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Francesco Guicciardini
Storia d’Italia

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  • LIBRO SESTO.
    • X. Dolore e cruccio del re e della corte di Francia pel cattivo esito della campagna in Italia. Timori de' partigiani dei francesi; inazione di Consalvo. Fuga del Valentino presso Consalvo e sua prigionia in Ispagna. Tregua tra il re di Francia e i re di Spagna. Rapine di soldati spagnuoli nel reame di Napoli.
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X. Dolore e cruccio del re e della corte di Francia pel cattivo esito della campagna in Italia. Timori de' partigiani dei francesi; inazione di Consalvo. Fuga del Valentino presso Consalvo e sua prigionia in Ispagna. Tregua tra il re di Francia e i re di Spagna. Rapine di soldati spagnuoli nel reame di Napoli.

 

Ma ritornando al proposito della nostra narrazione, e alle cose che dopo l'essersi arrenduta agli spagnuoli Gaeta nell'anno mille cinquecento quattro succederono, le novelle della rotta ricevuta al Garigliano, e di tanti disordini che appresso seguitorono, empierono di lagrime e di pianti quasi tutto il regno di Francia, per la moltitudine de' morti e specialmente per la perdita di tanta nobiltà; donde la corte tutta, con gli abiti e con molti altri segni di dolore, appariva piena di mestizia e di afflizione; e si sentivano per tutto il reame le voci degli uomini e delle donne che maladivano quel nel quale prima entrò ne' cuori de' suoi re, non contenti di tanto impero che possedevano, la sfortunata cupidità di acquistare stati in Italia. Ma sopra tutto era tormentato l'animo del re per la disperazione d'avere più a ricuperare uno regnonobile, e per tanta diminuzione della estimazione e autorità sua: ricordavasi delle magnifiche parole le quali aveva dette tante volte contro al re di Spagna, e quanto si fusse vanamente promesso degli apparati fatti per assaltarlo da tante bande; ma accresceva il dolore e la indegnazione sua il considerare che, essendo state fatte da sé con somma diligenza e senza risparmio alcuno tante provisioni, e avendo guerra con inimici poverissimi e bisognosi di ogni cosa, fusse stato per la avarizia e per le fraudi de' ministri suoi sì ignominiosamente superato. E però, esclamando insino al cielo, affermava con efficacissimi giuramenti che, poiché era con tanta negligenza e perfidia servito da' suoi medesimi, che giammai commetterebbe più guerra alcuna a' suoi capitani ma andrebbe personalmente a tutte le imprese. Ma lo tormentava e cruciava ancora più il conoscere quanto, per la perdita di uno tale esercito e per la morte di tanti capitani e di tanta nobiltà, fussino indebolite le forze sue; in modo che, se o da Massimiliano fusse stato fatto qualche movimento nel ducato di Milano o se l'esercito spagnuolo uscito del reame di Napoli fusse passato più innanzi, diffidava esso medesimo sommamente di potere difendere quello stato, massime congiugnendosi ad alcuno di questi Ascanio Sforza lo imperio del quale era desiderato ardentemente da tutti i popoli.

Ma del re de' Romani non si maravigliò alcuno che non si destasse a tanta opportunità, essendo lo inveterato costume suo scambiare il più delle volte i tempi e le occasioni. Ma di Consalvo si persuadeva ciascuno il contrario: donde stavano quelli che in Italia aderivano a' franzesi in grandissimo terrore che egli, con la speranza che all'esercito vincitore non avessino a mancare danarioccasioni, senza dilazione seguitasse la vittoria, per sovvertire lo stato di Milano e mutare in cammino le cose di Toscana: il che se avesse fatto si credeva fermamente che il re di Francia, esausto di danari e sbattuto d'animo, arebbe senza fare alcuna resistenza ceduto a questa tempesta; essendo massime l'animo delle sue genti alienissimo dal passare in Italia e avendo quelle che tornorono da Gaeta passato i monti, sprezzati i comandamenti regi che furono presentati loro a Genova. E si vedeva chiaramente che il re, senza pensiero alcuno alle armi, era tutto intento a trattare concordia con Massimiliano; né meno intento a continuare le pratiche co' re di Spagna, per le quali, non intermesse nell'ardore della guerra, erano stati sempre, e ancora erano, oratori spagnuoli nella sua corte. Ma Consalvo, che da qui innanzi chiameremo più spesso il gran capitano, poiché con vittoriegloriose si aveva confermato il cognome datogli dalla iattanza spagnuola, non usò tanta occasione: o perché, trovandosi al tutto senza danari e debitore dell'esercito suo di molte paghe, gli fusse impossibile muovere con speranze di guadagni futuri o di pagamenti lontani le genti sue, che dimandavano danari e alloggiamenti, o perché fusse necessitato procedere secondo la volontà de' suoi re o perché non gli paresse bene sicuro, se prima non cacciava gli inimici di tutto il regno di Napoli, levarne l'esercito; perché Luigi d'Ars uno de' capitani franzesi, il quale dopo la giornata fatta alla Cirignola si era, con reliquie tali delle genti rotte che non erano in tutto da disprezzare, fermato a Venosa, e il quale mentre che gli eserciti stavano in sulle ripe del Garigliano aveva occupato Troia e San Severo, teneva sollevata tutta la Puglia; e alcuni de' baroni angioini ritiratisi agli stati loro si difendevano, seguitando scopertamente il nome del re di Francia: e si aggiunse che poco dopo la vittoria si ammalò di pericolosa infermità; per la quale non potendo andare in alcuna espedizione personalmente, mandò con parte delle genti l'Alviano a debellare Luigi d'Ars.

Per la quale sua o deliberazione o necessità di non seguitare per allora, fuora del reame di Napoli, la vittoria restavano l'altre cose d'Italia più presto in sospetto che in travaglio: perché i viniziani stavano, secondo l'usanza loro, sospesi ad aspettare l'esito delle cose; e a' fiorentini pareva acquistare assai se, nel tempo che totalmente disperavano del soccorso del re di Francia, non fussino assaltati dal gran capitano; e il pontefice, differendo ad altro tempo i suoi vasti pensieri, si affaticava perché il Valentino gli concedesse le fortezze di Furlì di Cesena e di Bertinoro, che sole per lui si tenevano nella Romagna, perché Antonio degli Ordelaffi aveva, pochi innanzi, ottenuta con premi quella di Forlimpopolo dal castellano. Consentì Valentino dare al pontefice i contrasegni di quella di Cesena: con i quali andato Pietro d'Oviedo spagnuolo per riceverla in nome del pontefice, il castellano, dicendo essergli disonore ubidire al padrone suo mentre che era prigione, e meritare di essere punito chi avesse presunto di fargli tale richiesta, l'aveva fatto impiccare. Donde il pontefice, escluso dalla speranza di poterle ottenere senza la liberazione del Valentino, convenne seco (della quale convenzione fu espedita per maggiore sicurtà una bolla nel concistoro) che il Valentino fusse posto nella rocca di Ostia, in assoluta potestà di Bernardino Carvagial spagnuolo, cardinale di Santa Croce, di liberarlo ogni volta che avesse restituito al pontefice le fortezze di Cesena e di Bertinoro e che della rocca di Furlì avesse consegnati i contrassegni al pontefice, e data sicurtà di banchi in Roma per quindicimila ducati; perché quel castellano prometteva di restituirla ricevuti che avesse i contrassegni e la quantità predetta, per sodisfazione delle spese le quali affermava d'avere fatte. Ma altra era la mente del pontefice; il quale, benché non volesse rompere palesemente la fede data, avea in animo di prolungare la sua liberazione, o per timore che, liberato, operasse che 'l castellano di Furlì negasse di dare la rocca o per la memoria delle ingiurie ricevute dal padre e da lui o per l'odio che ragionevolmente gli portava ciascuno. Della qual cosa sospettando il Valentino, ricercò secretamente il gran capitano che gli desse salvocondotto di potere sicuramente andare a Napoli, e che gli mandasse due galee per levarlo da Ostia; le quali cose essendo consentite da Consalvo, il cardinale di Santa Croce, che avea il medesimo sospetto, subito che ebbe notizia che oltre alla sicurtà data in Roma de' quindicimila ducati i castellani di Cesena e di Bertinoro aveano consegnato le fortezze, gli dette senza saputa del pontefice facoltà di partirsi. Il quale, non aspettate le galee che doveva mandargli il gran capitano, se ne andò occultamente per terra a Nettunno, onde in su una piccola barchetta si condusse alla rocca di Mondracone, e di quivi per terra a Napoli; ricevuto da Consalvo lietamente e con grande onore. In Napoli, stando spesso a segreti ragionamenti con Consalvo, lo ricercò che gli desse comodità di andare a Pisa, proponendogli che, fermandosi in quella città, ne risulterebbe grandissimo beneficio alle cose de' suoi re: il che dimostrando Consalvo di approvare, e offerendogli le galee per portarlo, e dandogli facoltà di soldare nel reame i fanti che e' disegnava di condurre seco, lo nutrì in questa speranza insino a tanto che ebbe risposta da' suoi re conforme a quello che avea disegnato di fare; consultando ciascuno con lui sopra le cose di Pisa e di Toscana, e offerendosi l'Alviano di assaltare nel tempo medesimo i fiorentini, per il desiderio che avea della restituzione de' Medici in Firenze. Ma essendo preparate già le galee e i fanti per partire il seguente, il Valentino, poiché la sera ebbe parlato lungamente con Consalvo, e da lui con dimostrazione grande di amore avuto licenza e abbracciato nel partirsi, procedendo con quella simulazione medesima che si diceva avere usata già contro a Iacopo Piccinino Ferdinando vecchio d'Aragona, subito che uscì della camera fu per comandamento suo ritenuto nel castello, e mandato all'ora medesima alla casa dove alloggiava a tôrre il salvocondotto che, innanzi partisse da Ostia, gli avea fatto; con tutto che allegasse che, avendogli comandato i suoi re che lo facesse prigione, prevaleva il comandamento loro al suo salvocondotto, perché la sicurtà data di propria autorità dal ministro non era valida più che si fusse la volontà del signore. Soggiugnendo oltre a questo essere stata cosa necessaria il ritenerlo, perché, non contento di tante iniquità che per l'addietro aveva commesse, procurava di alterare per l'avvenire gli stati d'altri, macchinare cose nuove seminare scandoli e fare nascere in Italia incendi perniciosi. E poco dipoi lo mandò in su una galea sottile prigione in Ispagna, non servito da altri de' suoi che da uno paggio, ove fu incarcerato nella rocca di Medina del Campo.

Fecesi circa a questi tempi medesima tregua per terra e [per] mare, così per le cose d'Italia come di da' monti, tra 'l re di Francia e i re di Spagna; alla quale, desiderata molto dal re di Francia, acconsentirno volentieri i re di Spagna perché giudicorno essere meglio stabilire per questo mezzo, con maggiore sicurtà e quiete, l'acquisto fatto che per mezzo di nuove guerre; le quali essendo piene di molestia e di spese hanno spesse volte fine diverso dalle speranze. Le condizioni furono che ciascuno ritenesse quello possedeva: fusse libero per tutti i regni e stati di ciascuna delle parti il commercio a' sudditi loro, eccetto che nel reame di Napoli: con la quale eccezione ottenne per via indiretta il gran capitano quel che gli era proibito direttamente, perché nelle frontiere de' luoghi tenute da' franzesi, che erano solamente in Calavria Rossano, in Terra d'Otranto Oira e in Puglia Venosa, Conversano e Casteldelmonte, pose genti che proibissino che alcuno o de' soldati o degli uomini di quelle terre non conversassino in luogo alcuno posseduto dagli spagnuoli; la quale cosa gli ridusse prestamente in tale strettezza che vedendo Luigi d'Ars e gli altri soldati e baroni di quelle terre che gli uomini, non potendo tollerare tante incomodità, deliberavano d'arrendersi agli spagnuoli, se ne partirono. E nondimeno il reame di Napoli, benché per tutto ne fussino stati cacciati gli inimici, non godeva i frutti della pace. Perché i soldati spagnuoli, creditori già delle paghe di più di uno anno, non contenti che 'l gran capitano, perché si sostentassino insino che avesse proveduto a' danari, gli aveva alloggiati in diversi luoghi ne' quali vivevano a spese de' popoli, ma prestate indiscretissimamente ad arbitrio loro (al che i soldati hanno dato nome di alloggiamento a discrezione), rotti i freni dell'ubbidienza erano, con grandissimo dispiacere del gran capitano, entrati in Capua e in Castell'a mare, onde recusando di partirsi se non si numeravano loro gli stipendi già corsi, né a questo, perché importavano quantità grandissima di danari, potendo provedersi senza aggravare eccessivamente il reame esausto per le lunghe guerre e consumato, erano miserabili le condizioni degli uomini, non essendo meno grave la medicina che la infermità che si cercava di curare: cose tanto più moleste quanto più erano nuove e fuora degli esempli passati. Perché se bene dopo i tempi antichi, ne' quali la disciplina militare s'amministrava severamente, i soldati erano stati sempre licenziosi e gravi a' popoli, nondimeno, non disordinate ancora in tutto le cose, vivevano in gran parte de' soldi loro né passava a termini intollerabili la loro licenza. Ma gli spagnuoli primi in Italia cominciorno a vivere totalmente delle sostanze de' popoli, dando cagione e forse necessità a tanta licenza l'essere dai suoi re, per l'impotenza loro, male pagati: dal quale principio ampliandosi la corruttela, perché l'imitazione del male supera sempre l'esempio come per il contrario l'imitazione del bene è sempre inferiore, cominciorno poi e gli spagnuoli medesimi e non meno gli italiani a fare, o siano pagati o non pagati, il medesimo; talmente che con somma infamia della milizia odierna, non sono più sicure dalla sceleratezza de' soldati le robe degli amici che degli inimici.

 




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