XII. Aiuti dati dal re di Francia al Valentino per rivendicare i diritti
della Chiesa sulle terre di Romagna. Come la Chiesa istituita da principio
meramente per l'amministrazione spirituale sia pervenuta agli stati e agli
imperi mondani. Condizioni delle terre di Romagna e inizi dell'impresa del
Valentino. Il Valentino ottiene Imola. Vicende della guerra fra i veneziani e i
turchi.
Né dormiva in
tanta opportunità l'ambizione del pontefice; il quale instando per
l'osservazione delle promesse, il re concedette contro a' vicari di Romagna al
duca Valentino, venuto con lui di Francia, trecento lancie sotto Ivo d'Allegri
a spese proprie e quattromila svizzeri, ma questi a spese del pontefice, sotto
il baglì di Digiuno. Per la dichiarazione della qual cosa, e di molt'altre
succedute ne' tempi seguenti, ricerca la materia che si faccia menzione che
ragioni abbia la Chiesa sopra le terre di Romagna e sopra molte altre, le quali
o ha in vari tempi possedute o ora possiede: e in che modo, instituita da
principio meramente per la amministrazione spirituale, sia pervenuta agli stati
e agli imperi mondani; e similmente che si narri, come cosa connessa, che
congiunzioni e contenzioni sieno state, per queste e altre cagioni, in diversi
tempi tra i pontefici e gli imperadori.
I pontefici
romani, de' quali il primo fu l'apostolo Piero, fondata da Giesù Cristo
l'autorità loro nelle cose spirituali, grandi di carità d'umiltà di pazienza di
spirito e di miracoli, furono ne' loro princìpi non solo al tutto spogliati di
potenza temporale ma, perseguitati da quella, stettono per molti anni oscuri e
quasi incogniti; non si manifestando il nome loro per alcuna cosa più che per i
supplici, i quali, insieme con quegli che gli seguivano, quasi quotidianamente
sostenevano: perché se bene, per la moltitudine innumerabile e per le diverse
nazioni e professioni che erano in Roma, fussino qualche volta poco attesi i
progressi loro, e alcuni degli imperadori non gli perseguitassino se non quanto
pareva che l'azioni loro publiche non potessino essere con silenzio trapassate,
nondimeno alcuni altri, o per crudeltà o per l'amore agli dii propri, gli
perseguitorono atrocemente, come introduttori di nuove superstizioni e
distruttori della vera religione. Nel quale stato, chiarissimi per la
volontaria povertà, per la santità della vita e per i martiri, continuorono
insino a Silvestro pontefice; a tempo del quale essendo venuto alla fede
cristiana Costantino imperadore, mosso da' costumi santissimi e da' miracoli
che in quegli che il nome di Cristo seguitavano continuamente si vedevano,
rimasono i pontefici sicuri de' pericoli ne' quali erano stati circa a trecento
anni, e liberi di esercitare publicamente il culto divino e i riti cristiani:
onde per la riverenza de' costumi loro, per i precetti santi che contiene in sé
la nostra religione, e per la prontezza che è negli uomini a seguitare, o per
ambizione, il più delle volte, o per timore, l'esempio del suo principe, cominciò
ad ampliarsi per tutto maravigliosamente il nome cristiano, e insieme a
diminuire la povertà de' cherici. Perché Costantino avendo edificato a Roma la
chiesa di San Giovanni in Laterano, la chiesa di San Piero in Vaticano, quella
di San Paolo e molte altre in diversi luoghi, le dotò non solo di ricchi vasi e
ornamenti ma ancora (perché si potessino conservare e rinnovare, e per le
fabriche e sostentazione di quegli che vi esercitavano il culto divino) di
possessioni e di altre entrate; e successivamente molti, ne' tempi che
seguitorono, persuadendosi con le elemosine e co' legati alle chiese farsi
facile l'acquisto del regno celeste, o fabricavano e dotavano altre chiese o
alle già edificate dispensavano parte delle ricchezze loro. Anzi, o per legge o
per inveterata consuetudine, seguitando l'esempio del Testamento vecchio,
ciascuno, de' frutti de' beni propri, pagava alle chiese la decima parte:
eccitandosi a queste cose gli uomini con grande ardore, perché da principio i
cherici, da quello in fuora che era necessario per il moderatissimo vitto loro,
tutto il rimanente, parte nelle fabriche e paramenti delle chiese parte in
opere pietose e caritative, distribuivano. Né essendo entrata ancora ne' petti
loro la superbia e l'ambizione, era riconosciuto universalmente da' cristiani
per superiore di tutte le chiese e di tutta l'amministrazione spirituale il
vescovo di Roma, come successore dello apostolo Piero, e perché quella città,
per la sua antica degnità e grandezza, riteneva, come capo dell'altre, il nome
e la maestà dello imperio, e perché da quella si era diffusa la fede cristiana
nella maggiore parte della Europa, e perché Costantino, battezzato da
Silvestro, tale autorità volentieri in lui e ne' suoi successori avea
riconosciuta. È fama, oltre a queste cose, che Costantino, costretto dagli
accidenti delle provincie orientali a trasferire la sedia dello imperio nella
città di Bisanzio, chiamata dal suo nome Costantinopoli, donò a' pontefici il
dominio di Roma e di molte altre città e regioni d'Italia: la quale fama,
benché diligentemente nutricata da' pontefici che succederono e per l'autorità
loro creduta da molti, è dagli autori più probabili riprovata, e molto più
dalle cose stesse; perché è manifestissimo che allora, e lungo tempo dipoi, fu
amministrata Roma e tutta Italia come suddita allo imperio, e dai magistrati
deputati dagli imperadori. Né manca chi redarguisca (sì profonda è spesso nelle
cose tanto antiche la oscurità) tutto quello che si dice di Costantino e di
Silvestro, affermando essi essere stati in diversi tempi. Ma niuno nega che la
traslazione della sedia dello imperio a Costantinopoli fu la prima origine
della potenza de' pontefici, perché indebolendo in progresso di tempo
l'autorità degli imperadori in Italia, per la continua assenza loro e per le
difficoltà che ebbono nello Oriente, il popolo romano, discostandosi dagli
imperadori e però tanto più deferendo a' pontefici, cominciò a prestare loro
non subiezione ma spontaneamente uno certo ossequio: benché queste cose non si
dimostrorono se non lentamente, per le inondazioni dei goti de' vandali e di
altre barbare nazioni che sopravennono in Italia; dalle quali presa e
saccheggiata più volte Roma, era in quanto alle cose temporali oscuro e abietto
il nome de' pontefici, e piccolissima in Italia l'autorità degli imperadori,
poiché con tanta ignominia la lasciavano in preda de' barbari. Tra le quali
nazioni, essendo stato l'impeto dell'altre quasi come uno torrente, continuò
per settanta anni la potenza de' goti, gente di nome e di professione cristiana
e uscita dalla prima origine sua delle parti di Dacia e di Tartaria. La quale
essendo finalmente stata cacciata d'Italia dall'armi degli imperadori, cominciò
di nuovo Italia a governarsi per magistrati greci, de' quali quello che era
superiore a tutti, detto con greco vocabolo esarco, risedeva a Ravenna, città
antichissima e allora molto ricca e molto frequente per la fertilità del paese
e perché, dopo l'augumento grande che ebbe per l'armata potente tenuta
continuamente da Cesare Augusto e da altri imperadori nel porto quasi
congiuntogli, e che ora non apparisce, di Classe, era stata abitata da molti
capitani, e poi per lungo tempo da Teoderico re de' goti e da i suoi
successori; i quali, avendo a sospetto la potenza degli imperadori, aveano eletta
quella più tosto che Roma per sedia del regno loro, per l'opportunità del suo
mare più propinquo a Costantinopoli: la quale opportunità, benché per contraria
ragione, seguitando gli esarchi, fermatisi quivi, deputavano al governo di Roma
e delle altre città d'Italia magistrati particolari, sotto titolo di duchi. Da
questo ebbe origine il nome dello esarcato di Ravenna sotto il quale nome si
comprendeva tutto quello che, non avendo duchi particolari, ubbidiva
immediatamente allo esarco. Nel quale tempo i pontefici romani, privati in
tutto di potenza temporale, e allentata, per la dissimilitudine de' costumi
loro già cominciati a trascorrere, la reverenza spirituale, stavano quasi come
subietti agli imperadori; senza la confermazione de' quali o de' loro esarchi,
benché eletti dal clero e dal popolo romano, non ardivano di esercitare o di
accettare il pontificato: anzi gli episcopi costantinopolitano e ravennate
(perché comunemente la sedia della religione séguita la potenza dello imperio e
delle armi) disputavano spesso della superiorità con l'episcopo romano. Ma si
mutò non molto poi lo stato delle cose, perché i longobardi, gente ferocissima,
entrati in Italia, occuporono la Gallia Cisalpina, la quale dallo imperio loro
prese il nome di Lombardia, Ravenna con tutto l'esarcato e molte altre parti
d'Italia; e si disteseno l'armi loro insino nella marca anconitana e a Spuleto
e a Benevento, ne' quali due luoghi creorono duchi particolari: non provedendo
a queste cose, parte per la ignavia loro parte per le difficoltà che avevano in
Asia, gli imperadori. Dagli aiuti de' quali Roma abbandonata, né essendo più il
magistrato degli esarchi in Italia, cominciò a reggersi co' consigli e con
l'autorità de' pontefici. I quali, dopo molto tempo, essendo insieme co' romani
oppressati da' longobardi, ricorsono finalmente agli aiuti di Pipino re di
Francia; il quale, passato con potente esercito in Italia, avendovi i
longobardi dominato già più di dugento anni, cacciatigli di una parte del loro
imperio, donò, come diventate sue per ragione di guerra, al pontefice e alla
Chiesa romana non solo Urbino, Fano, Agobbio e molte terre vicine a Roma ma
eziandio Ravenna col suo esarcato, sotto il quale dicono includersi tutto
quello che si contiene da' confini di Piacenza, contigui al territorio di
Pavia, insino ad Arimini, tra il fiume del Po il monte Apennino gli stagni,
ovvero palude de' viniziani, e il mare Adriatico, e di più Arimini insino al
fiume della Foglia, detto allora Isauro. Ma dopo la morte di Pipino, molestando
di nuovo i longobardi i pontefici e quel che era stato donato loro, Carlo suo
figliuolo, quello che poi per le vittorie grandissime che ebbe fu meritamente
cognominato magno, distrutto del tutto lo imperio loro, confermò la donazione
fatta alla Chiesa romana dal padre; e approvò l'essersi, mentre guerreggiava
co' longobardi, date al pontefice la marca di Ancona e il ducato di Spuleto, il
quale comprendeva la città dell'Aquila e una parte dello Abruzzi. Affermansi
queste cose per certe: alle quali aggiungono alcuni scrittori ecclesiastici
Carlo avere donato alla Chiesa la Liguria insino al fiume del Varo, ultimo
confine d'Italia, Mantova e tutto quello che i Longobardi possedevano nel
Friuli e in Istria; e il medesimo scrive alcuno altro, dell'isola di Corsica e
di tutto il territorio che si contiene tra le città di Luni e di Parma. Per i
quali meriti i re di Francia, celebrati ed esaltati da' pontefici
conseguitorono il titolo di re cristianissimi; e dipoi, l'anno ottocentesimo
della nostra salute, Leone pontefice insieme col popolo romano, non con altra
autorità il pontefice che come capo di quello popolo, elessono il medesimo
Carlo per imperadore romano, separando eziandio nel nome questa parte dello
imperio dagli imperadori che abitavano a Costantinopoli, come se Roma e le
provincie occidentali, non difese da loro, avessino bisogno di essere difese da
proprio principe. Per la quale divisione non furno privati gli imperadori
costantinopolitani né dell'isola di Sicilia né di quella parte d'Italia la
quale, discorrendo da Napoli a Manfredonia, è terminata dal mare; perché erano
state continuamente sotto quegli imperadori. Né si derogò per queste cose alla
consuetudine che la elezione de' pontefici fusse confermata dagli imperadori
romani, in nome de' quali si governava la città di Roma; anzi i pontefici nelle
bolle ne' privilegi e nelle concessioni loro esprimevano con queste parole
formali il tempo della scrittura: «Imperante il tale imperadore signore
nostro». Nella quale, non grave, o soggezione o dependenza continuorono
insino a tanto che i successi delle cose non dettono loro animo a reggersi per
se stessi. Ma essendo cominciata a indebolire la potenza degli imperadori,
prima per le discordie nate tra i discendenti medesimi di Carlo magno, mentre
che in loro risedeva la degnità imperiale e dipoi per l'essere stata
trasportata ne' prìncipi tedeschi, non potenti come erano stati, per la
grandezza del regno di Francia, i successori di Carlo, i pontefici e il popolo
romano, da' magistrati del quale cominciò Roma, benché tumultuosamente, a
governarsi, derogando in tutte le cose quanto potevano alla giurisdizione degli
imperadori, statuirono per legge che non più la elezione de' pontefici avesse a
essere confermata da loro; il che per molti anni si osservò diversamente, secondo
che per la variazione delle cose sorgeva o declinava più la potenza imperiale.
La quale essendo accresciuta poiché lo imperio pervenne negli Ottoni di
Sassonia, Gregorio, medesimamente di Sassonia, eletto pontefice per favore di
Ottone terzo, che era presente, mosso dall'amore della propria nazione e
sdegnato per le persecuzioni ricevute da' romani, trasferì per suo decreto
nella nazione germanica la facoltà di eleggere gli imperadori romani, in quella
forma che insino alla età nostra si osserva; vietando agli eletti, per
riservare a' pontefici qualche preeminenza, di non usare il titolo di
imperadori o di Augusti se prima non ricevevano da' pontefici la corona dello
imperio (donde è introdotto il venire a Roma a incoronarsi), e di non usare
prima altro titolo che di re de' romani e di Cesari. Ma mancati poi gli Ottoni,
e diminuita la potenza degli imperadori perché lo imperio non si continuava
ereditario in re grandi, Roma apertamente si sottrasse dalla obedienza loro, e
molte città, quando imperava Corrado svevo, si ribellorono; e i pontefici,
attendendo ad ampliare la propria autorità, dominavano quasi Roma, benché
spesso per la insolenza e per le discordie del popolo vi avessino molte
difficoltà: il quale per reprimere avevano già, per favore di Enrico secondo
imperadore che era a Roma, trasferito per legge ne' cardinali soli l'autorità
di creare il pontefice. Alla grandezza de' quali succedette nuovo augumento,
perché avendo i normanni, de' quali il primo fu Guglielmo cognominato
Ferrabracchio, usurpata allo imperio costantinopolitano la Puglia e la
Calavria, Ruberto Guiscardo, uno di essi, o per fortificarsi con questo colore
di ragione o per essere più potente a difendersi contro a quegli imperadori o
per altra cagione, restituito Benevento come di ragione ecclesiastica,
riconobbe il ducato di Puglia e di Calavria in feudo della Chiesa romana; il
cui esempio seguitando Ruggieri, uno de' suoi successori, e avendo scacciato
del ducato di Puglia e di Calavria Guglielmo della medesima famiglia e occupata
poi la Sicilia, riconobbe, circa l'anno mille cento trenta, queste provincie in
feudo dalla Chiesa sotto titolo di re di ambedue le Sicilie, l'una di là
l'altra di qua dal Faro: non ricusando i pontefici di fomentare, per la
ambizione e utilità propria, l'altrui usurpazione e violenza. Con le quali
ragioni pretendendo sempre più oltre (come non mai si ferma la cupidità umana)
cominciorono i pontefici a privare di quegli regni alcuni de' re contumaci a'
loro comandamenti e a concedergli ad altri; nel quale modo pervennono in Enrico
figliuolo di Federigo Barbarossa e da Enrico in Federico secondo suo figliuolo,
tutt'a tre successivamente imperadori romani.
Ma essendo
Federigo diventato acerrimo persecutore della Chiesa, e suscitate a' tempi suoi
in Italia le fazioni guelfa e ghibellina, dell'una delle quali era capo il
pontefice dell'altra lo imperadore, il pontefice, morto Federigo, concedette la
investitura di questi regni a Carlo conte d'Angiò e di Provenza, del quale di
sopra è stata fatta menzione, con censo di oncie seimila d'oro per ciascuno
anno, e con condizione che per l'avvenire alcuno di quegli re non potesse
accettare lo imperio romano; la quale condizione è stata poi sempre specificata
nelle investiture; benché il regno dell'isola di Sicilia, occupato dai re di
Aragona, si separò, dopo pochi anni, nel censo e nella recognizione del feudo,
dalla ubbidienza della Chiesa. Ha anche ottenuto la fama, benché non tanto
certa quanto sono le cose precedenti, che molto prima la contessa Matelda,
principessa in Italia molto potente, donò alla Chiesa quella parte della
Toscana la quale, terminata dal torrente di Pescia e dal castello di San
Quirico nel contado di Siena da una parte, e dall'altra dal mare di sotto e dal
fiume del Tevere, è oggi detta il patrimonio di San Piero; e aggiungono altri
che dalla medesima contessa fu donata alla Chiesa la città di Ferrara. Non sono
certe queste ultime cose: ma è ancora più dubbio quello che è stato scritto da
qualcuno, che Aritperto re de' longobardi, fiorendo il regno loro, gli donò
l'Alpi Coccie, nelle quali dicono includersi Genova e tutto quello che si
contiene da Genova insino a' confini della Provenza; e che Liutprando, re della
medesima nazione, gli donò la Sabina, paese propinquo a Roma, Narni e Ancona
con certe altre terre. Così variando lo stato delle cose, furono similmente
varie le condizioni de' pontefici con gli imperadori, perché, essendo stati
perseguitati per molte età dagli imperadori e dipoi liberati, per la
conversione di Costantino, da questo terrore, si riposorono, ma attendendo
solamente alle cose spirituali, e poco meno che interamente sudditi, per molti
anni, sotto l'ombra loro; vissono dipoi lunghissimo tempo in basso stato e
separati totalmente dal commercio loro, per la grandezza de' longobardi in
Italia. Ma dipoi, pervenuti per beneficio de' re di Francia a potenza
temporale, stettono congiuntissimi con gli imperadori e dependendo con allegro
animo dalla loro autorità, mentre che la degnità imperiale si continuò ne'
discendenti di Carlo magno, e per la memoria de' benefici dati e ricevuti e per
rispetto della grandezza imperiale. La quale poi declinando, separatisi in
tutto dalla amicizia loro, cominciorono a fare professione che la degnità
pontificale avesse più tosto a ricevere che a dare le leggi alla imperiale: e
perciò, avendo sopra tutte l'altre cose in orrore il ritornare nell'antica
subiezione, e che essi non tentassino di riconoscere in Roma e altrove le
antiche ragioni dello imperio, come alcuni di loro o di maggiore potenza o di
spirito più elevato si sforzavano di fare, si opponevano scopertamente con le
armi alla potenza loro; accompagnati da quegli tiranni che, sotto nome di
prìncipi, e da quelle città che, vendicatesi in libertà, non riconoscevano più
l'autorità dello imperio. Da questo nacque che i pontefici, attribuendosi ogni
dì più, e convertendo il terrore dell'armi spirituali alle cose temporali, e
interpretando che come vicari di Cristo in terra erano superiori agli
imperadori, e che a loro in molti casi apparteneva la cura dello stato terreno,
privavano alcuna volta gli imperadori della degnità imperiale, suscitando gli
elettori a eleggere degli altri in luogo de' privati; e da altra parte gli
imperadori o eleggevano o procuravano che si eleggessino nuovi pontefici. Da
queste controversie nacque, essendo indebolito molto lo stato della Chiesa, né
meno per la dimora della corte romana per settanta anni nella città di
Avignone, e per lo scisma che al ritorno de' pontefici succedette in Italia,
che nelle città sottoposte alla Chiesa, e specialmente in quelle di Romagna,
molti cittadini potenti occuporno nelle patrie proprie la tirannide; i quali i
pontefici o perseguitavano o, non essendo potenti a opprimergli, le concedevano
in feudo a quegli medesimi, o suscitando altri capi gli investivano. Così
cominciorono le città di Romagna ad avere signori particolari, sotto titolo, la
maggiore parte, di vicari ecclesiastici. Così Ferrara, data dal pontefice in
governo ad Azzo da Esti, fu conceduta poi in titolo di vicariato, ed esaltata
in progresso di tempo quella famiglia a titoli più illustri; così Bologna,
occupata da Giovanni Visconte arcivescovo di Milano, gli fu poi conceduta in
vicariato dal pontefice: e per le medesime cagioni, in molte terre della marca
di Ancona, del patrimonio di San Piero e della Umbria, ora detta il ducato,
sorsono, o contro alla volontà o con consentimento quasi sforzato de'
pontefici, molti signori particolari. Le quali variazioni essendo similmente
sopravenute in Lombardia alle città dello imperio, accadde talvolta che,
secondo la varietà delle cose, i vicari di Romagna e di altre terre
ecclesiastiche, allontanatisi apertamente dal nome della Chiesa, riconoscevano
in feudo quelle città dagli imperadori; come, qualche volta, riconoscevano in feudo
da' pontefici quegli che occupavano, in Lombardia, Milano Mantova e altre terre
imperiali. E in questi tempi Roma, benché ritenendo in nome il dominio della
Chiesa, si reggeva quasi per se stessa. E ancora che, nel principio che i
pontefici romani ritornorno di Avignone in Italia, fussino ubbiditi come
signori, nondimeno poco poi i romani, creato il magistrato de' banderesi,
ricaddono nella antica contumacia; donde ritenendovi i pontefici piccolissima
autorità cominciorono a non vi abitare, insino a tanto che i romani, impoveriti
e caduti in gravissimi disordini per l'assenza della corte, e approssimandosi
l'anno del mille quattrocento, nel quale speravano, se a Roma fusse il
pontefice, dovervi essere per il giubileo grandissimo concorso di tutta la cristianità,
supplicorono con umilissimi prieghi a Bonifazio pontefice che vi ritornasse,
offerendo di levare via il magistrato de' banderesi e di sottomettersi in tutto
alla ubbidienza sua. Con le quali condizioni tornato a Roma, intenti i romani
a' guadagni di quello anno, preso assolutamente lo imperio della città,
fortificò e messe la guardia in Castel Sant'Angelo: i successori del quale,
insino a Eugenio, benché v'avessino spesso molte difficoltà, nondimeno, fermato
poi pienamente il dominio loro, i pontefici seguenti hanno senza alcuna
controversia signoreggiata ad arbitrio suo quella città. Con questi fondamenti
e con questi mezzi esaltati alla potenza terrena, deposta a poco a poco la
memoria della salute dell'anime e de' precetti divini, e voltati tutti i
pensieri loro alla grandezza mondana, né usando più l'autorità spirituale se
non per instrumento e ministerio della temporale, cominciorono a parere più
tosto prìncipi secolari che pontefici. Cominciorono a essere le cure e i negozi
loro non più la santità della vita, non più l'augumento della religione, non
più il zelo e la carità verso il prossimo, ma eserciti, ma guerre contro a'
cristiani, trattando co' pensieri e con le mani sanguinose i sacrifici, ma
accumulazione di tesoro, nuove leggi nuove arti nuove insidie per raccorre da
ogni parte danari; usare a questo fine senza rispetto l'armi spirituali,
vendere a questo fine senza vergogna le cose sacre e le profane. Le ricchezze
diffuse in loro e in tutta la corte seguitorono le pompe il lusso e i costumi
inonesti, le libidini e i piaceri abominevoli; nessuna cura a' successori,
nessuno pensiero della maestà perpetua del pontificato, ma, in luogo di questo,
desiderio ambizioso e pestifero di esaltare non solamente a ricchezze
immoderate ma a principati, a regni, i figliuoli i nipoti e congiunti loro; non
distribuendo più le degnità e gli emolumenti negli uomini benemeriti e
virtuosi, ma, quasi sempre, o vendendosi al prezzo maggiore o dissipandosi in
persone opportune all'ambizione all'avarizia o alle vergognose voluttà. Per le
quali operazioni perduta del tutto ne' cuori degli uomini la riverenza
pontificale, si sostenta nondimeno in parte l'autorità per il nome e per la
maestà, tanto potente ed efficace, della religione, e aiutata molto dalla
facoltà che hanno di gratificare a' prìncipi grandi e a quegli che sono potenti
appresso a loro, per mezzo delle degnità e delle altre concessioni
ecclesiastiche. Donde, conoscendosi essere in sommo rispetto degli uomini, e
che a chi piglia l'armi contro a loro risulta grave infamia e spesso
opposizione di altri prìncipi e, in ogni evento, piccolo guadagno, e che
vincitori esercitano la vittoria ad arbitrio loro, vinti conseguiscono che
condizione vogliono, e stimolandogli la cupidità di sollevare i congiunti suoi
di gradi privati a principati, sono stati da molto tempo in qua spessissime
volte lo instrumento di suscitare guerre e incendi nuovi in Italia.
Ma ritornando
al principale proposito nostro, dal quale il dolore giustissimo del danno
publico m'aveva, più ardentemente che non conviene alla legge dell'istoria,
traportato, le città di Romagna, vessate come l'altre suddite alla Chiesa da
questi accidenti, si reggevano, già molti anni, in quanto all'effetto, quasi
come separate dal dominio ecclesiastico; perché alcuni de' vicari non pagavano
il censo debito in recognizione della superiorità, altri lo pagavano con
difficoltà e spesso fuora di tempo, ma tutti indistintamente senza licenza de'
pontefici si conducevano agli stipendi di altri prìncipi, non eccettuando di
non essere tenuti a servirgli contro alla Chiesa, e ricevendo obligazione da
loro di difendergli eziandio contro all'autorità e l'armi de' pontefici: da'
quali erano ricevuti cupidamente, per potersi valere delle armi e delle
opportunità degli stati loro, né meno per impedire che non si accrescesse la
potenza de' pontefici. Ma in questo tempo erano possedute da' viniziani in
Romagna le città di Ravenna e di Cervia, delle quali avevano molti anni innanzi
spogliati quegli della famiglia da Polenta, divenuti prima, di cittadini
privati di Ravenna, tiranni della loro patria e poi vicari; Faenza Furlì Imola
e Rimini erano dominate da vicari particolari; Cesena, signoreggiata lungamente
dalla famiglia de' Malatesti, morendo non molti anni innanzi senza figliuoli
Domenico ultimo vicario di quella città, era ritornata sotto l'imperio della
Chiesa. Perciò il pontefice, pretendendo che quelle città fussino per diverse
cause devolute alla sedia apostolica e volere reintegrarla nelle sue antiche
giurisdizioni, ma con intenzione veramente di attribuirle a Cesare suo
figliuolo, avea convenuto col re di Francia che, acquistato che avesse il
ducato di Milano, gli desse aiuto a ottenere solamente quelle che erano
possedute da' vicari, e oltre a queste la città di Pesero della quale era
vicario Giovanni Sforza già suo genero; perché la grandezza de' viniziani non
permetteva che contro a loro si distendessino questi pensieri: i quali né si
distendevano, per allora, a quelle piccole terre che, contigue al fiume del Po,
erano tenute dal duca di Ferrara. Ottenute adunque il Valentino le genti dal
re, e aggiunte a quelle le genti della Chiesa, entrato in Romagna, ottenne
subito la città d'Imola per accordo, negli ultimi dì dell'anno mille
quattrocento novantanove.
Nel quale anno
Italia, conquassata da tanti movimenti, aveva similmente sentite le armi de'
turchi; perché, avendo Baiseth ottomanno assaltato per mare con potente armata
i luoghi che in Grecia tenevano i viniziani, mandò per terra seimila cavalli a
predare la regione del Frioli; i quali, trovato il paese non guardato né
sospettando di tale accidente, corsono predando e ardendo insino a Liquenza; e
avendo fatto quantità innumerabile di prigioni, quando, ritornandosene,
giunsono alla ripa del fiume del Tigliavento, per camminare più espediti,
riserbatasi quella parte quale stimorono potere condurre seco, ammazzorono
crudelissimamente tutti gli altri. Né procedendo anche prosperamente le cose in
Grecia, Antonio Grimanno, capitano generale dell'armata opposta da' viniziani
alla armata del turco, accusato che non avesse usata l'occasione di vincere gli
inimici che uscivano del porto della Sapienza, e un'altra volta alla bocca del
golfo di Lepanto, datogli il successore, fu citato a Vinegia, e commessa la
cognizione al consiglio de' pregati; nel quale fu trattata molti mesi con
grandissima espettazione, difendendolo da una parte l'autorità e grandezza sua,
dall'altra perseguitandolo con molti argomenti e testimoni gli accusatori.
Finalmente, parendo che fusse per prevalere la causa sua, o per l'autorità
dell'uomo e moltitudine de' parenti o perché in quello consiglio, nel quale
intervengono molti uomini prudenti, non si considerassino tanto i romori
publici e le calunnie non bene provate quanto si desiderasse di intendere
maturamente la verità della cosa, fu questa cognizione per il magistrato degli
avocadori del comune trasferita al giudicio del consiglio maggiore: dove, o
cessando i favori o avendovi più luogo la leggerezza della moltitudine che la
maturità senatoria, fu, non però prima che nell'anno seguente, alla fine
rilegato a esilio perpetuo nell'isola di Ossaro.
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