XIII. Lamentele del re di Francia co' fiorentini e risposta di questi.
Pratica fra il re di Francia, Ferdinando d'Aragona e i fiorentini riguardo a
Pisa.
Posate che
furono l'armi per la tregua fatta, il re di Francia, parendogli che l'animo de'
fiorentini non fusse stato sincero verso lui, ma più tosto inclinati a Cesare
se alle cose sue si fusse dimostrato principio di prosperi successi, e sapendo
non procedere da altro che dal desiderio di recuperare in qualunque modo Pisa,
e dallo sdegno che egli, non attendendo né alla divozione né alle opere loro,
non solo non gli avesse favoriti né con l'autorità né coll'armi ma tollerato
che da' genovesi sudditi suoi fussino aiutati, deliberò di pensare che con
qualche onesto modo ottenessino il desiderio loro. Ma volendo, secondo i
disegni primi, farlo con utilità propria, e sperando essere migliore mezzo a
tirargli a somma maggiore il timore che la speranza, mandò Michele Riccio a
lamentarsi: che avessino mandato uomini propri per convenire con Cesare suo
inimico; che avendo sotto colore di dare il guasto a' pisani congregato
esercito potente senza avere rispetto alle condizioni de' tempi e de' sospetti
e pericoli suoi, né avendo voluto in sì grave moto che si preparava dichiarare
mai perfettamente l'animo loro, aveano dato a lui causa non mediocre di
dubitare a che fine tendessino queste preparazioni; che a lui che gli aveva
ricercati che con le genti loro gli dessino aiuti in pericoli tanto gravi
avessino dinegato di farlo, fuora d'ogni sua espettazione: e nondimeno, che per
l'amore che avea sempre portato alla loro republica, e per la memoria delle
cose che per il passato aveano fatte in beneficio suo, era parato a rimettere
queste ingiurie nuove, pure che, per rimuovere le cagioni per le quali si
sarebbe potuta turbare la quiete d'Italia, non molestassino più in futuro senza
consentimento suo i pisani. Alle quali querele risposono i fiorentini: la
necessità avergli indotti a mandare a Cesare, non con intenzione di convenire
con lui contro al re ma per cercare di assicurare, in caso passasse in Italia,
le cose proprie, le quali il re, nella capitolazione fatta con loro, non si era
voluto obligare a difendere contro a Cesare, ma v'aveva espressa dentro la
clausula: «salve le ragioni dello imperio»; e nondimeno, non
avere fatta con lui convenzione alcuna: non essere giusta la querela
dell'esercito mandato contro a' pisani, perché essendo stato secondo la
consuetudine loro esercito mediocre, né per altro effetto che per impedire,
come molte altre volte aveano fatto, le ricolte, non avere avuto alcuno causa
ragionevole di sospettarne: questa cagione, insieme con gli aiuti dati da'
genovesi e dagli altri vicini a' pisani, non avere permesso che al re
mandassino le genti loro; alla quale cosa se bene non erano obligati, nondimeno
che per la continua divozione loro al nome suo non arebbono pretermesso, quando
bene non ne fussino stati ricercati, questo officio: maravigliarsi sopra modo
che 'l re desiderasse non fussino molestati i pisani, i quali a comparazione
de' fiorentini non aveva causa di stimare e di amare, se si ricordava quel che
avessino operato contro a lui nella ribellione de' genovesi: né potere il re
con giustizia proibire che non molestassino i pisani, perché così era espresso
nella confederazione che aveano fatta con lui. Da questi princìpi si cominciò a
trattare che Pisa ritornasse sotto il dominio de' fiorentini, alla quale cosa
pareva dovesse bastare il provedere che i genovesi e lucchesi non dessino aiuto
a' pisani, ridotti in tale estremità di vettovaglie e di forze che non ardivano
uscire più della città; aggiugnendosi massime, per la perdita delle ricolte, la
mala disposizione de' contadini, i quali erano maggiore numero che i cittadini:
[in modo] che si credeva non si potessino più sostentare se da' genovesi e
lucchesi non avessino ricevuto qualche sussidio di danari, co' quali quegli che
reggevano, tenendo in Pisa alcuni soldati e forestieri, e gli altri
distribuendo nella gioventù de' cittadini e de' contadini, e con l'armi di
questi spaventando coloro che desideravano concordarsi co' fiorentini, non
avessino tenuta quieta la città.
A questa
pratica, cominciata dal re cristianissimo, si aggiunse l'autorità del re
cattolico, geloso che senza lui non si conducesse a effetto: però, subito che
ebbe intesa l'andata di Michele Riccio a Firenze, vi mandò uno imbasciadore, il
quale, entrato prima in Pisa, gli confortò e dette loro animo in nome del suo
re a sostenersi; non per altro se non perché, stando più ostinati a non cedere
a' fiorentini, potessino essere venduti con maggiore prezzo. Trasferironsi poco
dipoi questi ragionamenti, per volontà de' due re, nella corte del re di
Francia ove, senza rispetto della protezione tanto affermata, la sollecitava
molto il re cattolico, conoscendo che non essendo difesa era necessario cadesse
in potestà de' fiorentini, e avendo l'animo alieno allora da implicarsi in cose
nuove, e specialmente contro alla volontà del re di Francia: perché se bene,
subito che ritornò in Spagna, avesse riassunto il governo di Castiglia non
l'aveva però totalmente stabilito, e per le volontà diverse de' signori e
perché il re de' romani non v'aveva, in nome del nipote, prestato il
consentimento.
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