XIII. Il duca di Milano propone a' collegati di cedere Pisa a' fiorentini
per staccarli dal re di Francia. Fallimento della proposta. Condizioni interne
di Firenze. Vano tentativo di Piero de' Medici di rientrare in Firenze. Turpitudini
e tragedie nella famiglia del pontefice. La condanna de' compromessi nel
tentativo di Piero de' Medici.
Così essendo
per tutto fermate l'armi o già in procinto di fermarsi, il duca di Milano,
benché ne' prossimi pericoli avesse dimostrato grandissima sodisfazione del
senato viniziano per i pronti aiuti ricevuti da quello, esaltando publicamente
con magnifiche parole la virtù e la potenza veneta, e commendando la providenza
di Giovan Galeazzo primo duca di Milano che avesse commesso alla fede di quello
senato l'esecuzione del suo testamento, nondimeno non potendo tollerare che la
preda di Pisa, levata e seguitata da lui con tanta fatica e con tante arti,
restasse a loro, come appariva manifestamente avere a essere, e però tentando
di conseguire col consiglio quello che non poteva ottenere con le forze, operò
che 'l pontefice e gli oratori de' re di Spagna, a' quali tutti era molesta
tanta grandezza de' viniziani, proponessino che, per levare d'Italia ogni
fondamento a' franzesi e per ridurla tutta in concordia, sarebbe necessario
indurre i fiorentini a entrare nella lega comune col reintegrargli di Pisa,
poiché altrimenti indurre non vi si potevano; perché stando separati dagli
altri non cessavano di stimolare il re di Francia a passare in Italia e, in
caso passasse, potevano co' danari e con le genti loro, essendo massime situati
nel mezzo d'Italia, fare effetti di non piccola importanza. Ma questa proposta
fu dall'oratore viniziano contradetta come molto perniciosa alla salute comune,
allegando la inclinazione de' fiorentini al re di Francia essere tale che,
eziandio con questo beneficio, non era da confidarsi di loro se non davano
sicurtà bastante di osservare quello promettessino, e in cose di tanto momento
nessuna sicurtà bastare se non il deporre Livorno in mano de' collegati: cosa
proposta artificiosamente da lui, perché, sapendo che mai consentirebbono di
deporre luogo sì importante allo stato loro, gli restasse facoltà maggiore di
contradire; il che essendo dipoi succeduto come pensava, s'oppose con tale
caldezza che, non avendo il pontefice e l'oratore del duca di Milano ardire di
contradirgli per non gli alienare dalla loro congiunzione, non si seguitò
questo ragionamento; e si cominciò per il pontefice e i viniziani nuovo disegno
per divertire con violenza i fiorentini dalla amicizia franzese: dando animo a
chi pensava di offendergli le male condizioni di quella città, nella quale era
tra' cittadini non piccola divisione causata dalla forma del governo.
Perché quando
fu fondata da principio l'autorità popolare non erano stati mescolati quegli
temperamenti che, insieme con l'assicurare co' modi debiti la libertà,
impedissino che la republica non fusse disordinata dalla imperizia e dalla
licenza della moltitudine. Però, essendo in minore prezzo i cittadini di
maggiore condizione che non pareva conveniente, e sospetta da altra parte al
popolo la loro ambizione, e intervenendo spesso nelle deliberazioni importanti
molti che n'erano poco capaci, e scambiandosi di due mesi in due mesi il
supremo magistrato al quale si referiva la somma delle cose più ardue, si
governava la republica con molta confusione. Aggiugnevasi l'autorità grande del
Savonarola, gli uditori del quale si erano ristretti quasi in tacita
intelligenza, ed essendo tra loro molti cittadini di onorate qualità, e
prevalendo ancora di numero a quegli che erano di contraria opinione, pareva
che i magistrati e gli onori publici si distribuissino molto più ne' suoi
seguaci che negli altri; e per questo essendosi manifestamente divisa la città,
l'una parte con l'altra ne' consigli publici si urtava, non si curando gli
uomini, come accade nelle città divise, di impedire il bene comune per sbattere
la riputazione degli avversari. Faceva più pericolosi questi disordini, che
oltre a' lunghi travagli e gravi spese tollerate da quella città v'era
quell'anno carestia grandissima, per il che si poteva presumere che la plebe
affamata desiderasse cose nuove.
La quale mala
disposizione détte speranza a Piero de' Medici, incitato oltre a queste
occasioni da alcuni cittadini, di potere facilmente ottenere il desiderio suo.
Però ristretti i suoi consigli con Federigo cardinale da San Severino, antico
amico suo, e con l'Alviano, e stimolato occultamente da' viniziani, a' quali
pareva che per i travagli de' fiorentini si stabilissino le cose di Pisa,
deliberò di tentare di entrare furtivamente in Firenze; massime poi che fu
avvisato essere stato creato gonfaloniere di giustizia, che era capo del
magistrato supremo, Bernardo del Nero, uomo di gravità e d'autorità grande e
stato lungamente amico paterno e suo, ed essere eletti al medesimo magistrato
alcuni altri i quali, per le dependenze vecchie, credeva che avessino
inclinazione alla sua grandezza. Assentì a questo disegno il pontefice,
desideroso di separare i fiorentini dal re di Francia con le ingiurie poi che
era stato impedito di separargli co' benefici; né contradisse il duca di
Milano, non gli parendo potere fare fondamento o intelligenza stabile con
quella città per i disordini del presente governo, se bene da altra parte non
gli piacesse il ritorno di Piero, sì per l'offese fattegli come perché dubitava
non avesse a dipendere troppo dall'autorità de' viniziani. Raccolti adunque
Piero quanti danari potette da se medesimo e con l'aiuto degli amici, e si
credette che qualche piccola quantità gli fusse somministrata da' viniziani,
andò a Siena, e dietro a lui l'Alviano con cavalli e con fanti, facendo il
cammino sempre di notte e fuora di strada acciocché l'andata sua fusse
occultissima a' fiorentini. A Siena, per favore di Giacoppo e di Pandolfo
Petrucci, cittadini principali di quel governo e amici paterni e suoi, ebbe
secretamente altre genti; in modo che con seicento cavalli e quattrocento fanti
eletti si partì, due dì poi che era cominciata la tregua, nella quale non si
comprendevano i sanesi, verso Firenze, con speranza che, arrivandovi quasi
improviso in sul fare del dì, avesse facilmente, o per disordine o per tumulto
il quale sperava aversi a levare in suo favore, a entrarvi: il quale disegno
non sarebbe forse riuscito vano se la fortuna non avesse supplito alla
negligenza de' suoi avversari. Perché essendo al principio della notte alloggiato
alle Tavernelle, che sono alcune case in sulla strada maestra, con pensiero di
camminare la maggior parte della notte, una pioggia che sopravenne molto grande
gli dette tale impedimento che e' non potette presentarsi a Firenze se non
molte ore poi che era levato il sole; il quale indugio dette tempo a quegli che
facevano professione di essergli particolari inimici, perché la plebe e quasi
tutto il resto de' cittadini stava ad aspettare quietamente l'esito della cosa,
di prendere l'armi con gli amici e seguaci loro, e ordinare che da' magistrati
fussino chiamati e ritenuti nel palagio publico i cittadini sospetti, e farsi
forti alla porta che va a Siena; alla quale, pregato da loro, andò
medesimamente Pagolo Vitelli, che ritornando da Mantova era, per sorte, la sera
precedente, giunto in Firenze: di modo non si movendo cosa alcuna nella città,
né Piero potente a sforzare la porta alla quale s'era accostato per un tiro
d'arco, poi che vi fu dimorato quattro ore, temendo che con pericolo suo non
sopravenissino le genti d'arme de' fiorentini, le quali pensava, come era vero,
che fussino state chiamate di quel di Pisa, se ne ritornò a Siena. Donde
l'Alviano partitosi, e introdotto in Todi da' guelfi, saccheggiò quasi tutte le
case de' ghibellini e ammazzò cinquantatré de' primi di quella parte; il quale
esempio seguitando Antonello Savello, entrato in Terni, e i Gatteschi col
favore de' Colonnesi entrati in Viterbo, feceno simiglianti mali nell'un luogo
e nell'altro, e nel paese circostante contro a' guelfi: non provedendo a tanti
disordini dello stato ecclesiastico il pontefice, aborrente dallo spendere in
cose simili, e perché, prendendo per sua natura piccola molestia delle calamità
degli altri, non si turbava di quelle cose che gli offendevano l'onore pure che
l'utilità o i piaceri non si impedissino.
Ma non potette
già fuggire gli infortuni domestici, i quali perturborono la casa sua con
esempli tragici, e con libidini e crudeltà orribili, eziandio in ogni barbara
regione. Perché avendo, insino da principio del suo pontificato, disegnato di
volgere tutta la grandezza temporale al duca di Candia suo primogenito, il
cardinale di Valenza il quale, d'animo totalmente alieno dalla professione
sacerdotale, aspirava all'esercizio dell'armi, non potendo tollerare che questo
luogo gli fusse occupato dal fratello, e impaziente oltre a questo che egli
avesse più parte di lui nell'amore di madonna Lucrezia sorella comune, incitato
dalla libidine e dalla ambizione (ministri potenti a ogni grande sceleratezza),
lo fece, una notte che e' cavalcava solo per Roma, ammazzare e poi gittare nel
fiume del Tevere secretamente. Era medesimamente fama (se però è degna di
credersi tanta enormità) che nell'amore di madonna Lucrezia concorressino non
solamente i due fratelli ma eziandio il padre medesimo: il quale avendola, come
fu fatto pontefice, levata dal primo marito come diventato inferiore al suo
grado, e maritatala a Giovanni Sforza signore di Pesero, non comportando
d'avere anche il marito per rivale, dissolvé il matrimonio già consumato;
avendo fatto, innanzi a giudici delegati da lui, provare con false
testimonianze, e dipoi confermare per sentenza, che Giovanni era per natura
frigido e impotente al coito. Afflisse sopra modo il pontefice la morte del
duca di Candia, ardente quanto mai fusse stato padre alcuno nell'amore de'
figliuoli, e non assuefatto a sentire i colpi della fortuna, perché è manifesto
che dalla puerizia insino a quella età aveva avuto in tutte le cose felicissimi
successi; e se ne commosse talmente che nel concistorio, poiché ebbe con
grandissima commozione d'animo e con lacrime deplorata gravemente la sua
miseria, e accusato molte delle proprie azioni e il modo del vivere che insino
a quel dì aveva tenuto, affermò con molta efficacia volere governarsi in futuro
con altri pensieri e con altri costumi: deputando alcuni del numero de'
cardinali a riformare seco i costumi e gli ordini della corte. Alla quale cosa
avendo data opera qualche dì, e cominciando a manifestarsi l'autore della morte
del figliuolo, la quale nel principio si era dubitato che non fusse proceduta
per opera o del cardinale Ascanio o degli Orsini, deposta prima la buona
intenzione e poi le lagrime, ritornò più sfrenatamente che mai a quegli
pensieri e operazioni nelle quali insino a quel dì aveva consumato la sua età.
Nacqueno in
questo tempo dal movimento fatto per Piero de' Medici nuovi travagli in
Firenze, perché poco dipoi venne a luce la intelligenza che egli v'aveva, per
il che furono incarcerati molti cittadini nobili e alcuni altri si fuggirono; e
poiché legittimamente fu verificato l'ordine della congiura, furono condannati
alla morte non solo Niccolò Ridolfi, Lorenzo Tornabuoni, Giannozzo Pucci e
Giovanni Cambi, che l'avevano sollecitato a venire, e Lorenzo a questo effetto
accomodatolo di danari, ma eziandio Bernardo del Nero, non imputato d'altro che
d'avere saputa questa pratica e non l'avere rivelata: il quale errore, che per
sé è punito in pena capitale dagli statuti fiorentini e dalla interpretazione
data dalla maggiore parte de' giurisconsulti alle leggi comuni, fece più grave
in lui l'essere stato, quando Piero venne a Firenze, gonfaloniere, come se
fusse stato maggiormente obligato a fare uffizio più di persona publica che di
privata. Ma avendo i parenti de' condannati appellato dalla sentenza al
consiglio grande del popolo, per vigore d'una legge che s'era fatta quando fu
ordinato il governo popolare, ristrettisi quegli che erano stati autori della
condannazione, per sospetto che la compassione dell'età e della nobiltà e la
moltitudine de' parenti non mitigassino negli animi del popolo la severità del
giudicio, ottenneno che in numero minore di cittadini si mettesse in consulta
se era da permettere il proseguire l'appellazione o proibirlo; dove prevalendo
l'autorità e il numero di quegli che dicevano essere cosa pericolosa e facile a
generare sedizione, e che le leggi medesime concedevano che per fuggire i
tumulti potessino essere le leggi in caso simile dispensate, furono
impetuosamente, e quasi per forza e con minaccie, costretti alcuni di quegli
che sedevano nel supremo magistrato a consentire che, non ostante l'appello
interposto, si facesse la notte medesima l'esecuzione: riscaldandosi a questo
molto più che gli altri i fautori del Savonarola, non senza infamia sua che non
avesse dissuaso, a quegli massime che lo seguitavano, il violare una legge
proposta, pochi anni innanzi, da lui come molto salutare e quasi necessaria
alla conservazione della libertà.
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