XI. Timori di prìncipi e di governi per il ritorno del Valentino in
Romagna. Giustifica tali timori il contegno del re di Francia specialmente
verso il Bentivoglio. Inutili rimostranze di Venezia al re. Confederazione
contro il Valentino. Arti del pontefice e del Valentino per disunire i
collegati. Colloquio del Valentino con Paolo Orsini. Accordi fra il Valentino e
Paolo Orsini e fra il Valentino e il Bentivoglio. Le genti del Valentino
prendono Sinigaglia. Vitellozzo Vitelli e Liverotto da Fermo fatti strangolare
dal Valentino. Lodovico e Federico de' Pichi spogliano del potere il fratello
Giovan Francesco.
Ritornò adunque
il Valentino, licenziato in Asti dal re, in Romagna, con tutto che prima avesse
dato speranza, a quegli che temeano di lui, di condurlo seco per sicurtà comune
in Francia. La cui ritornata commosse non solamente gli animi di coloro contro
a' quali si indirizzava il suo primo impeto ma eziandio di molti altri: perché
il medesimo timore avevano Pandolfo Petrucci e gli Orsini, congiunti quasi
nella medesima causa con Vitellozzo e con Giampaolo Baglione; e al duca di
Ferrara dava maggiore spavento la perfidia e l'ambizione sua e del padre che
non dava confidenza il parentado; e i fiorentini, ancora che avessino
ricuperato le terre col favore del re, stavano con molto timore trovandosi poco
proveduti di gente d'arme, perché il re, non confidandosi interamente del
marchese di Mantova per la dependenza che avea avuta, quando temeva le sue
armi, con lo imperadore, benché a Milano l'avesse ricevuto in grazia, non aveva
consentito lo conducessino per loro capitano generale; e conoscevano [per]
molti segni che avessino la consueta volontà contro a di loro, e specialmente
perché, per tenergli in continuo sospetto, ricettavano ne' luoghi vicini tutti i
fuorusciti di Arezzo e di quell'altre terre.
Accresceva il
timore di tutti questi il considerare quanto con l'armi co' danari e con
l'autorità fussino potenti tali inimici, quanto in tutte le cose loro si
dimostrasse propizia la fortuna, e che per tanti acquisti non si era moderata
in parte alcuna la loro cupidità, anzi, come se al fuoco fussino somministrati
continuamente nuovi alimenti, era diventata immoderata e infinita. Temevasi che
essi, conoscendo quanto rispetto avesse loro il re di Francia, non pigliassino
animo a tentare qualunque cosa, eziandio contro alla sua volontà; e già
dicevano il padre e il figliuolo, palesemente, pentirsi de' troppi rispetti e
dubitazioni che avevano avute nelle cose d'Arezzo, affermando che 'l re,
secondo la natura de' franzesi, e i mezzi potenti che avevano nella sua corte,
tollererebbe sempre le cose fatte benché gli fussino moleste. Né assicurava
alcuno di questi che temevano, l'essere il re obligato alla sua protezione;
perché erano freschi gli esempli che aveva permesso che sotto quella fusse
spogliato il signore di Piombino, né risentitosi che il medesimo fusse accaduto
al duca d'Urbino, accettatovi da lui quando mandò l'esercito a Napoli, perché
dette in servigio suo cinquanta uomini d'arme. Ma più presente e più tremendo
era l'esempio di Giovanni Bentivogli; perché, con tutto che il re avesse ne'
prossimi anni comandato al Valentino che non molestasse Bologna, allegando che
le obligazioni che aveva col pontefice non si intendevano se non per le
preeminenze e autorità le quali, nel tempo che si confederorno insieme, vi
possedeva la Chiesa, nondimeno in questo tempo, ricercandolo il Bentivoglio di
aiuto per le preparazioni che si facevano contro a lui, variando la
interpretazione delle parole secondo la varietà de' fini suoi, e commentando le
capitolazioni fatte più tosto come giurisconsulto che come re, rispondeva che
la protezione per la quale si era obligato a difenderlo non impediva la impresa
del pontefice se non per la persona e beni suoi particolari; perché, se bene le
parole erano generali, vi era specificato che la si intendesse senza
pregiudicio delle ragioni della Chiesa, alla quale niuno negava appartenere la
città di Bologna; e perché nella confederazione che aveva fatta col pontefice,
anteriore di tempo a tutte quelle che aveva fatte in Italia, si era obligato,
in qualunque convenzione facesse per l'avvenire con altri, eccettuare sempre
ch'elle non si intendessino in pregiudicio delle ragioni della Chiesa. Nella
quale deliberazione perseverò in modo senza vergogna che, confortandolo a così
fare il cardinale di Roano, contro al parere di tutti gli altri del suo
consiglio, mandò a Bologna uno uomo proprio a intimare che, essendo quella città
appartenente alla Chiesa, non poteva mancare di non favorire la impresa del
pontefice, e che per virtù della sua protezione sarebbe lecito a' Bentivogli
abitare privatamente in Bologna e godersi le loro sostanze.
Né solamente a
tutti questi, ma insino a' viniziani, cominciava a essere sospetta tanta
prosperità del duca Valentino; sdegnati eziandio che pochi mesi innanzi,
dimostrando essere in piccola estimazione appresso a lui l'autorità di quel
senato, aveva fatto rapire la moglie di Giovambattista Caracciolo capitano
generale delle loro fanterie, la quale, andando da Urbino a congiugnersi col
marito, passava per la Romagna. Però, per dare causa al re di procedere più
moderatamente a' suoi favori, dimostrando di muoversi come amici e gelosi
dell'onore suo, gli ricordorono per gli oratori loro, con parole degne della
gravità di tanta republica, che considerasse di quanto carico gli fusse il dare
tanto favore al Valentino, e quanto poco convenisse allo splendore della casa
di Francia e al cognome tanto glorioso di re cristianissimo favorire uno
tiranno tale, distruttore de' popoli e delle provincie e sitibondo sì
immoderatamente del sangue umano, ed esempio a tutto il mondo di orribile
immanità e perfidia; dal quale, come da publico ladrone, erano stati ammazzati
sì crudelmente sotto la fede tanti nobili e signori, e che non si astenendo
ancora dal sangue de' fratelli e de' congiunti, ora con ferro ora con veleno,
avesse incrudelito nelle età miserabili eziandio alla barbarie de' turchi. Alle
quali parole il re, confermandosi forse più nella sentenza sua per la
intercessione de' viniziani, rispondeva non volere né dovere impedire il
pontefice che non disponesse ad arbitrio suo delle terre che appartenevano alla
Chiesa. In modo che, astenendosi gli altri per rispetto suo da opporsi all'armi
del Valentino, quegli che erano già prossimi allo incendio deliberorono
provedervi per loro medesimi. Però gli Orsini, Vitellozzo, Giampagolo Baglione
e Liverotto da Fermo, con tutto che come soldati del Valentino, il quale
simulava di volere muovere l'armi solamente contro a Bologna, avessino ricevuto
di nuovo danari da lui, ritirorno le genti delle loro condotte in luoghi
sicuri, con intenzione di unirsi insieme per la difesa comune. Alla qual cosa
gli fece accelerare la perdita della fortezza di Santo Leo, la quale per
trattato di uno del paese, proposto quivi a certa muraglia, ritornò in potestà
di Guido duca di Urbino; e da questo principio, richiamandolo quasi tutti i
popoli di quello stato, egli, andato da Vinegia, dove era rifuggito, per mare a
Sinigaglia, ricuperò subito, dalle fortezze in fuora, tutto il ducato.
Congregornosi
adunque alla Magione, in quel di Perugia, il cardinale Orsino (il quale dopo la
partita del re, temendo di ritornare a Roma, si era stato a Monteritondo),
Pagolo Orsino, Vitellozzo, Giampagolo Baglione e Liverotto da Fermo, e per
Giovanni Bentivogli Ermes suo figliuolo, e in nome de' sanesi Antonio da
Venafro ministro confidentissimo di Pandolfo Petrucci; dove, discorsi i
pericoli loro sì evidenti, e l'opportunità che avevano per la ribellione dello
stato d'Urbino e perché al Valentino abbandonato da loro restavano pochissime
genti, feciono confederazione a difesa comune e a offesa di Valentino e a
soccorso del duca d'Urbino, obligandosi a mettere tra tutti in campo settecento
uomini d'arme e novemila fanti, con patto che il Bentivoglio rompesse la guerra
nel territorio d'Imola, e gli altri con maggiore sforzo procedessino verso
Rimini e verso Pesero. Nella quale confederazione, avendo grandissimo rispetto
a non irritare l'animo del re di Francia, e sperando che forse non gli sarebbe
molesto che il Valentino fusse travagliato con l'armi di altri, espressono
volere essere obligati a muoversi prontamente con le persone proprie e con le
genti a sua requisizione contro a ciascuno; e per la medesima cagione non
ammessono in questa unione i Colonnesi, ancora che tanto inimici e perseguitati
dal pontefice. Ricercorono oltre a questo il favore de' viniziani e de'
fiorentini, offerendo a questi la restituzione di Pisa, la quale dicevano
essere in arbitrio di Pandolfo Petrucci per la autorità che avea co' pisani; ma
i viniziani stetteno sospesi aspettando di vedere prima la inclinazione del re
di Francia, e i fiorentini ancora, per la medesima cagione e perché avendo
l'una parte e l'altra per inimici temevano della vittoria di ciascuno.
Sopravenne
questo accidente improviso al duca Valentino, in tempo che tutto attento a
occupare gli stati altrui niente meno pensava che all'essere assaltati gli
stati suoi. Ma non perduto per la grandezza del pericolo né l'animo né 'l
consiglio, e confidando sommamente, come diceva, nella sua prospera fortuna,
attese con somma industria e prudenza a' rimedi opportuni. Principalmente
trovandosi quasi disarmato, mandò senza dilazione a domandare con grande
instanza aiuto al re di Francia, ricordandogli quanto in ogni caso potesse
valersi più del pontefice e di lui che degli inimici suoi, e quanto poco
potesse confidarsi di Vitellozzo e di Pandolfo, che era principale capo e
consultore di tutti gli altri, e che prima aveva aiutato il duca di Milano
contro a lui e dipoi sempre avuta dependenza dal re de' romani; e nondimeno
attendeva sollecitamente a provedersi di nuove genti, non dimenticando però né
'l padre né egli l'insidie e l'arti fraudolente: perché il pontefice, ora
scusando le cose palesi ora negando le dubbie, cercava con grandissima
diligenza di mitigare l'animo del cardinale Orsino, per mezzo di Giulio suo
fratello; e il Valentino, con varie lusinghe e promesse, si ingegnava di
placare e assicurare ora l'uno ora l'altro di essi, così per fargli più
negligenti alle provisioni come per speranza che queste pratiche separate
avessino a generare tra loro sospetto e disunione; deliberato, insino non
avesse esercito potente, non si partire da Imola ma attendere a guardare
l'altre terre, non dando soccorso alcuno al ducato d'Urbino. Per il che comandò
a don Ugo di Cardona e don Michele uomini suoi, che erano in quegli confini con
cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti, che si
ritirassino a Rimini: il che non eseguirono, per l'occasione che si presentò
loro di ricuperare e saccheggiare la Pergola e Fossombrone, dove furono
introdotti da' castellani delle fortezze. Ma l'effetto dimostrò quanto sarebbe
stato più utile seguitare la deliberazione del duca; perché andando verso Cagli
scontrorono appresso a Fossombrone Pagolo e il duca di Gravina, tutti due della
famiglia Orsina, co' quali erano seicento fanti di Vitellozzo, ed essendo
venuti alle mani restorno rotti quegli di Valentino con morte di molti e molti
prigioni; tra' quali fu morto Bartolomeo da Capranica capitano di settanta
uomini d'arme, e preso don Ugo di Cardona. Rifuggissi don Michele a Fano, onde per
commissione di Valentino si ritirò a Pesero, lasciata Fano, come terra più
fedele, in potestà del popolo, poi che non avea tante forze che potesse
difenderle amendue. E in questi dì medesimi le genti de' bolognesi, che erano
alloggiate a Castel San Piero, corseno a Doccia luogo vicino a Imola: e si
riducevano certamente le cose del Valentino in molto pericolo se i collegati
avessino usato più prestezza a offenderlo.
Ma mentre che
loro, o per non essere a ordine con le genti convenute nella dieta o tenuti
sospesi dalle pratiche della concordia, guardano nel volto l'uno l'altro,
cominciò a passare l'occasione che prima si era dimostrata favorevole; perché
il re di Francia aveva commesso a Ciamonte che mandasse quattrocento lancie al
Valentino, e si ingegnasse con tutti i modi possibili dare riputazione alle
cose sue: il che come fu inteso da' collegati, trovandosi molto confusi,
cominciò ciascuno a pensare alle cose proprie. Però il cardinale Orsino
continuava le pratiche cominciate col pontefice, e Antonio da Venafro mandato
da Pandolfo Petrucci andò a Imola a trattare col Valentino; col quale trattava
medesimamente Giovanni Bentivogli, avendo nel tempo medesimo mandato Carlo
degli Ingrati oratore al pontefice e fatte restituire le cose predate a Doccia.
Le quali pratiche essendo con sommo artificio aiutate e nutrite dal Valentino,
e giudicando Pagolo Orsino dovere essere mezzo opportuno a disporre gli altri,
simulando di confidare molto in lui, lo chiamò a Imola: per sicurtà del quale
il cardinale Borgia andò nelle terre degli Orsini. Con Pagolo usò il Valentino
dolcissime parole, lamentandosi non tanto di lui e degli altri, che avendolo
insino a quel dì servito con tanta fede si fussino per sospetti vani alienati
sì leggiermente da sé, quanto della imprudenza propria, non avendo saputo
procedere di maniera che avesse data loro causa di non ammettere queste vane
dubitazioni; ma sperare che questa diffidenza, nata al tutto senza cagione, in
luogo di inimicizia partorirebbe tra sé e loro perpetua e indissolubile
congiunzione: perché ed essi già si dovevano accorgere che non potevano
opprimerlo, poiché il re di Francia era tanto disposto a sostenere la sua
grandezza, ed egli da altra parte, avendo meglio aperti gli occhi per la
esperienza di questo moto, confessava ingenuamente di conoscere che dai
consigli e dal valore dell'armi loro era proceduta tutta la sua felicità e
riputazione. Però, desiderosissimo di ritornare nell'antica fede con loro,
essere parato ad assicurargli in qualunque modo volessino, e a finire, purché
con qualche sua degnità, le controversie co' bolognesi ad arbitrio loro.
Aggiunse, a quello che apparteneva a tutti, dimostrazione d'avere confidenza
grandissima in Pagolo, empiendolo di speranze e di promesse per sé proprio, e con
tanto artificio che facilmente gli persuase tutto quello che si esprimeva per
lui, efficace molto per natura nelle parole e prontissimo di ingegno.
Le quali cose
mentre che si trattavano, il popolo di Camerino richiamò Giovanmaria da Varano
figliuolo del signore passato, che era all'Aquila, e Vitellozzo, con grave
querela sua e di Pagolo Orsino, prese la rocca di Fossombrone; ed essendo
similmente perduta la fortezza d'Urbino e poi quelle di Cagli e di Agobbio, non
gli rimaneva in quello stato altro che Santa Agata, oltre ad avere perduto
tutto il contado di Fano. E nondimeno Pagolo, continuando la pratica
cominciata, poiché più volte per dare forma alle cose de' Bentivogli parenti
suoi (era la figliuola maritata a Ermes figliuolo di Giovanni) fu andato da
Imola a Bologna, convenne seco in questa sentenza, ma con condizione se la
convenzione fusse approvata dal cardinale Orsino, all'autorità del quale quasi
tutti gli altri si riferivano. Cancellassinsi gli odii conceputi e la memoria
di tutte le ingiurie passate; confermassinsi a' collegati l'antiche condotte,
con obligazione di andare come soldati del Valentino alla recuperazione del
ducato di Urbino e degli altri stati ribellati, ma per sicurtà loro non fussino
obligati ad andare a servirlo personalmente se non uno per volta, né il
cardinale Orsino obligato a stare in corte di Roma; e che delle cose di Bologna
si facesse compromesso libero nel duca Valentino nel cardinale Orsino e in
Pandolfo Petrucci. Con la quale conclusione essendo andato Pagolo Orsino,
fatto, ogni dì più, capacissimo della buona intenzione di Valentino, a trovare
gli altri per indurgli a ratificare, il Bentivoglio, non gli parendo né sicuro
né onorevole né ragionevole che le cose sue in arbitrio d'altrui rimanessino, mandato
il protonotario suo figliuolo a Imola e ricevuti uomini dal Valentino,
conchiuse accordo col pontefice e con lui; al quale più facilmente condiscesono
perché comprendevano che il re di Francia, considerando meglio o la infamia o
quel che importasse che la città di Bologna fusse in potestà loro, e però
rimosso dalla prima deliberazione, non era più per comportare che
l'ottenessino. Le condizioni furno: lega perpetua tra il Valentino da una parte
e i Bentivogli insieme con la comunità di Bologna dall'altra; avesse il
Valentino da' bolognesi condotta di cento uomini d'arme per otto anni, che si
convertiva in pagamento di dodicimila ducati l'anno; obligati i bolognesi a
servirlo di cento uomini d'arme e di cento balestrieri a cavallo, ma solamente
per uno anno prossimo; e che il re di Francia e i fiorentini promettessino
l'osservanza per l'una parte e per l'altra; e che per maggiore stabilità della
pace si maritasse al figliuolo di Annibale la sorella del vescovo di Enna
nipote del pontefice. Né cessava perciò Valentino di sollecitare la venuta
delle genti franzesi e di tremila svizzeri condotti a suo soldo, sotto specie
di usarle non più contro a' collegati ma per la ricuperazione del ducato di
Urbino e di Camerino: perché i collegati si erano già risoluti a ratificare
l'accordo fatto, essendo stato tirato in questa sentenza il cardinale Orsino,
che era allo Spedaletto in quello di Siena, dalle persuasioni di Pagolo e
confortatone molto da Pandolfo Petrucci; a che, benché dopo lunga
contradizione, consentirono Vitellozzo e Giampagolo Baglione a' quali era
sospettissima la fede del Valentino. Dopo la ratificazione de' quali avendo
medesimamente ratificato il pontefice, il duca d'Urbino, benché dal popolo che
gli prometteva volere morire per la conservazione sua fusse pregato di non
partirsi, nondimeno temendo più dell'armi militari che non confidava delle voci
popolari, ritornandosene a Vinegia, dette luogo all'impeto degli inimici,
avendo prima fatte rovinare tutte le fortezze di quello stato eccetto che quelle
di Santo Leo e di Maiuolo; e i popoli, essendovi andato per commissione del
Valentino i popoli Antonio dal Monte a Sansovino, che fu poi cardinale, con
facoltà di concedere loro venia, ritornorono d'accordo sotto il suo giogo: il
che fece anche la città di Camerino, perché il signore se ne fuggì nel reame di
Napoli, impaurito perché Vitellozzo e gli altri, levate le genti loro del
contado di Fano, si preparavano per andare come soldati di Valentino a quella
impresa. Nel quale tempo il pontefice mandò il campo a Palombara, ricuperata
da' Savelli insieme con Senzano e altre loro castella, nell'occasione dell'armi
mosse da questi altri.
Ma il duca
Valentino, volendo mettere a fine i suoi occulti pensieri, andò da Imola a
Cesena; dove non quasi arrivato che le lancie franzesi, venute non molti dì
prima, si partirno subitamente da lui, rivocate da Ciamonte, non per
commissione del re ma o, come si affermava, per indegnazione particolare nata
tra lui e il Valentino o pure perché così fusse stato procurato da lui, per
essere manco formidabile a quegli i quali sommamente desiderava di assicurare.
A Cesena attese a riordinare le genti sue, maggiori in numero che non era la
fama, perché industriosamente aveva fatto poche condotte grosse ma soldato, e
continuamente soldava, molte lancie spezzate e gentiluomini particolari: e nel
medesimo tempo Vitellozzo e gli Orsini, andati per suo comandamento a campo a
Sinigaglia, ottenneno la terra e la rocca; onde la prefettessa sorella del duca
d'Urbino si fuggì, abbandonata da ciascuno, non ostante che il figliuolo
pupillo fusse sotto la protezione del re di Francia, il quale si scusava di non
la aiutare perché si era aderita alla lega fatta alla Magione. Presa
Sinigaglia, Valentino andò a Fano; dove poi che fu soprastato qualche dì per
mettere insieme tutte le genti sue, fece intendere a Vitellozzo e agli Orsini
che il dì seguente voleva andare ad alloggiare in Sinigaglia, e però che
allargassino fuori della terra i soldati che erano con loro, i quali alloggiavano
dentro: il che subitamente eseguirono, alloggiando le fanterie ne' borghi della
città e le genti d'arme distribuendo per il contado. Venne il dì ordinato
Valentino a Sinigaglia, al quale si feciono incontro Pagolo Orsino e il duca di
Gravina, Vitellozzo e Liverotto da Fermo, e da lui raccolti con grandissime
carezze l'accompagnorono insino alla porta della città, innanzi alla quale si
erano fermate tutte le genti del Valentino in ordinanza. Nel qual luogo volendo
essi licenziarsi da lui, per ridursi agli alloggiamenti loro che erano di
fuora, insospettiti già per vedere che avea maggiore gente di quella che
credevano avesse, gli ricercò venissino dentro perché aveva di bisogno di
ragionare con loro; il che non potendo ricusare, benché con l'animo già quasi
indovino del futuro male, lo seguitorno nel suo alloggiamento, e con lui
ritirati in una camera, dopo poche parole, perché, sotto scusa di volere
pigliare altre vesti, si partì presto da loro, furono da genti che sopravenneno
nella camera fatti tutti a quattro prigioni; e in uno tempo medesimo mandati a
svaligiare i loro soldati. E il dì seguente, che fu l'ultimo dì di dicembre,
acciò che l'anno mille cinquecento due terminasse in questa tragedia,
riservando gli altri in prigione, fece strangolare in una camera Vitellozzo e
Liverotto: de' quali l'uno non aveva potuto fuggire il fato di casa sua, di
morire di morte violenta, come erano morti tutti gli altri suoi fratelli, in
tempo che avevano già nell'armi grande esperienza e riputazione, e
successivamente l'uno dopo l'altro, secondo l'ordine della età, Giovanni di uno
colpo di artiglieria nel campo che Innocenzio pontefice mandò contro alla città
di Osimo, Cammillo soldato de' franzesi di uno sasso intorno a Cercelle, e
Pagolo decapitato in Firenze; ma di Liverotto non potette negare alcuno che non
avesse fine condegno delle sceleratezze sue, essendo molto giusto che e'
morisse per tradimento chi poco innanzi aveva per tradimento ammazzato
crudelissimamente in Fermo, per farsi grande in quella città, Giovanni
Frangiani suo zio con molti altri de' cittadini principali di quella terra,
avendogli nella casa sua propria condotti a uno convito.
Non accadde in
questo anno altra cosa memorabile, eccetto che Lodovico e Federico della
famiglia de' Pichi conti della Mirandola, essendo stati prima cacciati da
Giovanfrancesco loro fratello, e pretendendo avervi, con tutto che fusse
maggiore di età, le medesime ragioni che lui, ottenute genti in aiuto loro dal
duca di Ferrara, di una sorella naturale del quale erano nati, e da Gianiacopo
da Triulzi suocero di Lodovico ne cacciorono per forza il fratello: cosa non
tanto degna di memoria per se stessa quanto perché poi, negli anni seguenti, le
controversie tra questi fratelli produssono effetti di qualche momento.
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