XIII. Vicende della guerra franco spagnola nel reame di Napoli. Arrivo di
nuovi aiuti spagnoli. Insuccessi de' francesi. La disfida di Barletta e la
gloriosa vittoria degli italiani.
Non procedevano
già con simile prosperità le cose de' franzesi nel regno di Napoli, avendo
insino nel principio di questo anno cominciato a difficultarsi. Imperocché,
essendo il conte di Meleto con gente de' prìncipi di Salerno e di Bisignano a
campo a Terranuova, passò da Messina in Calavria don Ugo di Cardona con
ottocento fanti spagnuoli, i quali stati a' soldi di Valentino aveva condotti
da Roma, e con cento cavalli e ottocento fanti tra siciliani e calavresi; e
giunto a Seminara si mosse verso Terranuova, per soccorrerla: il che intendendo
il conte di Meleto, levatosi da Terranuova, andò per incontrargli. Camminavano
gli spagnuoli per una pianura ristretta tra la montagna e una fiumana che mena
pochissima acqua ma che si congiugne alla strada con uno argine; e i franzesi,
superiori di numero, allo incontro, camminavano di sotto al fiume, desiderosi
di tirargli nel luogo largo; ma vedendogli procedere stretti e in ferma
ordinanza, dubitando che se non tagliavano loro la strada non si conducessino
salvi a Terranuova, passorno per assaltargli di là dal fiume: dove, prevalendo
la virtù de' fanti spagnuoli esercitati nella guerra e nocendo molto a'
franzesi il disavvantaggio dell'argine, furono rotti. Né molto poi arrivorono
di Spagna a Messina, per mare, dugento uomini d'arme dugento giannettieri e
dumila fanti guidati da Manuello di Benavida: col quale passò allora in Italia
Antonio de Leva, che salito poi di privato soldato, per tutti i gradi militari,
al capitanato generale, acquistò in Italia molte vittorie. I quali, passati da
Messina a Reggio di Calavria, preso non molto prima dagli spagnuoli, essendo
allora Obignì in altra parte della Calavria che quasi tutta si teneva per lui,
andorno ad alloggiare a Losarno propinquo a cinque miglia a Calimera, nella
quale terra due dì innanzi era entrato Ambricort con trenta lancie e il conte
di Meleto con mille fanti: e presentativisi la mattina seguente in sul fare del
dì, dove non erano porte ma solamente la sbarra, prese e morte prima le
sentinelle, la espugnorono al secondo assalto, benché francamente si
difendessino: dove restò morto il capitano Spirito, Ambricort prigione; e il
conte di Meleto rifuggito nella rocca si salvò, perché i vincitori si ritirorno
subitamente a Terranuova, temendo di Obignì, che con trecento lancie tremila
fanti forestieri e dumila del paese si approssimava. Dopo il quale accidente,
essendo Obignì fermatosi a Pollistrine castello propinquo, gli spagnuoli,
mancando loro le vettovaglie, si partirno una notte occultamente per andare a
Ghiarace; ma seguitati dalla gente di Obignì insino alla montata d'una
difficile montagna, perderno sessanta uomini d'arme e molti fanti: benché de'
franzesi vi morì, per essersi messo troppo innanzi, Grugnì, uomo stimato assai
da loro e che guidava la compagnia stata del conte di Gaiazzo, il quale poco
dopo la espugnazione di Capua era morto di morte naturale.
Sopravenne in
questo tempo di Spagna in Sicilia un'altra armata, che condusse dugento uomini
d'arme dugento cavalli leggieri e duemila fanti, che n'era capitano Porto
Carrera; il quale essendo morto a Reggio, dove era passato con le genti, rimase
la cura a don Ferrando d'Andrada suo luogotenente. Per la giunta de' quali
ripreso animo gli spagnuoli che s'erano ridotti a Ghiarace, ritornati a
Terranuova, si fortificorno nella parte della terra contigua alla fortezza
tenuta per loro, che è al capo d'una valle, alla qual valle si congiugne il
resto della terra; temendo e non invano della venuta di Obignì, perché egli,
venuto subito da Pollistrine, alloggiò in quella parte che non era occupata
dagli spagnuoli: fortificandosi ciascuno, e mettendo le sbarre dal canto suo.
Ma intendendo poi Obignì che gli spagnuoli, che erano smontati a Reggio,
s'accostavano per unirsi con gli altri, si ritirò a Losarno; e gli inimici,
seguitando la comodità delle vettovaglie, si poseno tutti insieme a Seminara.
Ma mentre che
nella Calavria le cose in questa maniera procedevano, il viceré franzese,
ritornato verso Barletta e fermatosi a Matera, aveva distribuito le genti in
più luoghi circostanti, attendendo a impedire che non vi entrassino
vettovaglie, e sperando che per la peste e carestia che era in Barletta gli
spagnuoli non potessino più dimorarvi, né ridursi a Trani dove erano le
difficoltà medesime. Ma era maravigliosa in tante incomodità e pericoli la
perseveranza loro, confermata dalla virtù e dalla diligenza di Consalvo; il
quale, ora dando speranza della venuta presta di dumila fanti tedeschi, a
soldare i quali aveva mandato Ottaviano Colonna in Germania, e di altri
soccorsi, ora spargendo fama di volere ritirarsi per mare a Taranto, gli
sostentava; ancora molto più con lo esempio, tollerando in se medesimo con
allegro animo tutte le fatiche e tutta la strettezza del vivere e di tutte le
cose necessarie; alle quali cose sopportare persuadeva gli altri con le parole.
In tale stato essendo ridotta la guerra, cominciorono, per la negligenza e per
gli insolenti portamenti de' franzesi, a essere superiori quegli che insino a
quel dì erano stati inferiori: perché gli uomini di Castellaneta, terra vicina
a Barletta, disperati per i danni e ingiurie che pativano da cinquanta lancie
franzesi che v'alloggiavano, prese popolarmente l'armi gli svaligiorno; e pochi
dì poi Consalvo, avendo notizia che monsignore della Palissa, il quale con
cento lancie e trecento fanti alloggiava nella terra di Rubos distante da
Barletta dodici miglia, faceva guardie negligenti, uscito una notte di Barletta
e condottosi a Rubos, e piantate con grandissima celerità l'artiglierie, le
quali per essere il cammino piano aveva facilmente condotte seco, l'assaltò con
tale impeto che i franzesi, i quali aspettavano ogn'altra cosa, spaventati
dallo assalto improviso, fatta debole difesa, si perderono, rimanendo insieme
con gli altri la Palissa prigione; e il dì medesimo se ne ritornò Consalvo a
Barletta, senza pericolo di ricevere nel ritirarsi, da Nemors, il quale pochi
dì innanzi era venuto a Canosa, danno alcuno, perché le genti sue, alloggiate,
per tenere Barletta assediata da più lati e forse per maggiore loro comodità,
in vari luoghi, non potevano essere a tempo a congregarsi. E si aggiunse che,
come scrivono alcuni, cento cinquanta lancie de' franzesi, mandate per pigliare
certi danari che si conducevano da Trani a Barletta, furono rotte da genti le
quali per assicurare i danari erano state mandate da Consalvo.
Seguitò
appresso a questi un altro accidente che diminuì assai l'ardire de' franzesi,
non potendo attribuire alla malignità della fortuna quello che era stato opera
propria della virtù. Perché essendo, sopra la recuperazione di certi soldati
che erano stati presi in Rubos, andato un trombetto a Barletta per trattare di
riscuotergli, furono dette contro a' franzesi da alcuni uomini d'arme italiani
certe parole che, riportate dal trombetto nel campo franzese e da quegli fatto
risposta agli italiani, acceseno tanto ciascuno di loro che, per sostenere
l'onore della propria nazione, si convenneno che in campo sicuro, a battaglia
finita, combattessino insieme tredici uomini d'arme franzesi e tredici uomini
d'arme italiani; e il luogo del combattere fu statuito in una campagna tra Barletta,
Andria e Quadrato, dove si conducessino accompagnati da determinato numero di
gente: nondimeno, per assicurarsi dalle insidie, ciascuno de' capitani con la
maggiore parte dell'esercito accompagnò i suoi insino a mezzo il cammino:
confortandogli che, essendo stati scelti di tutto l'esercito, corrispondessino
con l'animo e con l'opere alla espettazione conceputa, che era tale che nelle
loro mani e nel loro valore si fusse con comune consentimento di tutti
collocato l'onore di sì nobili nazioni. Ricordava il viceré franzese a' suoi,
questi essere quegli medesimi italiani che non avendo ardire di sostenere il
nome de' franzesi, avevano, senza fare mai esperienza della sua virtù, dato
loro sempre la via quante volte dall'Alpi avevano corso insino all'ultima punta
d'Italia; né ora accendergli nuova generosità d'animo o nuovo vigore, ma
trovandosi agli stipendi degli spagnuoli e sottoposti a' loro comandamenti non
avere potuto contradire alla volontà d'essi, i quali, assueti a combattere non
con virtù ma con insidie e con fraudi, si facevano volentieri oziosi
riguardatori degli altrui pericoli: ma come gli italiani fussino condotti in
sul campo, e si vedessino a fronte l'armi e la ferocia di coloro da' quali
erano stati sempre battuti, ritornati al consueto timore, o non ardirebbono
combattere o combattendo timidamente sarebbeno facile preda loro, non essendo
sufficiente scudo contro al ferro de' vincitori il fondamento fatto in su le
parole e braverie vane degli spagnuoli. Da altra parte Consalvo infiammava con
non meno pungenti stimoli gli italiani, riducendo in memoria gli antichi onori
di quella nazione e la gloria dell'armi loro, con le quali già tutto il mondo
domato avevano: essere ora in potestà di questi pochi, non inferiori alla virtù
de' loro maggiori, fare manifesto a ciascuno che se Italia, vincitrice di tutti
gli altri, era da pochi anni in qua stata corsa da eserciti forestieri esserne
stata cagione non altro che la imprudenza de' suoi prìncipi, i quali per
ambizione discordanti fra loro medesimi, per battere l'un l'altro, l'armi
straniere chiamate avevano: non avere i franzesi ottenuto in Italia vittoria
alcuna per vera virtù, ma o aiutati dal consiglio e dall'armi degli italiani o
per essere stato ceduto alle loro artiglierie; con lo spavento delle quali, per
essere stata cosa nuova in Italia, non per il timore delle loro armi, essergli
stata data la strada: avere ora occasione di combattere col ferro e con la
virtù delle proprie persone; trovandosi presenti a sì glorioso spettacolo le
principali nazioni de' cristiani, e tanta nobiltà de' suoi medesimi, i quali,
così dall'una parte come dall'altra, avere estremo desiderio della vittoria
loro. Ricordassinsi essere stati tutti allievi de' più famosi capitani
d'Italia, nutriti continuamente sotto l'armi, e avere ciascuno d'essi fatto in
vari luoghi onorevoli esperienze della sua virtù: e però, o essere destinata a
questi la palma di rimettere il nome italiano in quella gloria nella quale era
stato non solo a tempo de' loro maggiori ma ve l'avevano veduto essi medesimi
o, non si conseguendo per queste mani tanto onore, aversi a disperare che
Italia potesse rimanere in altro grado che di ignominiosa e perpetua servitù.
Né erano minori gli stimoli che dagli altri capitani e da' soldati particolari
dell'uno e dell'altro esercito erano dati a ciascuno di loro, accendendogli a
essere simili di se medesimi, a esaltare con la propria virtù lo splendore e la
gloria della sua nazione. Co' quali conforti condotti al campo, pieni ciascuno
d'animo e di ardore, essendo l'una delle parti fermatasi da una banda dello
steccato opposita al luogo dove s'era fermata l'altra parte, come fu dato il
segno, corseno ferocemente a scontrarsi con le lancie: nel quale scontro non
essendo apparito vantaggio alcuno, messo con grandissima animosità e impeto
mano all'altre armi, dimostrava ciascuno di loro egregiamente la sua virtù:
confessandosi tacitamente per tutti gli spettatori che di tutti gli eserciti
non potevano essere eletti soldati più valorosi, né più degni a fare sì
glorioso paragone. Ma essendosi già combattuto per non piccolo spazio e coperta
la terra di molti pezzi d'armadure e di molto sangue di feriti da ogni parte, e
ambiguo ancora l'evento della battaglia, risguardati con grandissimo silenzio,
ma quasi con non minore ansietà e travaglio d'animo che avessino loro, da'
circostanti, accadde che Guglielmo Albimonte, uno degli italiani, fu gittato da
cavallo da uno franzese; il quale mentre che ferocemente gli corre col cavallo
addosso per ammazzarlo, Francesco Salamone correndo al pericolo del compagno
ammazzò con uno grandissimo colpo il franzese, che intento a opprimere
l'Albimonte da lui non si guardava; e di poi insieme con l'Albimonte che s'era
sollevato, e col Miale che era in terra ferito, presi in mano spiedi che a questo
effetto portati avevano, ammazzorono più cavalli degl'inimici: donde i
franzesi, cominciati a restare inferiori, furono chi da uno chi da un altro
degli italiani fatti tutti prigioni. I quali, raccolti con grandissima letizia
da' suoi, e rincontrando poi Consalvo che gli aspettava a mezzo il cammino,
ricevuti con incredibile festa e onore, ringraziandogli ciascuno come
restitutori della gloria italiana, entrorono come trionfanti, conducendosi i
prigioni innanzi, in Barletta; rimbombando l'aria di suono di trombe e di
tamburi, di tuoni d'artiglierie e di plauso e grida militari: degni che ogni
italiano procuri, quanto è in sé, che i nomi loro trapassino alla posterità
mediante lo instrumento delle lettere. Furono adunque Ettore Fieramosca
capuano, Giovanni Capoccio, Giovanni Bracalone e Ettore Giovenale romani, Marco
Corellario da Napoli, Mariano da Sarni, Romanello da Furlì, Lodovico Aminale da
Terni, Francesco Salamone e Guglielmo Albimonte siciliani, Miale da Troia, e il
Riccio e Fanfulla parmigiani; nutriti tutti nell'armi, o sotto i re d'Aragona o
sotto i Colonnesi. Ed è cosa incredibile quanto animo togliesse questo
abbattimento all'esercito franzese e quanto n'accrescesse allo esercito
spagnuolo, facendo ciascheduno presagio, da questa esperienza di pochi, del
fine universale di tutta la guerra.
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