quelle castella; delle quali fu, per
accidente estraordinario, nobilitato Soiano. Perché, essendovi andato il campo
de' fiorentini con intenzione d'espugnarlo il dì medesimo, e però avendo fatto
guastare tutti i passi del fiume della Cascina e messo in sulla riva le genti
d'arme in battaglia, acciocché gli inimici non potessino soccorrerlo, mentre
che Piero Capponi, commissario de' fiorentini, procura di fare piantare
l'artiglieria, percosso da uno degli archibusi della terra nella testa, perdé
la vita subitamente; fine, per la ignobilità del luogo e per la piccola
importanza della cosa, non conveniente alla sua virtù. Donde il campo si levò
senza tentare altro; essendo anche in questo tempo stati necessitati i
fiorentini a mandare gente in Lunigiana, al soccorso della rocca della
Verrucola, molestata da' marchesi Malaspini con l'aiuto de' genovesi; donde
facilmente gli scacciorono.
Erano state per
qualche mese potenti le forze de' pisani, perché oltre agli uomini della terra
e del contado, diventati già per lungo uso bellicosi, v'avevano i viniziani e
il duca di Milano molti cavalli e fanti; benché assai più numero fussino quegli
de' viniziani. Cominciorono poi a diminuirsi, per non avere i debiti pagamenti,
le genti tenutevi dal duca; e però i viniziani vi mandorono di nuovo cento
uomini d'arme e sei galee sottili con provisione di frumenti, non perdonando a
spesa alcuna necessaria alla sicurtà di quella città e opportuna a tirare a sé
la benivolenza de' pisani. I quali si alienavano ogni dì più con gli animi
dalla divozione del duca di Milano, infastiditi e dalla strettezza sua allo
spendere e provedergli e dalle sue variazioni; perché ora si dimostrava ardente
nelle cose loro ora procedeva freddamente; talmente che, quasi insospettiti
della sua volontà, attribuivano a lui che 'l Bentivoglio, secondo la
commissione avuta da' collegati, non fusse cavalcato a' danni de' fiorentini; massime
che si sapeva essergli mancato da lui in grande parte dei pagamenti, o per
avarizia o perché gli fussino grate le molestie ma non la totale oppressione
de' fiorentini. Per le quali operazioni aveva gittato da se medesimo nelle cose
di Pisa i fondamenti contrari alla propria intenzione, e al fine per il quale
era autore che si deliberasse nel consiglio de' collegati l'andata di Cesare a
Pisa.
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