X. Felice sbarco a Livorno di granaglie per i fiorentini. Contraria fortuna
di Massimiliano Cesare nel tentativo d'impadronirsi di Livorno. Massimiliano
Cesare con pochissima dignità del nome imperiale abbandona la Toscana e
l'Italia e si ritira in Germania. Lodovico Sforza ritira le sue genti da Pisa.
Cesare in
questo mezzo, partito del porto di Genova con sei galee che i viniziani avevano
nel mare di Pisa, e con molti legni de' genovesi abbondanti d'artiglieria ma
non d'uomini da combattere, perché non v'erano altro che mille fanti tedeschi,
navigò insino al porto della Spezie e di quivi andò per terra a Pisa; ove
raccolti cinquecento cavalli e mille altri fanti tedeschi che avevano fatto il
cammino per terra, deliberò con queste genti e con quelle del duca di Milano e
con parte delle viniziane andare a campo a Livorno, con intenzione di
assaltarlo per terra e per mare, e che l'altre genti de' viniziani andassino a
Ponte di Sacco, acciocché il campo de' fiorentini, che non era molto potente,
non potesse o molestare i pisani o dare soccorso a Livorno. Ma niuna impresa
spaventava i fiorentini meno che quella di Livorno, proveduto sufficientemente
di gente e d'artiglierie, e ove aspettavano di dì in dì soccorso di Provenza;
perché non molto prima, per accrescere le forze sue con la riputazione nella
quale allora erano in Italia l'armi de' franzesi, avevano con consentimento del
re di Francia soldato monsignore di Albigion, uno de' suoi capitani con cento
lancie e mille fanti tra svizzeri e guasconi, acciocché per mare passassino a
Livorno, in su certe navi che per ordine loro erano state caricate di grani per
sollevare la carestia che ne era per tutto il dominio fiorentino. La quale
deliberazione, fatta con altri pensieri e ad altri fini che per difendersi da
Cesare, se bene ebbe molte difficoltà, perché e Albigion con la sua compagnia
già condotto alle navi ricusò d'entrare in mare e de' fanti se ne imbarcorono
solamente seicento, nondimeno fu tanto favorita dalla fortuna che né maggiore
né più opportuna provisione si sarebbe potuta desiderare; conciossiacosaché, il
dì medesimo che uno commissario pisano, mandato innanzi da Cesare con molti
fanti e cavalli per fare ponti e spianare le vie per l'esercito che aveva a
venire, si presentò a Livorno, i legni di Provenza, che erano cinque navi e
alcuni galeoni, e con essi una nave grossa di Normandia, la quale il re mandava
per rinfrescare Gaeta di vettovaglie e di gente, si scopersono sopra Livorno,
co' venti tanto prosperi che, non se gli opponendo l'armata di Cesare perché fu
costretta dal tempo ad allargarsi sopra la Meloria (scoglio famoso, perché già
appresso a quello furono in una battaglia navale afflitte in perpetuo da'
genovesi le forze de' pisani), entrorono nel porto senza ricevere alcuno danno;
eccetto che uno galeone carico di grano, separato dal resto dell'armata, fu
preso dagl'inimici. Détte questo soccorso, sì opportuno, grande ardire a quegli
che erano in Livorno, e confermò grandemente l'animo de' fiorentini, parendo
loro che l'essere giunto così a tempo fusse segno che dove in favore loro
mancassino le forze umane avesse a supplire l'aiuto divino: come molte volte in
quegli dì, nel maggiore terrore degli altri, aveva, predicando al popolo,
affermato il Savonarola.
Ma non cessò
per questo il re de' romani d'andare col campo a Livorno: dove mandati per
terra cinquecento uomini d'arme e mille cavalli leggieri e quattromila fanti,
egli andò in sulle galee insino alla bocca dello Stagno che è tra Pisa e
Livorno. E avendo assegnata l'oppugnazione d'una parte della terra al conte di
Gaiazzo, che era stato mandato con lui dal duca di Milano, e postosi egli
dall'altra, benché il primo dì s'accampasse con molta difficoltà per la
molestia grande datagli dall'artiglierie di Livorno, cominciò, come colui che
desiderava, la prima cosa, insignorirsi del porto, accostate le genti innanzi
dì dalla banda della Fontana, a battere con molti cannoni il Magnano, il quale
quegli di dentro avevano fortificato, e rovinato, come veddeno porre il campo
da quella parte, il Palazzotto e la torre dal lato di mare, come cosa da non
potersi guardare e abile a fare perdere la torre nuova; e nel medesimo tempo,
per battere dalla parte di mare, aveva fatto appressare al porto l'armata sua,
perché le navi franzesi, poiché ebbono poste in terra le genti e scaricato
parte de' grani, essendo finiti i noli loro, non ostante i prieghi fatti in
contrario, si erano partite per ritornare in Provenza, e la normanda per
seguitare il cammino suo verso Gaeta. L'oppugnazione fatta al Magnano, per
combattere poi la terra eziandio per mare, riusciva di poco frutto, per esservi
munito in modo che l'artiglierie poco offendevano, e quegli di dentro spesso
uscivano fuora a scaramucciare. Ma era destinato che la speranza cominciata col
favore de' venti avesse col beneficio pure de' venti la sua perfezione; perché
levatosi uno temporale gagliardo conquassò in modo l'armata che la nave
grimalda genovese, che aveva portata la persona di Cesare, combattuta lungamente
da' venti, andò a traverso, dirimpetto alla rocca nuova di Livorno, con tutti
gli uomini e artiglierie che vi erano sopra, e il medesimo feceno alla punta di
verso Santo Iacopo due galee venete; e gli altri legni dispersi in vari luoghi
patirno tanto che non furno più utili per la impresa presente: per il quale
caso ricuperorono quegli di dentro il galeone, venuto prima in potestà
degl'inimici.
Per il
naufragio dell'armata ritornò Cesare a Pisa; dove, dopo molte consulte, diffidandosi
per tutti di potere più pigliare Livorno, si deliberò di levarne il campo e
fare la guerra da altra parte. Però Cesare andò a Vico Pisano, e fatto ordinare
uno ponte sopra Arno tra Cascina e Vico e uno sopra il Cilecchio, quando si
credeva dovesse passare, partitosi allo improviso se ne ritornò per terra verso
Milano; non avendo fatto altro progresso in Toscana che avere saccheggiato,
quattrocento cavalli de' suoi, Borgheri castello ignobile nella Maremma di
Pisa. Scusava questa subita partita per accrescersegli continuamente le
difficoltà, non si sodisfacendo alle sue spesse dimande di nuovi danari, né
consentendo i proveditori veneti che la maggiore parte delle genti loro uscisse
più di Pisa per sospetto conceputo di lui, né gli avevano i viniziani pagato
interamente la porzione de' sessantamila ducati; onde, lodandosi molto del duca
di Milano, si lamentava gravemente di loro. A Pavia, dove egli si trasferì, fu
fatta nuova consulta; e benché avesse publicato volere tornarsene in Germania,
consentiva di soprastare in Italia tutta la vernata con mille cavalli e dumila
fanti, in caso che ogni mese se gli pagassino ventiduemila fiorini di Reno;
della quale cosa mentre che s'aspetta risposta da Vinegia andò in Lomellina,
nel tempo che era aspettato a Milano: essendogli, come ne' tempi seguenti
dimostrorno meglio i suoi progressi, fatale di non entrare in quella città. Di
Lomellina, mutato consiglio, tornò a Cusago propinquo a sei miglia a Milano,
donde inopinatamente, senza saputa del duca e degli oratori che vi erano, se
n'andò a Como; e quivi inteso, mentre desinava, che il legato del papa, al
quale aveva mandato a dire che non lo seguitasse, era arrivato, levatosi da
mensa, andò a imbarcarsi con tanta celerità che appena il legato ebbe spazio di
parlargli poche parole alla barca; al quale rispose essere necessitato di
andare in Germania ma che prestamente ritornerebbe. E nondimeno, poiché per il
lago di Como fu condotto a Bellasio, avendo inteso che i viniziani consentivano
a quello che si era trattato a Pavia, détte di nuovo speranza di ritornare a
Milano; ma pochissimi giorni poi, procedendo con la sua naturale varietà,
lasciata una parte de' suoi cavalli e de' fanti, se ne andò in Germania:
avendo, con pochissima degnità del nome imperiale, dimostrata la sua debolezza
a Italia, che già lungo tempo non aveva veduti imperadori armati.
Per la partita
sua Lodovico Sforza, disperato di potere più, se non venivano nuovi accidenti,
tirare Pisa a sé né cavarla di mano de' viniziani, ne levò tutte le genti sue,
pigliando per parte di consolazione del suo dispiacere che i viniziani
restassino soli implicati nella guerra co' fiorentini; da che si persuadeva che
la stracchezza dell'uno e dell'altro potesse col tempo porgergli qualche
desiderata occasione. Per la partita delle quali genti i fiorentini, restati
più potenti nel contado di Pisa che gli inimici, recuperorono tutte le castella
delle colline; e perciò i viniziani, essendo costretti per impedire i loro
progressi a fare nuove provisioni, aggiunsono a quelle che vi erano tante genti
che in tutto v'aveano quattrocento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e
più di dumila fanti.
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