XI. Il pontefice ottiene Forlì. Vicende della guerra di Firenze contro
Pisa. Vani tentativi de' fiorentini di ridurre con la benevolenza l'inimicizia
de' contadini pisani. Richieste d'aiuto de' pisani a Genova.
La tregua fatta
tra i re di Francia e di Spagna, con opinione che non molto di poi avesse a
seguitare la pace, e in qualche parte la cattura del Valentino quietorono del
tutto le cose della Romagna. Perché essendo prima Imola venuta per volontà de'
capi di quella città in potestà del pontefice, né senza volontà del cardinale
di San Giorgio nutrito da lui con vana speranza di restituirla a' Riari suoi
nipoti; ed essendo, in quegli dì, per la morte d'Antonio degli Ordelaffi,
entrato in Furlì Lodovico suo fratello naturale, sarebbe quella città venuta in
mano de' viniziani, a' quali Lodovico conoscendosi impotente a tenerla
l'offeriva, ma le condizioni de' tempi gli spaventorno da accettarla per non
accrescere maggiore indegnazione nel pontefice: il quale non avendo chi se gli
opponesse ottenne la terra, fuggendosene Lodovico, e finalmente, pagati i
quindicimila ducati, la cittadella; la quale il castellano, fedele al
Valentino, non consentì mai di dargli se prima per uomini propri mandati a
Napoli non ebbe certezza della sua incarcerazione.
Così essendosi
fermate le guerre per tutte l'altre parti d'Italia, non cessorono per ciò, al
principio di quella state, secondo il consueto, l'armi de' fiorentini contro a'
pisani. I quali, avendo condotti di nuovo a' soldi loro Giampagolo Baglione e
alcuni capitani di genti d'arme Colonnesi e Savelli, e unite maggiori forze che
'l solito, gli mandorno a guastare le ricolte de' pisani; procedendo a questo
con maggiore animo, perché non dubitavano dovere essere impediti dagli
spagnuoli, non solo perché i re di Spagna non aveano nominati i pisani nella
tregua, nella quale era stato lecito a ciascuno de' re nominare gli amici e
aderenti suoi, ma perché il gran capitano, dopo la vittoria ottenuta contro a'
franzesi, se bene prima avesse dato molte speranze a' pisani, era proceduto con
termini mansueti co' fiorentini, sperando potergli forse succedere con queste
arti il separargli dal re di Francia, e con tutto che da poi fusse escluso da
questa speranza nondimeno, non volendo col provocargli dare loro causa che
maggiormente si precipitassino a tutte le volontà di quel re, avea per mezzo di
Prospero Colonna fatta, benché non altrimenti che con semplici parole, quasi
una tacita intelligenza con loro che se accadesse che 'l re di Francia
assaltasse di nuovo il reame di Napoli non l'aiutassino, e da altra parte che
da lui non fusse dato aiuto a' pisani se non in caso che i fiorentini
mandassino l'esercito con l'artiglierie alla espugnazione di quella città, la
quale desiderava non recuperassino mentre che seguitavano l'amicizia del re di
Francia. Distesesi l'esercito de' fiorentini non solo a dare il guasto in
quelle parti del contado di Pisa nelle quali per l'addietro si era dato ma
ancora in San Rossore e in Barbericina, dipoi in Valdiserchio e in Val d'Osoli,
luoghi congiunti a Pisa; dove quando l'esercito era stato meno potente non si
era potuto andare senza pericolo: il quale come fu dato, andati a campo a
Librafatta ove era piccolo presidio, costrinsono in pochi dì quelli che vi
erano dentro ad arrendersi liberamente. Né si dubita che quello anno i pisani
sarebbono stati costretti per la fame a ricevere il giogo de' fiorentini se non
fussino suti sostentati da' vicini, e massimamente da' genovesi e da' lucchesi
(perché Pandolfo Petrucci, prontissimo a confortare gli altri e larghissimo al
promettere di concorrere alle spese, era tardissimo agli effetti): co' danari
de' quali Rinieri della Sassetta soldato del gran capitano, ottenuta licenza da
lui, e alcuni altri condottieri condussono per mare dugento cavalli; e i
genovesi vi mandorno uno commissario con mille fanti; e il Bardella da Porto
Venere, corsale famoso nel mare Tirreno, e che pagato da' predetti avea titolo
di capitano de' pisani, metteva in Pisa continuamente, con uno galeone e alcuni
brigantini, vettovaglie. Onde i fiorentini, giudicando necessario che oltre
alle molestie che si davano per terra si proibisse loro l'uso del mare,
soldorno tre galee sottili del re Federigo che erano in Provenza: con le quali
come don Dimas Ricaiensio capitano loro si approssimò a Livorno il Bardella si
discostò, con tutto che alcuna volta, presa l'occasione de' venti, conducesse
qualche barca carica di vettovaglie alla foce d'Arno, onde facilmente entravano
in Pisa. La quale nel tempo medesimo si molestava per terra: perché l'esercito
fiorentino presa che ebbe Librafatta, distribuitosi in campagna in più parti di
quello contado, si ingegnava di proibire la coltivazione delle terre per l'anno
futuro, e di impedire che per la via di Lucca e del mare non vi entrassino
vettovaglie; e dando alla fine della state il guasto a' migli e altre biade
simili, delle quali quel paese produce copiosamente. Né stracchi i fiorentini
da tante spese, né giudicando impossibile cosa alcuna che desse loro speranza
di pervenire al fine desiderato, si ingegnorono con nuovo modo di offendere i
pisani, tentando di fare passare il fiume d'Arno, che corre per Pisa dalla
torre della Fagiana vicina a Pisa a [cinque] miglia, per alveo nuovo, nello
stagno che è tra Pisa e Livorno: onde si toglieva la facoltà di condurre cosa
alcuna dal mare per il fiume d'Arno a Pisa; né avendo l'acque, che piovevano
per il paese circostante, esito, per la bassezza sua, di condursi alla marina,
rimaneva quella città quasi come in mezzo di una palude; né per la difficoltà
di passare Arno arebbeno per l'avvenire potuto correre i pisani per le colline,
interrompendo il commercio da Livorno a Firenze; e acciò che quella parte di
Pisa per la quale entrava e usciva il fiume non rimanesse aperta agli insulti
degli inimici sarebbeno stati i pisani necessitati a fortificarla. Ma questa
opera, cominciata con grandissima speranza e seguitata con spesa molto
maggiore, riuscì vana: perché, come il più delle volte accade che simili cose,
benché con le misure abbino la dimostrazione quasi palpabile, si ripruovano con
l'esperienza (paragone certissimo quanto sia distante il mettere in disegno dal
mettere in atto), oltre a molte difficoltà non prima considerate, causate dal
corso del fiume, e perché avendo voluto ristrignerlo abbassava da se medesimo
rodendo l'alveo suo, apparì il letto dello stagno nel quale aveva a entrare,
contro a quello che aveano promesso molti ingegnieri e periti di acque, essere
più alto che il letto di Arno. E dimostrandosi, oltre a quello che per
l'ardente desiderio di ottenere Pisa si aspettava, la malignità della fortuna
contro a' fiorentini, essendo andate le galee soldate da loro a Villafranca per
pigliare una nave de' pisani carica di grani, nel ritornarsene, combattute da'
venti appresso a Rapalle, furno costrette a dare in terra; salvandosi con fatica
il capitano e gli uomini che le guidavano.
Aggiunsono i
fiorentini alla esperienza dell'armi e del terrore, per non lasciare intentata
cosa alcuna, l'esperienza della benignità e della grazia; perché con nuova
legge statuirono che qualunque cittadino o contadino pisano andasse fra certo
tempo ad abitare alle sue possessioni o alle sue case conseguisse venia di
tutte le cose commesse, con la restituzione de' suoi beni. Per la quale abilità
pochi sinceramente uscirno di Pisa, ma molti, quasi tutti persone inutili, con
volontà degli altri se ne partirono, alleggerendo in uno tempo medesimo la
carestia che premeva la città, e conseguendo comodità di potere in futuro con
quelle entrate aiutare quegli che vi erano rimasti, come occultamente facevano.
Diminuirno per
queste cose in qualche parte le necessità de' pisani, ma non perciò tanto che
per la somma povertà e per la carestia non fussino in grandissime angustie; ma
avendo ogni altra cosa meno in orrore che 'l nome de' fiorentini, se bene
qualche volta titubassino gli animi de' contadini, deliberavano patire, prima
che arrendersi, qualunque estremità. Perciò offersono di darsi a' genovesi, co'
quali aveano combattuto tante volte dello imperio e della salute, e da' quali la
potenza loro era stata afflitta anticamente. Proposono questa cosa i lucchesi e
Pandolfo Petrucci, desiderando, per fuggire quotidianamente spese e molestie,
obligare i genovesi a difendere Pisa, e offerendo, perché più facilmente vi
consentissino, sostenere per tre anni qualche parte delle spese. Alla qual cosa
benché molti in Genova repugnassino, e specialmente Giovanluigi dal Fiesco,
accettando la città, feceno instanza che 'l re di Francia, senza la volontà del
quale non erano liberi di prendere tale deliberazione, lo concedesse;
dimostrandogli quanto fusse pericoloso che i pisani, esclusi da questa quasi
unica speranza, si dessino a' re di Spagna, onde con grandissimo suo
pregiudicio e Genova starebbe in continua molestia e pericolo, e la Toscana, quasi
tutta, sarebbe necessitata a seguitare le parti di Spagna: le quali cagioni
benché da principio movessino tanto il re che quasi cedesse alla loro dimanda,
nondimeno, essendo dipoi considerato nel suo consiglio che, cominciando i
genovesi a implicarsi per se medesimi in guerre e in confederazioni con altri
potentati e in cupidità di accrescere imperio, sarebbe cagione che, alzandosi
continuamente co' pensieri a cose maggiori, aspirerebbono dopo non molto ad
assoluta libertà, denegò loro espressamente l'accettare il dominio de' pisani;
ma non vietando, con tutte le querele gravissime co' fiorentini, che
perseverassino di aiutargli.
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