VI. Il Valentino prende Piombino. Matrimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso
d'Este. Il re di Francia tratta la pace con Massimiliano. Trattative del re di
Francia coi governi della Toscana. Trattative fra Massimiliano e il cardinale
di Roano a Trento. Morte del doge Agostino Barbarigo. Rinnovata la
confederazione col re di Francia i fiorentini riprendono la guerra contro Pisa.
Procedevano in
questi tempi medesimi le cose del pontefice con la consueta prosperità: perché
aveva acquistato con grandissima facilità tutto lo stato che i Colonnesi e i
Savelli tenevano in terra di Roma, del quale donò una parte agli Orsini; e il
Valentino, continuando la impresa sua contro a Piombino, vi mandò Vitellozzo e
Giovampagolo Baglioni con nuove genti, per la venuta de' quali spaventato
Jacopo da Appiano che ne era signore, lasciata guardata la fortezza e la terra,
se ne andò per mare in Francia, per tentare di ottenere dal re, il quale molto
prima l'aveva ricevuto nella sua protezione, che per rispetto dell'onore
proprio non lo lasciasse perire. Alla qual cosa il re, non velando con
artificio alcuno la infamia sua, rispose molto liberamente avere promesso al
pontefice di non se gli opporre, né potersegli opporre senza fare detrimento a
se medesimo. Ma in questo mezzo la terra, per opera di Pandolfo Petrucci, si
arrendé al Valentino; e il medesimo fece poco dipoi la fortezza. Congiunse
ancora il pontefice Lucrezia sua figliuola, stata già destinata a tre altri
mariti, e allora vedova per la morte di Gismondo principe di Biselli e già
figliuolo naturale di Alfonso re di Napoli, il quale era stato ammazzato dal
duca Valentino, ad Alfonso primogenito d'Ercole da Esti con dota di centomila
ducati in pecunia numerata e con molti donamenti di grandissimo valore. Al
quale matrimonio, molto indegno della famiglia da Esti, solita a fare parentadi
nobilissimi, e perché Lucrezia era spuria e coperta di molte infamie,
acconsentirono Ercole e Alfonso perché il re di Francia, desideroso di
sodisfare in tutte le cose al pontefice, ne fece estrema instanza; e gli mosse
oltre a ciò il desiderio di assicurarsi con questo mezzo (se però contro a
tanta perfidia era bastante sicurtà alcuna) dall'armi e dall'ambizione del
Valentino: il quale, potente di danari e di autorità della sedia apostolica e
per il favore che aveva dal re di Francia, era già formidabile a una grande
parte d'Italia, conoscendosi che le sue cupidità non avevano termine e freno
alcuno.
Continuava in
questi tempi medesimi con grandissima sollecitudine il re di Francia di
trattare la pace con Massimiliano Cesare, non solo per speranza di sollevarsi
da spese e da sospetti, e ottenere da lui la investitura molto desiderata del
ducato di Milano, ma eziandio per avere facoltà di offendere i viniziani;
movendolo il sapere che a loro erano moleste le sue prosperità, e il
persuadersi che secretamente si fussino affaticati per interrompere la pace tra
Cesare e lui. Ma lo moveva più la cupidità che, per se stesso e per gli stimoli
de' milanesi, aveva di recuperare Cremona e la Ghiaradadda, cose state poco
innanzi concedute loro da esso medesimo, e Brescia Bergamo e Crema, state già
del ducato di Milano, e occupate da' viniziani nelle guerre che ebbeno con
Filippo Maria Visconte. E per trattare più da presso queste cose, e per fare le
provisioni necessarie alla impresa di Napoli, aveva mandato molto prima a
Milano il cardinale di Roano, la cui lingua e autorità era la lingua e
l'autorità propria del re, il quale vi era dimorato più mesi non avendo ancora
potuto, per le spesse variazioni del re de' romani, fermare seco cosa alcuna.
Per mezzo del
cardinale, trattorono i fiorentini in questo tempo di essere di nuovo ricevuti
nella protezione del re, ma senza effetto, perché proponeva condizioni molto
difficili; anzi dimostrando d'avere totalmente l'animo alieno da loro e
pretendendo, il re, non essere più obligato alle convenzioni fatte a Milano,
fece consegnare a' lucchesi, accettati di nuovo in protezione, Pietrasanta e
Mutrone, come cose per antiche ragioni appartenenti a quella città: ma ricevuti
da loro, come signore di Genova, ventiquattromila ducati, perché i lucchesi
possessori anticamente di Pietrasanta l'aveano, per certe necessità, impegnata
per tanta quantità a' genovesi, da' quali era poi per forza d'armi pervenuta
ne' fiorentini. Trattò ancora co' sanesi co' lucchesi e co' pisani di unirgli
insieme per rimettere i Medici in Firenze, disegnando che il re conseguisse da
ciascuno non piccola somma di danari: le quali pratiche benché si conducessino
insino quasi alla stipulazione, nondimeno non ebbeno effetto perché non erano
tutti pronti a pagare la quantità de' danari dimandata, e perché si conosceva
essere più facilità a valersi de' fiorentini.
Sopravenne
finalmente speranza più certa dal re de' romani, e però il cardinale andò a
convenirsi [con lui] a Trento dove trattorono molte cose concernenti di
stabilire il matrimonio di Claudia figliuola del re di Francia e di Carlo
primogenito dello arciduca, con la concessione all'uno e l'altro di loro della
investitura del ducato di Milano. Trattossi similmente di muovere guerra a'
viniziani, per ricuperare ciascuno quello che pretendeva essergli occupato da loro;
e di convocare uno concilio universale per riordinare le cose della Chiesa, non
solo, come dicevano, nelle membra ma eziandio nel capo: e a questo simulava di
consentire il re de' romani per dare speranza di conseguire il pontificato al
cardinale di Roano, il quale ardentemente vi aspirava; avendone il suo re, per
l'interesse della grandezza propria, non minore cupidità di lui. Acconsentivasi
ancora per la parte del re di Francia, nella inclusione degli aderenti e
confederati suoi, la clausula «salve le ragioni dello imperio»;
per la quale si permetteva a Massimiliano il riconoscerle eziandio contro a
quegli che fussino o ora nominati dal re o prima accettati sotto la sua
protezione. Rimaneva solamente la difficoltà principale nella investitura,
perché Cesare recusava di concederla a' figliuoli maschi, se alcuni ne
nascessino, del re; e vi era qualche difficoltà sopra la restituzione de'
fuorusciti del ducato di Milano, la quale dimandata instantemente da Cesare non
era consentita dal re, perché erano molti e persone di seguito e di autorità:
benché astretto da' prieghi del medesimo non recusasse di liberare Ascanio
Sforza, e desse speranza di fare il medesimo di Lodovico Sforza, assegnandogli
provisione di ventimila ducati l'anno, co' quali onestamente vivesse nel regno
di Francia. Sopra le quali difficoltà non essendo interamente concordi ma con
speranza di introdurre qualche forma conveniente, e perciò prolungata di nuovo
la tregua, ritornò il cardinale in Francia, presupponendosi quasi per certo che
le cose trattate avessino ad avere presto perfezione: la quale [speranza] si
augumentò, perché non molto poi l'arciduca, dovendo andare in Ispagna per
ricevere da' popoli, nella persona sua e di Giovanna sua moglie figliuola
primogenita di quegli re, il giuramento, come destinati alla successione, fatto
con la moglie il cammino per terra, si convenne a Bles col re di Francia; dove
ricevuto con grandissimo onore rimasono insieme concordi del matrimonio de'
figliuoli.
In questo anno
medesimo morì Augustino Barbarico doge de' viniziani, avendo esercitato molto
felicemente il suo principato, e con tale autorità che pareva che in molte cose
avesse trapassato il grado de' suoi antecessori. Però, limitata con leggi nuove
la potestà de' successori, fu eletto in suo luogo Leonardo Loredano; non
sentendo, per la forma molto eccellente del governo loro, le cose publiche, né
per la morte del principe né per la elezione del nuovo, variazione alcuna.
Erano state in
questo anno medesimo, fuora dell'uso degli anni precedenti, assai quiete l'armi
tra' fiorentini e i pisani; perché i fiorentini, non essendo più sotto la
protezione del re di Francia e stando in continuo sospetto del pontefice e del
Valentino, avevano più atteso a guardare le cose proprie che a offendergli; e i
pisani, impotenti da se stessi a travagliargli, non potevano farlo con aiuto
d'altri, perché niuno si moveva se non per sostenergli quando erano in pericolo
di perdersi. Ma nell'anno mille cinquecento due ritornorono a movimenti
consueti, perché i fiorentini, quasi nel principio del detto anno, convennono
di nuovo col re di Francia, superate tutte le difficoltà più per beneficio
della fortuna che per benignità del re o per altre cagioni. Conciossiacosaché
essendo il re de' romani entrato, dopo la partita del cardinale di Roano da
lui, in nuovi disegni, e recusando di concedere al re la investitura del ducato
di Milano eziandio per le figliuole femmine, aveva mandato in Italia oratori
Ermes Sforza, liberato di carcere dal re di Francia per la intercessione della
reina de' romani sua sorella, e il proposto di Brissina, a trattare, col
pontefice e con gli altri potentati, della passata sua per pigliare la corona
dello imperio: i quali, dimorati alquanti dì in Firenze, avevano ottenuto che
la città gli promettesse aiuto di cento uomini d'arme e di trentamila ducati
quando fusse entrato in Italia: e però il re, sospettando che i fiorentini
disperati dell'amicizia sua non volgessino l'animo alle cose di Massimiliano,
partendosi dalle dimande immoderate che aveva fatte, si ridusse a più
tollerabili condizioni. La somma delle quali fu: che il re, ricevendogli in
protezione, fusse obligato, per tre anni prossimi, a difendergli con l'armi a
spese proprie contro a ciascuno che o direttamente o indirettamente gli
molestasse nello stato e dominio che in quel tempo possedevano; che i
fiorentini gli pagassino ne' detti tre anni, ogn'anno la terza parte,
centoventimila ducati; intendessinsi annullate tutte l'altre capitolazioni
fatte tra loro e gli oblighi dependenti da quelle; che a' fiorentini fusse
lecito procedere con l'armi contro a' pisani, e contro a tutti gli altri
occupatori delle terre loro. Dalla quale confederazione avendo preso animo,
deliberorono dare il guasto de' grani e delle biade al contado di Pisa, per
ridurre i pisani a ubbidienza con la lunghezza del tempo e con la fame, poiché
le espugnazioni erano state tentate infelicemente. Questo consiglio era stato
il primo anno della loro ribellione proposto da qualche savio cittadino,
confortando che con questi modi più certi, benché più lunghi, si cercasse di
affliggere e consumare i pisani, con minore spesa e pericolo; perché nelle
condizioni tanto perturbate d'Italia, conservandosi i danari potrebbeno
aiutarsene a molte occasioni, ma cercando di sforzargli sarebbe impresa
difficile per essere quella città forte di muraglie e piena di abitatori
ostinati a difenderla, e perché, qualunque volta la fusse in pericolo di
perdersi, tutti quegli che desideravano che la non si perdesse gli darebbeno
aiuto; in modo che le spese sarebbeno grandi e la speranza piccola, anzi con
pericolo evidente di suscitarsi gravi travagli: il quale consiglio, rifiutato
da principio come dannoso, fu conosciuto utile dopo il corso di più anni, ma in
tempo che per ottenerne la vittoria si era già spesa quantità grande di danari
e sostenuti molti pericoli. Dato il guasto, sperando che per rispetto della
protezione del re nessuno si avesse a muovere, mandorno il campo a Vico Pisano:
perché la terra, pochi dì innanzi, per tradimento di alcuni soldati che vi
erano dentro, era stata tolta loro da' pisani, e il castellano della rocca, non
aspettato il soccorso che sarebbe arrivato in poche ore, l'avea con grandissima
viltà data loro. Né dubitavano ottenerne la vittoria facilmente, sapendo non
essere dentro vettovaglie bastanti a sostentargli per quindici dì, e confidando
di impedire che non ve ne entrasse perché, fabricati bastioni in su' monti e in
più luoghi, aveano occupati tutti i passi. E nel tempo medesimo, avendo notizia
che Fracassa, il quale povero e senza soldo stava nel mantovano, andava per
entrare in Pisa con pochi cavalli, in nome e con lettere, benché quasi
mendicate, di Massimiliano, detteno ordine che in quel di Barga fusse assaltato
nel passare: dove, benché rifuggito in una chiesa vicina nel territorio del
duca di Ferrara, fu da quegli che lo seguitavano fatto prigione.
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