XIV. Federico d'Aragona ricupera altre terre. Conclusione della tregua fra
i re di Spagna e Carlo VIII. Morte di Filippo duca di Savoia. Il duca di
Ferrara consegna il castello di Genova a Lodovico Sforza. Continui dubbi e
negligenza del re di Francia e conseguenze che ne derivano per le cose
d'Italia. Si torna a discutere fra i collegati italiani dell'opportunità di
cedere Pisa a Firenze. Obiezione e opposizione de' veneziani.
In questo anno
medesimo Federigo re di Napoli, ottenuta la investitura del regno dal pontefice
e fatta solennemente la sua incoronazione, recuperò per accordo il monte di
Santo Angelo, che era stato valorosamente difeso da don Giuliano dell'Oreno
lasciatovi dal re di Francia, e Civita con alcune altre terre tenute da Carlo
de Sanguine; e cacciato, finita che fu la tregua, totalmente del regno il
prefetto di Roma, si voltò a fare il simile del principe di Salerno: il quale
finalmente, assediato nella rocca di Diano e abbandonato da tutti, ebbe facoltà
di partirsi salvo con le sue robe; lasciata quella parte dello stato che ancora
non aveva perduta in mano del principe di Bisignano, con condizione di darla a
Federigo, subito che intendesse egli essere condotto salvo in Sinigaglia.
Nella fine di
questo anno, essendo prima interrotta per le dimande immoderate de' re di
Spagna la dieta che da Mompolieri era stata trasferita a Nerbona, si ritornò
tra quegli re a nuove pratiche; militando pure la medesima difficoltà, perché
il re di Francia era determinato di non acconsentire più ad accordo alcuno nel
quale si comprendesse Italia; e a' re di Spagna pareva grave lasciargli libero
il campo di soggiogarla e pure desideravano non avere guerra con lui di là da'
monti, guerra a loro di molta molestia e senza speranza di profitto. Finalmente
si conchiuse tregua tra essi, per durare insino a tanto fusse disdetta e due
mesi dappoi; né vi fu compreso alcuno de' potentati d'Italia. A' quali i re di
Spagna significorono la tregua fatta, allegando avere così potuto farla senza
saputa de' collegati come era stato lecito al duca di Milano fare senza saputa
loro la pace di Vercelli; e che, avendo rotto, quando fu fatta la lega, la
guerra in Francia e continuatala molti mesi, né essendo stati pagati loro i
danari promessi da' confederati, ancora che avessino giusta cagione di non
osservare più a chi gli aveva mancato, avevano nondimeno molte volte fatto
intendere che, volendo pagare loro cento cinquantamila ducati, che se gli
dovevano per la guerra che avevano fatta, erano contenti accettargli per conto
di quello farebbono in futuro, con deliberazione di entrare in Francia con
potentissimo esercito; ma che non avendo i confederati corrisposto sopra queste
dimande né alla fede né al beneficio comune, e vedendo che la lega fatta per la
libertà d'Italia si convertiva in usurparla e opprimerla, conciossiaché i
viniziani, non contenti che in sua potestà fussino pervenuti tanti porti del
reame di Napoli, avevano senza ragione alcuna occupato Pisa, era paruto loro
onesto, poiché gli altri disordinavano le cose comuni, provedere alle proprie
con la tregua; ma fatta in modo che si potesse dire più presto ammunizione che
volontà di partirsi dalla lega, perché era in potestà loro sempre di
dissolverla disdicendola: come farebbono quando vedessino altra intenzione e
altre provisioni ne' potentati italiani al beneficio comune. E nondimeno non
potetteno gustare quegli re interamente la dolcezza della quiete, per la morte
di Giovanni principe di Spagna, unico figliuolo maschio di tutti e due.
Morì in questi
tempi medesimi, lasciato uno piccolo figliuolo Filippo duca di Savoia; il quale
dopo lunga sospensione pareva che finalmente avesse inclinato a' collegati, che
gli avevano promesso dare ciascuno anno ventimila ducati: e nondimeno la fede sua
era sì dubbia appresso a tutti che ancora essi, in caso che il re di Francia
facesse potente impresa, non si promettessino molto di lui.
Nella fine
dell'anno medesimo il duca di Ferrara, passati già i due anni che aveva
ricevuto in diposito il castello di Genova, lo restituì a Lodovico suo genero;
avendo prima dimandato al re di Francia che secondo i capitoli di Vercelli gli
restituisse la metà delle spese fatte in quella guardia. Le quali il re
consentiva di pagare dandogli il duca il castelletto, come diceva essere tenuto
per l'inosservanza del duca di Milano; a che rispondendo egli questa non essere
liquidata, e che a costituire il duca di Milano in contumacia sarebbe stata
necessaria la interpellazione, offeriva il re di deporle, acciocché innanzi al
pagamento si vedesse di ragione se era tenuto a consegnargliene. Ma appresso a
Ercole fu più potente la instanza fatta in contrario da' viniziani e dal
genero, movendolo non solo i prieghi e le lusinghe di Lodovico, che pochi dì
innanzi aveva dato l'arcivescovado di Milano a Ippolito cardinale suo
figliuolo, ma molto più perché era pericoloso provocarsi la inimicizia di
vicini tanto potenti, in tempo che quotidianamente diminuiva la speranza della
passata de' franzesi; e però, avendo richiamato della corte di Francia don
Ferrando suo figliolo, restituì a Lodovico il castelletto, sodisfatto prima da
lui delle spese fatte nel guardarlo, eziandio per la porzione che toccava a
pagare al re: donde i viniziani, per mostrarsegli obligati, condussono il
medesimo don Ferrando agli stipendi loro con cento uomini d'arme.
La quale
restituzione, fatta poco giustificatamente, benché alla riputazione del re in
Italia importasse molto, nondimeno non dimostrò di risentirsene come sarebbe stato
conveniente; anzi avendo mandato Ercole uno imbasciadore a lui a scusarsi che,
per essere lo stato suo contiguo a' viniziani e al duca di Milano che avevano
mandato a denunziargli quasi la guerra, era stato costretto a ubbidire alla
necessità, l'udì con la medesima negligenza che se avesse trattato di cose
leggiere, come quello che, oltre al procedere quasi a caso in tutte le sue
azioni, continuava nelle consuete angustie e difficoltà. Perché era in lui
ardentissima come prima la inclinazione del passare in Italia, e aveva, più che
avesse avuto mai, potentissime occasioni: la tregua fatta co' re di Spagna,
l'avere i svizzeri confermata seco di nuovo la confederazione e l'essere nate
tra' collegati molte cause di disunione; ma lo impediva con varie arti la
maggior parte di quegli che erano intorno a lui, proponendogli, alcuni di loro,
piaceri, alcuni confortandolo al fare la impresa ma con apparato sì potente per
terra e per mare e con tanta provisione di danari che era necessario si
interponesse lungo spazio di tempo, altri servendosi d'ogni difficoltà e
occasione; né mancando il cardinale di San Malò di usare la solita lunghezza
nelle espedizioni de' danari: in modo che non solo il tempo di passare in
Italia era più incerto che mai ma si lasciavano oltre a ciò cadere le cose già
quasi condotte alla perfezione. Perché i fiorentini, stimolandolo continuamente
a passare, erano convenuti seco, cominciata che fusse la guerra da lui, di
muovere l'armi loro da altra parte, e a questo effetto concordati che Obignì
con cento cinquanta lancie franzesi, cento pagate dal re e cinquanta pagate da
loro, passasse per mare in Toscana per essere capo dello esercito loro; e il
marchese di Mantova, stato rimosso disonorevolmente, quando vincitore ritornò
del reame di Napoli, dagli stipendi de' viniziani per sospetto che e' trattasse
di condursi col re di Francia, trattava ora veramente di ricevere soldo da lui,
e il nuovo duca di Savoia si era confermato nella aderenza sua; prometteva il
Bentivoglio, passato che e' fusse in Italia, di seguitare l'autorità sua; e il
pontefice, stando ambiguo del congiugnersi seco come continuamente si trattava,
aveva determinato almeno di non se gli opporre. Ma la tardità e la negligenza
usata dal re raffreddava gli animi di ciascuno, perché né in Italia per
congregarsi in Asti passavano le genti secondo le promesse fatte da lui, non si
dava espedizione alla condotta di Obignì, né mandava danari per pagare gli
Orsini e Vitelli soldati suoi: cosa, avendosi a fare la guerra, molto
importante. Donde essendo i Vitelli per condursi co' viniziani, i fiorentini,
non avuto tempo di avvisarnelo, gli condussono per uno anno a comune per il re
e per loro; la qual cosa fu lodata da lui, ma né ratificò né provedde al
pagamento per la sua porzione; anzi mandò Gemel a ricercargli che gli
prestassino per la impresa cento cinquantamila ducati. Finalmente facendo, come
spesso soleva, della volontà sua quella di altri, partitosi quasi allo
improviso da Lione, se ne andò a Torsi e poi ad Ambuosa, con le consuete promesse
di ritornare presto a Lione. Per le quali cose mancando la speranza a tutti
quegli che in Italia seguitavano la parte sua, Batistino Fregoso si riconciliò
col duca di Milano.
Il quale, preso
animo da questi progressi, scopriva ogni dì più la mala volontà che aveva per
le cose di Pisa contro a' viniziani; stimolando il pontefice e i re di Spagna a
introdurre di nuovo, ma con maggiore efficacia, il ragionamento della
restituzione di quella città. Per la quale pratica i fiorentini, così
confortati da lui, mandorono, nel principio dell'anno mille quattrocento
novantotto, a Roma uno imbasciadore, ma con commissione che procedesse con tale
circospezione che il pontefice e gli altri potessino comprendere che in caso
che Pisa fusse renduta loro si unirebbono con gli altri alla difesa d'Italia
contro a' franzesi, e nondimeno che il re di Francia, se l'effetto non
seguisse, non avesse causa di prendere sospetto di loro. Continuossi questo
ragionamento in Roma molti giorni, facendo instanza apertamente il pontefice e
gli oratori de' re di Spagna e del duca di Milano e quello del re di Napoli con
lo imbasciadore viniziano, essere necessario per sicurtà comune unire con
questo mezzo i fiorentini contro a' franzesi, e dovere il suo senato consentirvi
insieme con gli altri, acciocché, estirpate le radici di tutti gli scandoli,
non restasse più alcuno in Italia che avesse cagione di chiamarvi gli
oltramontani; l'unione della quale quando si impedisse per questo rispetto, si
darebbe forse materia a gli altri di fare nuovi pensieri, da' quali in
pregiudicio di tutti nascerebbe qualche importante alterazione. Ma era al tutto
diversa la deliberazione del senato viniziano. Il quale, pretendendo alla sua
cupidità vari colori, e accorgendosi da chi principalmente procedesse tanta
instanza, rispondeva per mezzo del medesimo oratore lamentandosi
gravissimamente, tale cosa non essere mossa dal rispetto del bene universale ma
da maligna inclinazione che avea qualcuno de' collegati contro a loro, perché
essendo i fiorentini congiuntissimi d'animo a' franzesi, e persuadendosi di
avere per il ritorno loro in Italia a occupare la maggiore parte di Toscana,
non era dubbio non bastare il reintegrargli di Pisa a rimuovergli da questa
inclinazione, anzi essere cosa molto pericolosa il renderla loro, perché quanto
più fussino potenti tanto più alla sicurtà d'Italia nocerebbono. Trattarsi in
questa restituzione dell'onore e della fede di tutti ma principalmente della
loro republica; perché avendo i confederati promesso tutti d'accordo a' pisani
d'aiutargli a difendere la libertà e dipoi, perché ciascuno degli altri
spendeva malvolentieri per il bene publico, lasciato il peso a loro soli, né
essi ricusato a questo effetto alcuna spesa o travaglio, essere con troppo loro
disonore l'abbandonarla, e mancare della fede data, la quale se gli altri non
stimavano, essi, soliti sempre a osservarla non volevano in modo alcuno
violare. Essere molestissimo al senato viniziano che, senza rispetto alcuno,
fussino imputati dagli altri di quello che con consentimento comune avevano
cominciato e per interesse comune avevano continuato, e che con tanta
ingratitudine fussino lapidati delle buone opere; né meritare questa
retribuzione le spese intollerabili che avevano fatte in questa impresa e in tante
altre, e tanti travagli e pericoli sostenuti da loro dappoi che era stata fatta
la lega: le quali cose erano state di natura che e' potevano arditamente dire
che per opera loro si fusse salvata Italia, perché né in sul fiume del Taro si
era combattuto con altre armi, né con altre armi recuperato il reame di Napoli,
che con le loro. E quale esercito avere costretto Novara ad arrendersi? quale
avere necessitato il re di Francia ad andarsene di là da' monti? quali forze
essersegli opposte nel Piemonte, qualunque volta avea fatto pruova di
ritornare? Né si potere già negare che queste azioni non fussino principalmente
procedute dal desiderio che avevano della salute d'Italia, perché né erano mai
stati i primi esposti a' pericoli, né per cagione loro nati disordini i quali
fussino debitori di ricorreggere: perché né aveano chiamato il re di Francia in
Italia né accompagnatolo poi che era stato condotto di qua da' monti, né per
risparmiare i danari propri lasciato cadere in pericolo le cose comuni; anzi
essere stato spesse volte di bisogno che 'l senato veneto rimediasse a'
disordini nati per colpa d'altri in detrimento di tutti. Le quali opere se non
erano conosciute o se sì presto erano poste in oblivione, non volere perciò,
seguitando l'esempio poco scusabile degli altri, maculare né la fede né la
degnità della loro republica; essendo massime congiunta nella conservazione
della libertà de' pisani la sicurtà e il beneficio di tutta Italia.
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