II. Lodovico Sforza delibera d'aiutare con l'armi i fiorentini a ricuperare
Pisa. Rotta de' fiorentini nella valle di S. Regolo. Richieste d'aiuto a
Lodovico Sforza. Lotta in terra di Roma tra Colonnesi ed Orsini e sua
composizione. Lodovico Sforza aiuta scopertamente i fiorentini ed invano incita
ad agire similmente il pontefice. Il duca di Milano s'adopera ad allontanare
da' pisani quanti li sostengono.
Ma era fatale
che lo incendio di Pisa, stato suscitato e nutrito dal duca di Milano per
appetito immoderato di dominare, avesse finalmente ad abbruciare l'autore.
Perché egli, e per l'emulazione e per il pericolo che dalla troppa grandezza
de' viniziani vedeva soprastare a sé e agli altri d'Italia, non poteva
pazientemente comportare che 'l frutto delle sue arti e fatiche fusse ricolto
da loro; e avendo l'occasione della disposizione de' fiorentini, ostinati a non
cessare per qualunque accidente dalle offese de' pisani, e parendogli per la
caduta del Savonarola, e per la morte di Francesco Valori, che aveva tenuto le
parti contrarie a lui, potere più confidare di quella città che non aveva fatto
per il passato, deliberò d'aiutare i fiorentini alla recuperazione di Pisa con
l'armi, poiché le pratiche e l'autorità sua e degli altri non era stata
bastante: persuadendosi vanamente o che, innanzi che dal re di Francia potesse
essere fatto movimento alcuno, Pisa sarebbe, o per forza o per concordia,
ridotta in potestà de' fiorentini o veramente che il senato viniziano, ritenuto
da quella prudenza che non aveva potuto in se medesimo, non avesse mai, per sdegni
e per cagioni anco importanti, a desiderare che con pericolo comune
ritornassino l'armi franzesi in Italia, le quali si era tanto affaticato per
cacciarne.
La quale
imprudentissima deliberazione uno disordine che contro a' fiorentini succedette
nel contado di Pisa gli fece accelerare. Perché avendo avuto notizia le genti
loro, che erano al Pontadera, che circa settecento cavalli e fanti usciti di
Pisa ritornavano con una grossa preda, fatta nella Maremma di Volterra,
andorono quasi tutti, guidati dal conte Renuccio e da Guglielmo de' Pazzi
commissario fiorentino, a tagliare loro la strada per ricuperarla; e avendogli
riscontrati nella valle di Santo Regolo gli avevano messi in disordine e
riavuta la maggiore parte della preda, quando sopragiunsono centocinquanta
uomini d'arme, che per soccorrere i suoi erano partiti di Pisa poi che avevano
inteso la mossa delle genti de' fiorentini: i quali, trovatigli stracchi e
parte disordinati nel rubare, non potendo l'autorità del conte Renuccio ridurre
i suoi uomini d'arme a fare testa, dopo essere stata fatta da' fanti qualche
difesa, gli messono in fuga, morti molti fanti, presi molti de' capi e la
maggiore parte de' cavalli; in modo che non senza difficoltà il commissario e
il conte si salvorono in Santo Regolo, dando, come si fa nelle cose avverse,
imputazione l'uno all'altro del disordine seguito. Afflisse questa rotta i
fiorentini, i quali, per provedere subito al pericolo, né potendo armarsi sì
presto d'altri soldati, ed essendo in mala riputazione e con la compagnia
svaligiata il conte Renuccio, che era governatore generale delle genti loro,
deliberorno di voltare a Pisa i Vitelli che erano nel contado d'Arezzo: ma
furno necessitati concedere a Paolo il titolo di capitano generale del loro esercito.
Costrinsegli ancora questo caso a ricercare con grande instanza aiuto dal duca
di Milano: e tanto più che, subito dopo la rotta, avevano supplicato al re di
Francia che, per rimuovere con le forze e con l'autorità i loro pericoli,
mandasse trecento lancie in Toscana, ratificasse la condotta, fatta vivente
Carlo, de' Vitelli, provedendo per la porzione sua al pagamento, e confortasse
i viniziani ad astenersi da offendergli; delle quali cose, perché il re non
voleva farsi odioso o sospetto a' viniziani né muovere in Italia cosa alcuna se
non quando volesse cominciare la guerra contro allo stato di Milano, avevano
riportato parole grate senza effetti. Ma il duca non fu lento in questo
bisogno, dubitando che i viniziani non pigliassino, con l'occasione della
vittoria, tanto campo che fusse poi troppo difficile a reprimergli: e però,
data a' fiorentini ferma intenzione di soccorrergli, volle prima risolvere con
loro che provisioni fussino necessarie non solo a difendersi ma a condurre a
fine l'impresa di Pisa.
Alla quale,
perché per quell'anno non si temeva di moto alcuno del re di Francia, erano
volti gli occhi di tutta Italia, quieta allora da ogni altra perturbazione:
conciossiacosaché, se bene in terra di Roma si fussino prese l'armi tra i
Colonnesi e gli Orsini, era la prudenza di loro medesimi stata presto superiore
agli odii e alle inimicizie. L'origine fu che i Colonnesi e i Savelli, mossi
dalla occupazione, fatta da Iacopo Conte di Torremattia, avevano assaltate le
terre della famiglia de' Conti; e da altra parte gli Orsini, per la
congiunzione delle fazioni, aveano prese l'armi in favore loro: di maniera che,
essendosi occupate per l'una parte e per l'altra più castella, combatterono
finalmente insieme con tutte le forze a piè di Monticelli nel contado di
Tivoli; dove dopo lunga e valorosa battaglia, stimolandogli non meno la
passione ardente delle parti che la gloria e l'interesse degli stati, gli
Orsini, che aveano dumila fanti e ottocento cavalli, furono messi in fuga,
perderono le bandiere e restò prigione Carlo Orsino; e dalla parte de'
Colonnesi fu ferito Antonello Savello assai chiaro condottiere, che ne morì
pochi dì poi. Dopo il quale successo, il pontefice, mostrando essergli molesta
la turbazione del paese propinquo a Roma, si interpose alla concordia: la quale
mentre che con non troppo buona fede si tratta da lui, secondo la sua
duplicità, gli Orsini, raccolte nuove forze, andorono a campo a Palombara terra
principale de' Savelli; e si preparavano per andare a soccorrerla i Colonnesi,
che dopo la vittoria avevano occupate molte castella de' Conti. Ma accortasi
l'una parte e l'altra che 'l pontefice, dando animo ora a' Colonnesi ora agli
Orsini, nutriva la guerra, per potere alla fine quando fussino consumati
opprimergli tutti, si ridussono senza interposizione d'altri a parlamento
insieme a Tivoli, dove il dì medesimo conchiusono l'accordo: per il quale fu
liberato Carlo Orsino, restituite a ciascuno le terre tolte in questa
contenzione, e la differenza de' contadi d'Albi e di Tagliacozzo rimessa nel re
Federigo, del quale erano soldati i Colonnesi.
Posato presto
questo movimento, né mescolandosi altre armi in Italia che nel contado di Pisa,
il duca di Milano, benché da principio avesse deliberato di non dare aiuto
scopertamente a' fiorentini ma sovvenirgli occultamente con danari, traportato
ogni dì più dallo sdegno e dal dispiacere, né astenendosi da parole insolenti e
minatorie contro a' viniziani, determinò di dimostrarsi senza rispetto. Però
negò il passo alle genti loro, le quali per la via di Parma e di Pontriemoli
andavano a Pisa, necessitandole a passare per il paese del duca di Ferrara,
cammino più lungo e più difficile; operò che Cesare comandò a tutti gli oratori
che erano appresso a lui, eccetto quello de' re di Spagna, che si partissino, e
che dopo pochi dì gli richiamò tutti eccetto il viniziano; mandò a' fiorentini
trecento balestrieri, e concorse con loro alla condotta di trecento uomini
d'arme, parte sotto il signore di Piombino parte sotto Gian Paolo Baglione; e
in più volte prestò loro più di trentamila ducati, offerendo continuamente,
quando fusse di bisogno, maggiori aiuti. Fece oltre a queste cose instanza col
pontefice che, ricercato da' fiorentini, porgesse qualche sussidio. Il quale,
dimostrando di conoscere che lo stabilirsi in Pisa i viniziani era pernicioso
allo stato della Chiesa, promesse mandare loro cento uomini d'arme e tre galee
sottili, le quali sotto il capitano Villamarina erano a' soldi suoi, per
impedire che per mare non entrassino in Pisa vettovaglie; nondimeno, poiché con
varie scuse ebbe differito il mandargli, lo negò alla fine apertamente, perché
ogni dì più, rimovendosi dagli altri pensieri, si risolveva a ristrignersi col
re di Francia, sperando di conseguire per mezzo suo non premi mediocri e
usitati ma il reame di Napoli: essendo spesso proprio degli uomini farsi facile
con la voglia e con la speranza quello che con la ragione conoscono essere
difficile. Ed era quasi fatale che in lui fussino origine a cose nuove le
repulse de' parentadi avute da' re d'Aragona. Perché, innanzi che totalmente
deliberasse di unirsi col re di Francia, aveva dimandato che al cardinale di
Valenza, parato a rinunziare alla prima occasione al cardinalato, il re
Federigo concedesse per moglie la figliuola, e in dote il principato di
Taranto; persuadendosi che se il figliuolo, grande d'ingegno e d'animo, si
insignorisse di uno membro tanto importante di quel reame, potesse facilmente,
avendo in matrimonio una figliuola regia, avere occasione, con le forze e con
le ragioni della Chiesa, di spogliare del regno il suocero, debole di forze ed
esausto di danari, e dal quale erano alieni gli animi di molti de' baroni. La
qual cosa benché fusse caldamente favorita dal duca di Milano, dimostrando a Federigo,
con ragioni efficaci e poi con parole aspre, per mezzo di Marchesino Stanga, il
quale mandò per questo a Roma e a Napoli imbasciadore, con quanto suo pericolo
il pontefice, escluso di tale desiderio, precipiterebbe a congiugnersi col re
di Francia, e ricordandogli quanta imprudenza e pusillanimità fusse, dove si
trattava della salute del tutto, avere in considerazione la indegnità e non
sapere sforzare se medesimo ad anteporre la conservazione dello stato alla
propria volontà, nondimeno Federigo ricusò sempre ostinatamente: confessando
che la alienazione del papa era per mettere in pericolo il suo reame, ma che
conosceva anche che 'l dare la figliuola, col principato di Taranto, al
cardinale di Valenza lo metteva in pericolo; e però de' due pericoli volere più
presto sottoporsi a quello nel quale si incorrerebbe più onorevolmente, e che
non nascerebbe da alcuna sua azione. Donde il papa, avendo voltato in tutto
l'animo a unirsi col re di Francia, e desiderando che il medesimo facessino i
viniziani, s'astenne per non gli offendere da favorire con l'armi i fiorentini.
I quali,
inanimiti per gli aiuti sì pronti del duca di Milano e per la fama della virtù
di Paolo Vitelli, non erano per pretermettere cosa alcuna, se bene l'impresa
fusse riputata difficile: perché, oltre al numero l'esperienza e l'animo de'
cittadini e contadini pisani, aveano in Pisa i viniziani quattrocento uomini
d'arme e ottocento stradiotti e più di dumila fanti, ed erano disposti a
mandarvi forze maggiori; non essendo manco pronti degli altri, per l'onore
publico, a sostenere i pisani coloro che da principio avevano contradetto che
si accettassino in protezione. La deliberazione fatta con consiglio comune di
Lodovico Sforza e de' fiorentini fu di augumentare talmente l'esercito che e'
fusse potente a espugnare le terre del contado di Pisa, e di fare ogni opera
perché tutti i vicini desistessino da dare favore a' pisani o da molestare, per
ordine de' viniziani, da altre parti i fiorentini. Però, avendo Lodovico, prima
che deliberasse di scoprirsi, condotto con dugento uomini d'arme a comune co'
viniziani Giovanni Bentivogli, operò tanto che l'obligò, con lo stato di
Bologna, a sé solo; e per confermarlo tanto più, i fiorentini condussono
Alessandro suo figliuolo. E perché, se i viniziani, che avevano in protezione
il signore di Faenza, facessino dalla parte di Romagna qualche insulto, vi
trovassino resistenza, condussono i fiorentini con cento cinquanta uomini
d'arme Ottaviano da Riario signore d'Imola e di Furlì, che si reggeva ad
arbitrio di Caterina Sforza sua madre; la quale seguitava senza rispetto alcuno
le parti di Lodovico e de' fiorentini, mossa da più cagioni ma specialmente per
essersi maritata occultamente a Giovanni de' Medici, il quale il duca di
Milano, non contento del governo popolare, desiderava di fare, insieme col
fratello, grande in Firenze. Procurò medesimamente Lodovico co' lucchesi, co'
quali aveva grandissima autorità, che non favorissino più i pisani come sempre
avevano fatto; il che se bene non osservorono in tutto, se ne astenneno assai
per suo rispetto. Restavano i genovesi e i sanesi, inimici antichi de'
fiorentini e tra' quali militavano le cagioni delle controversie, con questi
per Montepulciano, con quegli per le cose di Lunigiana; e de' sanesi era da
temere che acciecati dall'odio non dessino, come in altri tempi molte volte con
danno proprio avevano fatto, comodità a ciascuno di turbare, per il loro stato,
i fiorentini; e con tutto che a' genovesi, per l'antiche inimicizie, fusse
molesto che i viniziani si confermassino in Pisa, nondimeno (come in quella
città suole essere piccola cura del beneficio publico) comportavano a' pisani e
a' legni de' viniziani il commercio delle loro riviere, per l'utilità che ne
perveniva in molti privati, onde i pisani ricevevano grandissime comodità:
però, per consiglio di Lodovico, furono da' fiorentini mandati a Genova e a
Siena imbasciadori, per trattare per mezzo suo di comporre le controversie. Ma
le pratiche co' genovesi non partorirono frutto alcuno, perché domandavano la
cessione libera delle ragioni di Serezana, senza dare altro ricompenso che una
semplice promessa di vietare a' pisani le comodità del paese loro; e a'
fiorentini pareva la perdita sì certa e, a rispetto di questa, il guadagno sì
piccolo e sì dubbio che ricusorono di comperare con questo prezzo la loro
amicizia.
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