XV. Dopo vivi contrasti, a Firenze si delibera di porre il campo a Pisa.
Fallimento dell'impresa per la debolezza delle milizie; i fiorentini levano il
campo da Pisa.
Questo esito
ebbe il movimento di Bartolomeo d'Alviano, stato più negli occhi degli uomini
per le sue lunghe pratiche e per la iattanza delle sue parole piene di ferocia
e di minaccie che per forze o fondamento stabile che avesse la impresa sua. Da
questa vittoria preso animo Ercole Bentivoglio e Antonio Giacomini, commissario
del campo, confortorono con veementi lettere e spessi messi i fiorentini che
l'esercito vincitore si accostasse alle mura di Pisa, fatte prima con più
prestezza fusse possibile le provisioni necessarie per espugnarla; sperando
che, per trovarsi in molte difficoltà ed essere mancata loro la speranza della
venuta dell'Alviano, e come pare che ogni cosa ceda alla riputazione della
vittoria, avesse con non molta difficoltà a ottenersi: nella quale speranza gli
nutriva molto qualche intelligenza che avevano in Pisa con alcuni. Ma in
Firenze, dimandando il magistrato de' dieci, magistrato proposto alle cose
della guerra, consiglio di quello fusse da fare a quegli cittadini co' quali
erano consueti di consultare le faccende importanti, fu dannata unitamente da
tutti questa deliberazione; perché presupponevano che ne' pisani fusse la consueta
durezza, e che essendo esperimentati tanti anni nella guerra non bastasse a
superargli il nome e la reputazione della vittoria avuta contro ad altri, per
la quale non erano in parte alcuna diminuite le forze loro, ma bisognasse
vincergli, come in ogni altro tempo, con le forze, delle quali solamente temono
gli uomini bellicosi: e questo apparire pieno di molte difficoltà. Perché
essendo la città di Pisa circondata, quanto altra città d'Italia, da
solidissime muraglie, e bene riparata e fortificata e difesa da uomini valorosi
e ostinati, non si poteva sperare di sforzarla se non con grosso esercito e con
soldati che non fussino inferiori di virtù e di valore; il quale anche non
sarebbe bastante a vincerla d'assalto o con breve oppugnazione, ma che sarebbe
necessitato di starvi intorno molti dì, per accostarsi sicuramente e col
prendere de' vantaggi, e quasi più presto straccandogli che sforzandogli.
Repugnare a queste cose la stagione dell'anno, perché né si poteva con
prestezza mettere insieme altro che fanteria tumultuaria e collettizia, né
accostarvisi con intenzione di fermarsi molto, per la inclemenza dell'aria
corrotta da' venti del mare, che diventano pestiferi per i vapori degli stagni
e delle paludi, e perniciosa agli eserciti, come era accaduto quando fu
campeggiata da Paolo Vitelli; e perché il paese di Pisa comincia insino di
settembre a essere sottoposto alle pioggie, dalle quali per la bassezza sua è
soprafatto tanto che in quel tempo difficilmente vi si sta intorno. Né in tanta
ostinazione universale potersi fare fondamento in trattati o intelligenze
particolari, perché o riuscirebbono cose simulate o maneggiate da persone che
non arebbono facoltà d'eseguire quello che promettessino. Aggiugnersi che
benché al gran capitano non fusse stata data la fede publica, nondimeno avergli
pure Prospero Colonna, benché come da sé, quasi con tacito consentimento loro,
dato intenzione che per questo anno non si andrebbe con artiglieria alle mura
di Pisa; e però aversi a tenere per certo che, commosso da questo sdegno e per
le promissioni fatte molte volte a' pisani e perché alle cose sue non espediva
questo successo de' fiorentini, si opporrebbe a questa impresa; e avere modo
facile di impedirla, potendo in poche ore mettere in Pisa quegli fanti
spagnuoli che erano in Piombino, come molte volte avea affermato che farebbe
quando si tentasse di espugnarla. Essere più utile usare l'occasione della
vittoria dove, se bene il frutto fusse minore, la facilità senza comparazione
fusse maggiore, né perciò non senza notabile profitto. Nessuno essersi più
opposto e opporsi continuamente a' disegni loro, nessuno avere più impedito la
recuperazione di Pisa, nessuno più procurato di alterare il presente governo,
che Pandolfo Petrucci; egli avere confortato il Valentino a entrare armato nel
dominio fiorentino, egli essere stato principale consultore e guida dello
assalto di Vitellozzo e della rebellione d'Arezzo, essersi mediante i suoi
consigli congiunti con lo stato di Siena i genovesi e i lucchesi a sostentare i
pisani, egli avere indotto Consalvo a pigliare la protezione di Piombino e a
intromettersi di Pisa e a ingerirsi nelle cose di Toscana; e chi altri essere
stato stimolatore e fautore di questo moto dell'Alviano? Doversi voltare
l'esercito contro a lui, predare e scorrere tutto il contado di Siena, dove non
si farebbe resistenza alcuna: potere succedere, con la reputazione dell'armi
loro contro a lui, qualche movimento nella città, dove aveva molti inimici; e
almeno non essere per mancare occasione di occupare qualche castello importante
in quel contado, da tenerlo come per cambio e per pegno di riavere
Montepulciano; e quello che non avevano fatto i benefici potersi sperare che
facesse questo risentimento, di farlo per lo avvenire procedere con maggiore
circospezione all'offese loro. Doversi nel medesimo modo correre poi il paese
de' lucchesi, co' quali essere stato pernicioso usare tanti rispetti. Così
potersi sperare di trarre della vittoria acquistata onore e frutto, ma andando
all'oppugnazione di Pisa non si conoscere altro fine che spesa e disonore. Le
quali ragioni allegate concordemente non raffreddorno però lo ardore che aveva
il popolo (che si governa spesso più con l'appetito che con la ragione) che vi
si andasse a porre il campo; accecato anche da quella opinione inveterata che a
molti de' cittadini principali, per fini ambiziosi, non piacesse la
recuperazione di Pisa. Nella quale sentenza essendo non meno caldo di tutti gli
altri Piero Soderini gonfaloniere, convocato il consiglio grande del popolo, al
quale non solevano referirsi queste deliberazioni, dimandò se pareva loro che
si andasse col campo a Pisa: dove essendo co' voti quasi di tutti risposto che
vi si andasse, superata la prudenza dalla temerità, fu necessario che
l'autorità della parte migliore cedesse alla volontà della parte maggiore. Però
si attese a fare le provisioni con incredibile celerità, desiderando prevenire
non manco il soccorso del gran capitano che i pericoli de' tempi piovosi.
Con la quale
celerità, il sesto dì di settembre, si accostò l'esercito con seicento uomini
d'arme e settemila fanti sedici cannoni e molte altre artiglierie alle mura di
Pisa, ponendosi tra Santa Croce e Santo Michele, nel luogo medesimo dove già si
pose il campo de' franzesi; e avendo la notte seguente piantate
prestissimamente le artiglierie, batterono il prossimo dì con impeto grande
dalla porta di Calci insino al torrone di San Francesco dove le mura fanno
dentro uno angolo: e avendo, da levata di sole, al quale tempo cominciorno a
tirare l'artiglierie, insino a venti una ora rovinate più di trenta braccia di
muraglia, si fece dove era rovinato una grossa scaramuccia, ma con poco
profitto, per non essere tanto spazio di muro in terra quanto sarebbe stato
necessario a una terra dove gli uomini si erano presentati alla difesa col
consueto animo e valore. Però la mattina seguente, per avere più muro aperto,
si cominciò un'altra batteria in luogo poco distante, restando in mezzo
dell'una e dell'altra batteria quella parte della muraglia che già era stata
battuta da' franzesi; e gittato in terra tanto muro quanto parve che fusse
abbastanza, volle Ercole spingere le fanterie, che erano ordinate in battaglia,
a dare gagliardamente lo assalto all'una e l'altra parte del muro rovinato; ove
i pisani, lavorandovi, secondo il solito, con non minore animo le donne che gli
uomini, aveano, mentre si batteva, tirato uno riparo con uno fosso innanzi. Ma
non era nelle fanterie italiane, e raccolte tumultuariamente, tanto animo e
tanta virtù. Però, cominciando per viltà a recusare di appresentarsi alla
muraglia quello colonnello di fanti a' quali, per sorte gittata tra loro,
aspettava il primo assalto, né l'autorità né i prieghi del capitano e del
commissario fiorentino, né il rispetto dell'onore proprio né dell'onore comune
della milizia italiana, furono bastanti a fargli andare innanzi. L'esempio de'
quali seguitando gli altri che avevano ad appresentarsi dopo loro, si
ritirorono le genti agli alloggiamenti: non avendo fatto altro che, col farsi i
fanti italiani infami per tutta Europa, corrotta la felicità della vittoria
ottenuta contro all'Alviano, e annichilata la reputazione del capitano e del
commissario, che appresso a' fiorentini era grandissima, se contenti della
gloria acquistata avessino saputo moderare la prospera fortuna. Ritirati agli
alloggiamenti, non fu dubbia la deliberazione del levare il campo; massime che
il dì medesimo erano entrati in Pisa, per comandamento avuto dal gran capitano,
secento fanti spagnuoli di quegli che erano a Piombino. Però il dì seguente
l'esercito fiorentino si ritirò a Cascina, con grandissimo disonore, e pochi dì
poi entrorno di nuovo in Pisa mille cinquecento fanti spagnuoli; i quali,
poiché non era necessario il presidio loro, dato che ebbono per suggestione de'
pisani uno assalto invano alla terra di Bientina, continuorono la navigazione
sua in Ispagna: dove erano mandati dal gran capitano, perché già era fatta la
pace tra il re di Francia e Ferdinando re di Spagna.
|