XIII. Il giubileo. Il Valentino prende Forlì. Ritorno del re in Francia:
cause di malcontento in Milano. Lodovico Sforza riconquista il ducato e cerca
con scarsa fortuna alleati ed aiuti. Lodovico Sforza ottiene Novara.
Ebbe movimenti
così grandi l'anno mille quattrocento novantanove, ma non fu meno vario e
memorabile l'anno mille cinquecento; nobile ancora per la remissione plenaria
del giubileo. Il quale, instituito da principio da' pontefici che si
celebrasse, secondo l'esempio del Testamento vecchio, ogni cento anni, non per
delettazione o per pompa, come erano appresso a' romani i giuochi secolari, ma
per salute dell'anime (perché in esso, secondo la pietosa credenza del popolo
cristiano, si aboliscono pienamente tutti i delitti a coloro che, riconoscendo
con vera penitenza i falli commessi, visitano le chiese dedicate in Roma a'
prìncipi degli apostoli), fu poi instituito che si celebrasse ogni cinquanta
anni, e in ultimo ridotto a venticinque anni; e nondimeno, per la memoria della
sua prima origine, è celebrato con molto maggiore frequenza nell'anno centesimo
che negli altri.
Nel principio
di questo anno il Valentino ottenne senza resistenza la città di Furlì; perché
quella madonna, mandati i figliuoli e la roba più preziosa a Firenze,
abbandonate l'altre cose le quali era impotente a sostenere, si ridusse
solamente a difendere la cittadella e la rocca di Furlì, provedute copiosamente
d'uomini e d'artiglierie. Ma essendo tra tanti difensori ripieni d'animo
femminile ella sola di animo virile, furono presto, per la viltà de' capitani
che v'erano dentro, espugnate dal Valentino. Il quale, considerando più in lei
il valore che il sesso, la mandò prigione a Roma, dove fu custodita in Castel
Santo Angelo: benché passato di poco uno anno, per intercessione di Ivo di
Allegri, ottenne la liberazione.
Ottenuto che
ebbe il Valentino Imola e Furlì, procedeva all'espedizione dell'altre terre; ma
l'interroppono nuovi accidenti che improvisamente sopravennono. Perché il re,
poiché ebbe dato alle cose acquistate quello ordine che più gli parve
opportuno, lasciatovi sufficiente presidio, e prorogata, con inclusione
eziandio del ducato di Milano e di tutto quello teneva in Italia, per insino a
maggio prossimo, la tregua col re de' romani, se ne ritornò in Francia; ove
condusse il piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, datogli imprudentemente dalla
madre, il quale dedicò a vita monastica; e nel ducato di Milano lasciò
governatore generale Gianiacopo da Triulzi, in cui per il valore e per i meriti
suoi, e per l'inimicizia con Lodovico Sforza, sommamente confidava. Ma non rimase
già fedele disposizione ne' popoli di quello stato; parte perché a molti
dispiacevano le maniere e i costumi de' franzesi, parte perché nel re non
avevano trovato quella liberalità, né ottenuta l'esenzione di tutti i dazi,
come la moltitudine si era imprudentemente persuasa. E importava molto che a
tutta la fazione ghibellina, potentissima nella città di Milano e nell'altre
terre, era molto molesto che al governo fusse preposto Gianiacopo capo della
fazione guelfa; la quale mala disposizione era molto accresciuta da lui, che di
natura fazioso e di animo altiero e inquieto favoreggiava con l'autorità del
magistrato, molto più che non era conveniente, quegli della sua parte; e
alienò, oltre a questo, molto da lui gli animi della plebe, che nella piazza del
macello ammazzò di sua mano alcuni beccai, che con la temerità degli altri
plebei, ricusando di pagare i dazi da' quali non erano esenti, si opponevano
con l'armi a' ministri deputati alle esazioni delle entrate. Per le quali
cagioni dalla maggiore parte della nobiltà e da tutta la plebe, cupidissima per
sua natura di cose nuove, era desiderato il ritorno di Lodovico, e chiamato già
con parole e voci non occulte il suo nome.
Il quale
essendosi insieme col cardinale Ascanio presentato a Cesare, e con grande
umanità veduti e raccolti, avevano trovato in lui ottimo animo e dispiacere
grandissimo delle loro calamità, promettendo a ogni ora di muoversi in persona
con forze potenti alla recuperazione del loro stato, perché aveva composto in tutto
la guerra co' svizzeri: ma queste speranze, per la varietà della natura sua e
per essere consueto a confondere l'uno con l'altro de' suoi concetti mal
fondati, si scoprivano ogni dì più vane; anzi oppressato dalle sue solite
necessità non cessava di richiedergli spesso di danari. Però Lodovico e
Ascanio, non sperando più negli aiuti suoi ed essendo continuamente sollecitati
da molti gentiluomini di Milano, soldati ottomila svizzeri e cinquecento uomini
d'arme borgognoni, si risolverono di fare la impresa da loro medesimi. Il quale
moto presentendo il Triulzio, ricercò subito il senato viniziano che accostasse
le genti sue al fiume dell'Adda, e a Ivo d'Allegri significò essere necessario
che, partendosi dal Valentino, ritornasse con le genti d'arme franzesi e co'
svizzeri con grandissima celerità a Milano; e per reprimere il primo impeto
degli inimici mandò una parte delle genti a Como, non lo lasciando il sospetto
che aveva del popolo milanese voltarvi tutte le forze sue. Ma la sollecitudine
de' fratelli Sforzeschi superò tutta la diligenza degli altri; perché, non
aspettate tutte le genti che aveano soldate ma dato ordine che di mano in mano
gli seguitassino, passorno con somma prestezza i monti, e saliti in sulle
barche che erano nel lago di Como si accostorno a quella città: la quale,
ritirandosi i franzesi per avere conosciuta la disposizione de' comaschi,
subito gli ricevette. La perdita di Como significata a Milano generò tale
sollevazione nel popolo, e quasi in tutti i principali della fazione ghibellina,
che già non si astenevano da tumultuare; in modo che il Triulzio, non vedendo
alle cose del re rimedio alcuno, si ridusse subitamente nel castello, e la
notte seguente, insieme con le genti d'arme che si erano ritirate nel barco che
è contiguo al castello, se ne andò verso Noara, seguitandogli nel ritirarsi i
popoli tumultuosamente insino al fiume del Tesino; e lasciate in Novara
quattrocento lancie si fermò con l'altre a Mortara, pensando lui e gli altri
capitani più a recuperare il ducato, venendo di Francia nuovo soccorso, che a
difenderlo. Entrò dopo la partita de' franzesi in Milano prima il cardinale
Ascanio e di poi Lodovico; avendolo, dal castello in fuora, ricuperato con la
medesima facilità con la quale l'aveano perduto, e dimostrandosi maggiore
desiderio e letizia del popolo milanese nel suo ritorno che non si era
dimostrato nella partita. La quale disposizione essendo similmente negli altri
popoli, le città di Pavia e di Parma richiamorono senza dilazione il nome di
Lodovico; e arebbono Lodi e Piacenza fatto il medesimo se le genti viniziane,
venute prima in sul fiume di Adda, non vi fussino entrate subitamente.
Alessandria e quasi tutte le terre di là da Po, essendo più lontane a Milano e
più vicine ad Asti, città del re, non feceno mutazione, aspettando di
consigliarsi più maturamente secondo i progressi delle cose.
Recuperato che
ebbe Lodovico Milano non perdé tempo alcuno a soldare quantità grande di fanti
italiani e quanti più uomini d'arme poteva avere, e a stimolare con prieghi con
offerte e con varie speranze tutti quegli da' quali sperava di essere aiutato
in tanta necessità. Perciò mandò a Cesare, a significare il principio prospero,
il cardinale di San Severino, supplicandolo che gli mandasse genti e
artiglierie; e desiderando di non avere inimico il senato viniziano, ordinò che
il cardinale Ascanio mandasse subito a Vinegia il vescovo di [Cremona], a
offerire la volontà pronta del fratello ad accettare qualunque condizione
sapessino desiderare: ma vanamente, perché il senato deliberò non si partire
dalla confederazione che aveano col re. Ricusorono i genovesi, benché pregati
instantemente da Lodovico, di ritornare sotto il dominio suo; né i fiorentini
vollono udire la sua richiesta della restituzione de' danari ricevuti in
prestanza da lui. Solo il marchese di Mantova mandò in aiuto suo il fratello
con certa quantità di gente d'arme, e vi concorsono i signori della Mirandola
di Carpi e di Coreggio, e i sanesi gli mandorono piccola somma di danari;
sussidi quasi disprezzabili in tanti pericoli: come similmente furno di piccolo
momento quegli di Filippo Rosso e de' Vermineschi, i padri de' quali benché
fussino stati spogliati da lui dell'antico dominio loro, i Rossi di San Secondo
di Torchiara e di molte altre castella del parmigiano, quegli dal Verme della
città di Bobio e d'altri luoghi circostanti nella montagna di Piacenza,
nondimeno Filippo, partendosi senza licenza dagli stipendi veneti, andò a
recuperare le terre sue, e ottenutele si unì con l'esercito di Lodovico; il
medesimo feceno quei dal Verme, per ricuperare l'uno e gli altri con questa
occasione la grazia sua.
Ma Lodovico,
avendo raccolti oltre a' cavalli borgognoni mille cinquecento uomini d'arme e
aggiunti a' svizzeri moltissimi fanti italiani, lasciato il cardinale Ascanio a
Milano all'assedio del castello, passato il Tesino e ottenuta per accordo la
terra e la fortezza di Vigevano, pose il campo a Novara; eletta più tosto
questa impresa che il tentare la oppugnazione di Mortara, o perché i franzesi
si erano in Mortara molto fortificati o perché stimasse appartenere più alla
riputazione e alla somma della guerra l'acquisto di Novara, città celebre e
molto abbondante, o perché, recuperata Novara, la penuria delle vettovaglie
avesse a mettere in necessità i franzesi che erano a Mortara di abbandonarla, o
per impedire che non venisse a Noara Ivo d'Allegri, ritornato di Romagna.
Perché avendo, mentre che col duca Valentino andava alla impresa di Pesero,
ricevuto gli avvisi del Triulzio, partitosi subitamente con tutta la cavalleria
e co' svizzeri, e intesa appresso a Parma la ribellione di Milano, seguitando
con grandissima velocità il cammino, e convenuto co' parmigiani e co'
piacentini di non gli offendere e che non si opponessino al passare suo, giunto
a Tortona, incitato da' guelfi di quella città ardenti di cupidità di
vendicarsi de' ghibellini, i quali ritornati alla divozione di Lodovico gli
aveano cacciati, entratovi dentro la saccheggiò tutta; lamentandosi e chiamando
invano i guelfi la fede sua che, fedelissimi e servidori del re, fussino non
altrimenti trattati che i perfidi inimici. Da Tortona si fermò in Alessandria,
perché i svizzeri venuti seco, mossi o dal non essere pagati o da altra fraude,
passorno nell'esercito del duca di Milano. Il quale, trovandosi più potente che
gli inimici, accelerava con sommo studio di battere con l'artiglierie Novara,
per espugnarla innanzi che i franzesi, i quali aspettavano soccorso dal re,
fussino potenti a opporsegli in sulla campagna: la quale cosa gli riuscì
felicemente, perché i franzesi che erano in Novara, perduta la speranza del
difendersi, convennono di dargli la città, avuta la fede da lui di potersene
andare salvi con tutte le robe sue; la quale osservando costantemente, gli fece
accompagnare insino a Vercelli, ancora che, per importare molto alla vittoria
la uccisione di quelle genti, fusse confortato a romperla da molti, che
allegavano che, se era lecito, secondo l'autorità e gli esempli d'uomini
grandi, violare la fede per acquistare stato, doveva essere molto più lecito il
violarla per conservarlo. Acquistata la terra di Novara si fermò alla
espugnazione della fortezza; ma si crede che se andava verso Mortara, che le
genti franzesi, non essendo molto concordi il Triulzio e Lignì, si sarebbono
ritirate di là dal Po.
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