XIV. Timori de' fiorentini per accordi fra Pandolfo Petrucci Giampaolo
Baglione e Bartolomeo d'Alviano. I fiorentini ricorrono al re di Francia, che
pone condizioni troppo gravose. Il gran capitano ordina di non offendere i
fiorentini. L'Alviano contro i fiorentini. I fiorentini comandati da Ercole
Bentivoglio sconfiggono le genti dell'Alviano.
Per la partita
improvisa di Giampaolo e per il danno ricevuto al ponte a Cappellese, i
fiorentini, rimasti con poca gente, non dettono per quello anno il guasto a'
pisani: anzi erano necessitati a pensare rimedio a maggiori pericoli. Perché
essendosi svegliato in Pandolfo e in Giampaolo l'antico umore, trattavano
secretamente col cardinale de' Medici di turbare lo stato de' fiorentini;
facendo il fondamento principale in Bartolomeo d'Alviano, il quale
dimostrandosi discorde col gran capitano, venuto in terra di Roma, riduceva a
sé con varie speranze e promesse molti soldati. I quali consigli si dubitava
non penetrassino insino al cardinale Ascanio, con ordine, succedendo
felicemente le cose di Toscana, di assaltare, con le forze unite de' fiorentini
e degli altri che assentivano a questo movimento, il ducato di Milano, sperando
che assaltato facesse facilmente mutazione, per le poche genti d'arme che vi
erano de' franzesi, perché fuora erano moltissimi nobili, per la inclinazione
de' popoli al nome sforzesco, e perché il re di Francia, essendosi per grave
infermità sopravenutagli ridotto tanto allo stremo che per molte ore fu
disperata totalmente la sua salute, se bene dipoi si fusse alquanto discostato
dal punto della morte, pareva in modo condizionato che poco si sperava della
sua vita. E quegli che consideravano più intrinsecamente sospettavano che
Ascanio, il quale era in questi tempi frequentato molto in Roma dallo oratore
viniziano, avesse occulta intelligenza non solo col gran capitano ma ancora co'
viniziani; i quali sarebbono stati più pronti che per il passato e con maggiore
confidenza all'offesa de' franzesi, perché il re di Francia, essendo venuto in
nuovi sospetti e diffidenze col re de' romani e col figliuolo, e considerando,
dopo la morte della reina di Spagna, quanta sarebbe la grandezza dell'arciduca,
alienatosi apertamente da loro, aiutava contro all'arciduca il duca di Ghelleri
acerrimo inimico suo, e inclinava a fare particolare intelligenza col re di
Spagna. Ma (come sono fallaci i pensieri degli uomini e caduche le speranze)
mentre che tali cose si trattano, il re di Francia del quale era quasi
disperata la vita andava continuamente recuperando la salute, e Ascanio morì
all'improviso di peste in Roma. Per la morte del quale essendo cessato il
pericolo dello stato di Milano, non si interroppono perciò del tutto i disegni
del molestare i fiorentini: per i quali si convennono insieme al Piegai,
castello tra i confini de' perugini e de' sanesi, Pandolfo Petrucci Giampaolo
Baglione e Bartolomeo d'Alviano, non più con speranza di essere potenti a
rimettere i Medici in Firenze ma perché l'Alviano, entrando in Pisa con volontà
de' pisani, molestasse per sicurtà di quella città i confini de' fiorentini;
con intenzione di procedere più oltre secondo l'opportunità dell'occasioni. Le
quali preparazioni cominciando a venire a luce, temevano i fiorentini della
volontà del gran capitano, essendo certi che la condotta dell'Alviano col re di
Spagna continuava insino al novembre prossimo, e perché non si credeva che
senza suo consentimento Pandolfo Petrucci tentasse cose nuove; il quale, non
avendo mai voluto pagare i danari promessi al re di Francia e circonvenutolo
spesso con varie arti, totalmente dal re di Spagna dependeva. E accrebbe il
sospetto de' fiorentini, che temendo il signore di Piombino, il quale era sotto
la protezione del re di Spagna, di non essere assaltato da' genovesi, Consalvo,
per sicurtà sua avea mandato a Piombino, sotto Nugno del Campo, mille fanti
spagnuoli, e nel canale tre navi due galee e alcuni altri legni; le quali forze
condotte in luogo tanto vicino a' fiorentini davano loro causa di temere che
non si unissino con l'Alviano, come esso affermava essergli stato promesso. Ma
la verità era che, avendo il re di Spagna dopo la tregua fatta col re di
Francia, per diminuire le spese, commesso, insieme con la limitazione delle
condotte degli altri, che la ricondotta dell'Alviano si riducesse a cento
lancie, egli sdegnato non solo negava di ricondursi ma affermava essere libero
dalla condotta prima, perché non gli erano pagati gli stipendi corsi e perché
il gran capitano avea ricusato di osservargli la promessa fatta di concedergli,
dopo la vittoria di Napoli, dumila fanti per usargli contro a' fiorentini in
favore de' Medici. Ed era naturalmente il cervello dell'Alviano cupido di cose
nuove e impaziente della quiete.
Ricercorono i
fiorentini, per difendersi da questo assalto, il re di Francia, obligato per i
capitoli della protezione a difendergli con quattrocento lancie, che ne
mandasse dugento in aiuto loro; il quale, mosso più dalla cupidità de' danari
che da' prieghi o dalla compassione degli antichi collegati, rispose non volere
dare loro soccorso alcuno se prima non gli numeravano trentamila ducati
dovutigli per l'obligo della protezione; e benché i fiorentini, allegando
essere aggravati da infinite spese necessarie alla loro difesa, lo
supplicassino di alcuna dilazione, perseverò ostinatamente nella medesima
sentenza: di maniera che più giovò alla salute loro chi era sospetto e
ingiuriato che chi era confidente e beneficato. Conciossiaché 'l gran capitano,
desideroso che non si turbasse la quiete d'Italia, o per non interrompere le
pratiche della pace cominciate di nuovo tra i due re o perché già, per
l'occasione della morte della reina e i semi della discordia futura tra il
suocero e il genero, avesse qualche pensiero d'appropriarsi il reame di Napoli,
non solo faceva ogni diligenza per indurre l'Alviano alla ricondotta (il quale,
per comandamento avuto dal papa che o licenziasse le genti o uscisse del
territorio della Chiesa, era venuto a Pitigliano) ma gli aveva, come a
feudatario e come a soldato del suo re, comandato che non procedesse più
innanzi, sotto pena di privazione degli stati che aveva nel reame, d'entrata di
settemila ducati; e a' pisani, ricevuti non molto prima da lui secretamente nella
protezione del suo re, e al signore di Piombino aveva significato che non lo
ricevessino; e offerto a' fiorentini essere contento che usassino per la difesa
loro i fanti suoi che erano in Piombino, i quali voleva che stessino sotto
l'ubbidienza di Marcantonio Colonna loro condottiere. Ricercò similmente
Pandolfo Petrucci che non fomentasse l'Alviano, e proibì a Lodovico, figliuolo
del conte di Pitigliano, a Francesco Orsino e a Giovanni da Ceri suoi soldati
che non lo seguitassino.
E nondimeno
l'Alviano, con cui erano Gianluigi Vitello Giancurrado Orsino trecento uomini
d'arme e cinquecento fanti venturieri, procedendo, benché lentamente, sempre
innanzi e avendo vettovaglia dai sanesi, era per la Maremma de' sanesi venuto
nel piano di Scarlino, terra sottoposta a Piombino, presso a una piccola
giornata a' confini de' fiorentini, dove gli sopragiunse un uomo mandato dal
gran capitano a comandargli di nuovo che non andasse a Pisa e non offendesse i
fiorentini: al quale avendo replicato che era libero di se medesimo poiché il
gran capitano non gli avea osservato le cose promesse, andò ad alloggiare
appresso a Campiglia, terra de' fiorentini; ove si fece leggiera scaramuccia
tra lui e le genti de' fiorentini che facevano la massa a Bibbona. Venne poi in
su la Cornia, tra' confini de' fiorentini e di Sughereto; ma con disegni e
speranze molto incerte, rappresentandosegli a ogn'ora maggiore difficoltà:
perché né da Piombino aveva più vettovaglie, né gli mandavano fanti, secondo la
intenzione che gli era stata data, Giampagolo Baglione e i Vitelli, le
deliberazioni de' quali si accomodavano volentieri agli esiti delle cose;
vedeva ritenersi Pandolfo Petrucci da favorire come prima le cose sue, né era
bene certo che i pisani per non disubbidire al gran capitano volessino
riceverlo: per le quali cagioni, e perché continuamente si trattava la
ricondotta sua, ma con maggiore speranza perché non ricusava più di stare
contento alle cento lancie, si ritirò al Vignale, terra del signore di
Piombino, dando nome di aspettarne da Napoli l'ultima determinazione. Ma avuto
in questo tempo da' pisani il consentimento di riceverlo in Pisa, partitosi dal
Vignale, dove era stato alloggiato dieci dì, la mattina de' diciassette
d'agosto si scoperse con l'esercito in battaglia alle Caldane, un miglio sotto
a Campiglia, con intenzione di combattere quivi con l'esercito fiorentino, il
quale vi era andato ad alloggiare il dì davanti, ma era accaduto che avendo per
spie venute del campo suo presentito qualche cosa della sua mossa s'era la
notte medesima ritirato alle mura di Campiglia: ove conoscendo l'Alviano non
gli potere assaltare senza disavvantaggio grande, si voltò al cammino di Pisa
per la strada della Torre a San Vincenzio, che è distante da Campiglia cinque
miglia. Da altra parte le genti de' fiorentini, governate da Ercole
Bentivoglio, il quale, come era peritissimo del paese, non desiderava per
l'opportunità del sito altro che di fare la giornata seco in quello luogo, si
dirizzorono per la via che va da Campiglia alla Torre medesima di San
Vincenzio; avendo fatto due parti de' cavalli leggieri, l'una delle quali
seguitava l'esercito dell'Alviano molestandolo continuamente alla coda, l'altra
andava innanzi a incontrare gli inimici per la via medesima, per la quale veniva
dietro l'esercito fiorentino: e questi, arrivati alla Torre innanzi che vi
arrivassino le genti dello Alviano e attaccatisi con quegli che venivano
innanzi, da' quali essendo facilmente ributtati, si andorono ritirando alla
volta dello esercito, che era già presso a mezzo miglio. Ove fatta relazione
che la più parte degli inimici era già passata la Torre, Ercole, camminando
lentamente, si condusse appunto alla coda loro nella rovina di San Vincenzio,
dove avevano fatto testa gli uomini d'arme e i fanti loro, e come fu in sul
piano del passo, investitigli quivi per fianco valorosamente con la metà dello
esercito, poiché ebbe combattuto per buono spazio, gli piegò: nel quale primo
assalto fu in modo rotta la fanteria loro e spinta insino al mare che mai più
rifece testa. Ma la cavalleria che si era ritirata una arcata, passato il fosso
di San Vincenzio verso Bibbona, rifatta testa e ristrettasi, assaltò con grande
impeto le genti de' fiorentini e le ributtò ferocemente insino al fosso: però
Ercole tirò innanzi il resto delle genti, e ridotto quivi da ogni banda tutto
il nervo dello esercito si combatté per grande spazio ferocemente, non
inclinando ancora la vittoria a parte alcuna; sforzandosi l'Alviano, che
facendo officio non manco di soldato che di capitano aveva avuto con uno stocco
due ferite nella faccia, di spuntare da quel passo gl'inimici, il che
succedendogli sarebbe restato vincitore. Ma Ercole, che più dì innanzi aveva
affermato che se la battaglia si conduceva in quel luogo otterrebbe con industria
e senza pericolo la vittoria, fece piantare in su la ripa del fosso della Torre
sei falconetti che conduceva seco; co' quali avendo cominciato a battere gli
inimici, e vedendo che per l'impeto delle artiglierie cominciavano già ad
aprirsi e disordinarsi, intento a questa occasione in su la quale s'aveva
sempre promessa la vittoria, gli investì con grande impeto da più parti con
tutte le forze dello esercito, cioè co' cavalli leggieri per la via della
marina, con le genti d'arme per la strada maestra e con la fanteria dal lato di
sopra per il bosco; col quale impeto senza alcuna difficoltà gli ruppe e messe
in fuga, salvandosi l'Alviano, non senza fatica con pochissimi cavalli
corridori, co' quali fuggì a Monteritondo in quel di Siena: il resto della sua
gente, da San Vincenzio insino in sul fiume della Cecina, quasi tutta fu presa
e svaligiata; perdute tutte le bandiere e salvatisi pochissimi cavalli.
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