XIII. Prime controversie fra il pontefice e Venezia per le terre di
Romagna. Pubblicazione delle convenzioni fra Massimiliano e l'arciduca, e il re
di Francia. Vicende della guerra de' fiorentini contro Pisa: fazione al ponte a
Cappellese. Giampaolo Baglione abbandona il soldo de' fiorentini.
La morte della
reina partorì poi nuovi accidenti in Spagna; ma in quanto alle cose d'Italia,
come di sotto si dirà, più tranquilla disposizione e occasione di nuova pace.
Continuossi nell'anno mille cinquecento cinque la medesima quiete che era stata
nell'anno dinanzi, e tale che, se non l'avessino qualche poco perturbata gli
accidenti che nacquono per rispetto de' fiorentini e de' pisani, si sarebbe
questo anno cessato totalmente da' movimenti delle armi, essendo una parte de'
potentati desiderosa della pace; gli altri più inclinati alla guerra, impediti
per varie cagioni. Perché al re di Spagna, che così continuava per ancora il
titolo suo, occupato ne' pensieri che gli succedevano per la morte della reina,
bastava conservarsi per mezzo della tregua fatta il regno napoletano; e il re
di Francia stava coll'animo molto sospeso, perché Cesare, seguitando in questo
come nell'altre cose la sua natura, non aveva mai ratificato la pace fatta; e
il pontefice, desideroso di cose nuove, non ardiva né poteva muoversi se non
accompagnato dall'armi di prìncipi potenti; e a' viniziani non pareva piccola
grazia se in tante cose trattate contro a loro, e in tanto mala disposizione
del pontefice, non fussino molestati dagli altri. L'animo del quale per
mitigare aveano, più mesi innanzi, offertogli di lasciare Rimini e tutto quello
che dopo la morte di Alessandro pontefice aveano occupato in Romagna, purché
consentisse che ritenessino Faenza col suo territorio; mossi dal timore che aveano
del re di Francia e perché Cesare, ricercatone da Giulio, mandato uno
imbasciadore a Vinegia, gli avea confortati che restituisseno le terre della
Chiesa: ma avendo il pontefice, secondo la costanza del suo animo e la natura
libera di esprimere i suoi concetti, risposto che non consentirebbe ritenessino
una piccola torre ma che sperava di recuperare innanzi alla sua morte Ravenna e
Cervia, le quali città non meno ingiustamente che Faenza possedevano, non si
era proceduto più oltre. Ma nel principio di questo anno, essendo divenuto
maggiore il timore, offersono per mezzo del duca d'Urbino, amico comune, di
restituire quel che aveano occupato che non fusse de' contadi di Faenza e di
Rimini, se il pontefice, che sempre avea negato di ammettere gli oratori loro a
prestare l'ubbidienza, consentisse ora di ammettergli. Alla quale dimanda
benché il pontefice stesse alquanto renitente, parendogli cosa aliena dalla sua
degnità né conveniente a tante querele e minaccie che avea fatte, nondimeno
astretto dalle molestie de' furlivesi degli imolesi e de' cesenati, che privati
della maggiore parte de' loro contadi tolleravano grande incomodità, né vedendo
per altra via il rimedio propinquo, poiché le cose tra Cesare e il re di
Francia procedevano con tanta lunghezza, finalmente acconsentì a quel che in
quanto agli effetti era guadagno senza perdita, poiché né con parole né con
scritture non avea a obligarsi a cosa alcuna. Andorno adunque, ma restituite
prima le terre predette, otto imbasciadori de' principali del senato, eletti
insino al principio della sua creazione, numero maggiore che mai avesse
destinato quella republica ad alcuno pontefice che non fusse stato viniziano; i
quali, prestata l'ubbidienza con le cerimonie consuete, non riportorono per ciò
a Vinegia segno alcuno né di maggiore facilità né d'animo più benigno del
pontefice.
Mandò in questo
tempo il re di Francia, desideroso di dare perfezione alle cose trattate, il
cardinale di Roano ad Agunod terra della Germania inferiore; nella quale, occupata
nuovamente al conte palatino, l'aspettavano Cesare e l'arciduca. Alla venuta
del quale si publicorno e giurorno solennemente le convenzioni fatte, e il
cardinale pagò a Cesare la metà de' danari promessi per la investitura, de'
quali doveva ricevere l'altra metà come prima fusse passato in Italia; e
nondimeno e allora accennava e poco di poi dichiarò non potervi passare, l'anno
presente, per l'occupazioni che avea nella Germania: onde tanto più cessavano i
sospetti delle guerre, perché senza il re de' romani non avea il re di Francia
inclinazione a tentare cose nuove.
Rimanevano
accesi solamente in Italia i travagli quasi perpetui tra i fiorentini e i
pisani. Tra' quali, procedendosi con guerra lunga né a impresa alcuna
determinata ma secondo l'occasioni che ora all'una ora all'altra parte si
dimostravano, accadde che uscì di Cascina, nella qual terra i fiorentini
facevano la sedia della guerra, Luca Savello e alcun'altri condottieri e
conestabili de' fiorentini, con quattrocento cavalli e con molti fanti, per
condurre vettovaglie a Librafatta e per andare a predare certe bestie de'
pisani che erano di là dal fiume del Serchio in sul lucchese; non tanto per la
cupidità della preda quanto per desiderio di tirare i pisani a combattere,
confidandosi, per essere più forti di loro in campagna, di rompergli: e avendo
messe le vettovaglie in Librafatta e fatta la preda disegnata, ritornavano
indietro lentamente per la medesima via, per dare tempo a' pisani di venire ad
assaltargli. Uscì, ricevuto avviso della preda fatta, subito di Pisa Tarlatino
capitano della guerra ma, per la prestezza del muoversi, con non più che con
quindici uomini d'arme quaranta cavalli leggieri e sessanta fanti, dato ordine
che gli altri lo seguitassino; e avendo notizia che alcuni de' cavalli de'
fiorentini erano corsi insino a San Iacopo appresso a Pisa andò verso loro: i
quali si ritirorono per unirsi con l'altre genti le quali si erano fermate al
ponte a Cappellese in sul fiume dell'Osole, vicino a Pisa a [tre] miglia,
aspettando quivi le bestie predate e i muli co' quali aveano condotta la
vettovaglia, che venivano dietro; ed essendo tutti di là dal ponte, il quale i
primi fanti aveano occupato e muniti gli argini e i fossi. Aveagli Tarlatino
seguitati insino appresso al ponte, né si accorse prima essersi fermate in quel
luogo tutte le genti degli inimici che era condotto tanto innanzi che senza
manifesto pericolo non poteva tornare indietro. [Però] deliberò di assaltare il
ponte; dimostrato a' suoi che quello a che la necessità gli costrigneva non era
senza speranza grande di potere vincere: perché nel luogo stretto ove pochi
potevano combattere non poteva loro nuocere il numero maggiore degli inimici,
in modo che quando bene non potessino passare il ponte, si difenderebbono
facilmente tanto che sarebbe a tempo di soccorrergli il popolo di Pisa, il
quale avea mandato a sollecitare; ma che passando il ponte sarebbe facilissima
la vittoria, perché, essendo stretta la strada di là dal fiume che corre tra 'l
ponte e il monte, la moltitudine degli inimici interrotta da' somieri e dalle
bestie predate si disordinerebbe agevolmente da se medesima, ridotta in luogo
impedito e a combattere e a fuggire. Succederono i fatti secondo le parole.
Egli primo, spronato furiosamente il cavallo, assaltò il ponte, ma costretto a
discostarsi, fece un altro il medesimo e dipoi il terzo; al quale essendo stato
ferito il cavallo, il capitano ritornato con impeto grande ad aiutarlo passò,
con la forza dell'armi e con la ferocia del cavallo, di là dal ponte, dandogli
luogo i fanti che lo difendevano. Feciono il medesimo quattro altri de' suoi
cavalli. I quali tutti mentre che di là dal ponte combattono co' fanti degli
inimici in uno stretto prato, alcuni fanti de' pisani passato il fiume con l'acqua
insino alle spalle, e da altra parte passando per il ponte, già abbandonato,
senza ostacolo i cavalli, e cominciando a giugnere l'altra gente che sparsa e
senza ordine veniva da Pisa, ed essendo i soldati de' fiorentini ridotti in
luogo stretto e confusi tra loro medesimi e ripieni di grandissima viltà (più
ancora gli uomini d'arme che i fanti), né avendo capitano di autorità che gli
ritenesse o riordinasse, si messono in manifesta fuga, lasciando la vittoria
quegli che molto più potenti di forze camminavano ordinatamente in battaglia a
quegli che in pochissimo numero erano venuti alla sfilata, con intenzione più
presto di appresentarsi che di combattere; restando tra morti presi e feriti
molti capitani di fanti e persone di condizione: e quegli che fuggirono furono
la più parte svaligiati nella fuga da' contadini del paese di Lucca.
Disordinoronsi
per questa rotta molto nel contado di Pisa le cose de' fiorentini; perché
essendo rimasti in Cascina pochi cavalli non potettono proibire per molti dì
che i pisani insuperbiti per la vittoria non corressino e predassino tutto il
paese. E quello che importò più, entrato per questo caso Pandolfo Petrucci in
isperanza che facilmente si potesse interrompere che i fiorentini non dessino
quella state il guasto a' pisani, i quali combattendo con le solite difficoltà
erano, benché molto parcamente, aiutati da' genovesi e da' lucchesi, perché i
sanesi somministravano loro più consigli che danari o vettovaglie, procurò che
Giampaolo Baglioni, del quale i fiorentini per essere stati causa principale
del suo ritorno in Perugia confidavano molto, durante la condotta sua recusò di
continuare ne' soldi loro, allegando che essendo a' medesimi stipendi
Marcantonio e Muzio Colonna, e Luca e Iacopo Savello, che tutti insieme aveano
maggiore numero di soldati che non avea egli, non vi stava senza pericolo per
la diversità delle fazioni: e perché avessino più breve spazio di tempo a
provedersi ritardò quanto potette prima che totalmente scoprisse il suo
pensiero. E perché alla escusazione sua fusse prestata maggiore fede, promesse
a' fiorentini di non pigliare l'armi contro a loro: di che perché fussino
meglio sicuri lasciò, come per pegno, a' soldi loro Malatesta suo figliuolo di
molto tenera età, con quindici uomini d'arme. Egli, per non rimanere del tutto
senza condotta, si condusse con settanta uomini d'arme co' sanesi: i quali
perché erano inabili a sopportare tanta spesa, i lucchesi partecipi di questo
consiglio soldorno con settanta uomini d'arme Troilo Savello, soldato prima de'
sanesi.
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