XIV. I veneziani per la minacciata espugnazione di Vicenza ritirano parte
delle milizie dal ferrarese. Rotta dell'armata veneziana sul Po.
Non erano, come
è detto di sopra, state moleste al re di Francia le difficoltà che aveva
Massimiliano, parte per il timore che ebbe sempre delle prosperità sue parte
perché, ardendo di desiderio di insignorirsi della città di Verona, sperava che
per le sue necessità glien'avesse finalmente a concedere, o in vendita o in
pegno; ma da altra parte gli dispiaceva che la grandezza de' viniziani
risorgesse, dalla quale sarebbe risultato molestia e pericolo continuo alle
cose sue: però, essendo per la penuria de' danari molto deboli le provisioni di
Cesare in Verona, fu necessitato il re a procurare, con altro aiuto che con
quello delle genti d'arme che vi erano entrate, che quella città non ritornasse
in potestà loro. Alla qual cosa dette principio Ciamonte, venuto dopo la
perdita di Vicenza a' confini del veronese; perché, cominciando a tumultuare
per mancamento de' pagamenti dumila fanti spagnuoli che erano in Verona, ve gli
fermò agli stipendi del re di Francia, e vi mandò per maggiore sicurtà altri fanti;
seguitato in questo il consiglio del Triulzio, che dubitando Ciamonte che al re
non fusse molesta questa spesa gli rispose essere minore male che il re lo
imputasse di avere speso danari che d'avere perduto o messo in pericolo il suo
stato. Prestò oltre a questo a Cesare, per pagare i soldati che erano in
Verona, ottomila ducati, ma ricevendo, per pegno della restituzione di questi e
degli altri che per beneficio suo vi spendesse in futuro, la terra di Valeggio;
la quale terra, per essere uno de' passi del fiume del Mincio (anzi chi
possiede quella e Peschiera domina il Mincio) e propinqua a Brescia a sei
miglia, era per sicurtà di Brescia molto stimata dal re. La venuta di Ciamonte
seguitato dalla maggiore parte delle lancie che alloggiavano nel ducato di
Milano, il mettere genti in Verona, e il divulgarsi che si preparava per andare
all'espugnazione di Vicenza, furono cagione che l'esercito de' viniziani,
lasciati per difesa del Pulesine e per sussidio dell'armata quattrocento
cavalli leggieri e quattrocento fanti, si partì del ferrarese e si divise tra
Lignago, Soave e Vicenza, e che i viniziani, desiderando assicurarsi che
Vicenza e il paese circostante non fusse molestato dalle genti che erano in
Verona, lo fortificorno con una fossa di opera memorabile, larga e piena di
acqua, intorniata da uno riparo in sul quale erano distribuiti molti bastioni;
la quale, cominciando dalle radici della montagna sopra a Suave e distendendosi
per spazio di cinque miglia, si distendeva per il piano dalla parte che da Lonigo
si va a Monforte, terminando in certi paludi contigui al fiume dello Adice: e
fortificato Soave e Lonigo, avevano, mentre la si guardava, assicurato, massime
la vernata, tutto il paese.
Alleggerissi
per la partita delle genti viniziane, ma non si levò però in tutto, il pericolo
di Ferrara: perché se bene fusse cessato il timore dello essere sforzata non
era cessato il sospetto che, per i danni gravissimi, o non si estenuasse troppo
o non si riducesse il popolo a ultima disperazione; perché le genti dell'armata
e quelle che l'accompagnavano correvano ogni dì insino in sulle porte della
città, e altri legni de' viniziani, assaltato da altra parte lo stato del duca
di Ferrara, avevano preso Comacchio. Sopragiunsono in questo tempo le genti del
pontefice e del re di Francia; e perciò il duca, il quale prima ammunito dal
danno ricevuto nell'assalto del bastione avea fermate le genti sue in
alloggiamento forte appresso a Ferrara, cominciò a fare spesse cavalcate e
scorrerie per condurre gli inimici a combattere: i quali, sperando che
l'esercito ritornasse, recusavano prima di combattere. E accadde che essendo
cavalcato un giorno insino appresso al bastione il cardinale da Esti, nel
ritornarsene, un colpo d'artiglieria scaricata da uno de' legni degli inimici
levò il capo al conte Lodovico della Mirandola, uno de' condottieri della
Chiesa; non avendo, tra tanta moltitudine, né quello né altro colpo offeso
alcuno. Finalmente, la perizia del paese e della natura e opportunità del fiume
fece facile quel che da principio era paruto pericoloso e difficile. Perché,
sperando il duca e il cardinale di rompere coll'artiglierie l'armata, pure che
avessino facoltà di poterle sicuramente distendere in sulla ripa del fiume,
ritornò il cardinale con parte delle genti ad assaltare il bastione; e avendo,
con uccisione di alcuni di loro, rimessi gli inimici che erano usciti a
scaramucciare, occupò e fortificò la parte prossima dell'argine, in modo che
senza che gli inimici lo sapessino condusse al principio della notte
l'artiglierie in sulla ripa opposita all'armata; e distesele con silenzio
grande, cominciò con terribile impeto a percuoterla: e benché tutti i legni si
movessino per fuggire, nondimeno essendo distese per lungo spazio molte e
grossissime artiglierie, le quali maneggiate da uomini periti tiravano molto da
lontano, mutavano più tosto il luogo del pericolo che fuggissino il pericolo;
essendo sopravenuto ed esercitandosi maravigliosamente la persona del duca,
peritissimo e nel fabbricare e nell'usare l'artiglierie. Per i quali colpi
tutti i legni inimici, con tutto che essi similmente non cessassino di tirare
(ma invano, perché quegli che erano in sulla ripa erano coperti dall'argine),
con vari e spaventosi casi si consumavano: alcuni de' quali non potendo più
reggere a' colpi si arrendevano; alcuni altri, appresovi il fuoco per i colpi
dell'artiglierie, miserabilmente ardevano con gli uomini che vi erano dentro;
altri, per non venire in mano degli inimici, messe insieme molte navi e
gittandovi fuoco, si precipitavano da se medesimi in quella crudeltà che da
altri temevano. Il capitano dell'armata, montato quasi al principio
dell'assalto in su una scafa, fuggendo si salvò; la sua galea, fuggita per
spazio di tre miglia, al continuo tirando e difendendo e provedendo alle
percosse riceveva, all'ultimo tutta forata andò nel fondo. Finalmente, essendo
pieno ogni cosa di sangue di fuoco e di morti, vennono in potestà del duca
quindici galee, alcune navi grosse, fuste, barbotte e altri legni minori, quasi
senza numero; morti circa dumila uomini o dall'artiglierie o dal fuoco o dal
fiume, prese sessanta bandiere, ma non lo stendardo principale che si salvò col
capitano; molti fuggiti in terra, de' quali parte raccolti da' cavalli leggieri
de' viniziani si salvorono, parte seguitati dagli inimici furno presi, parte
riceverono nel fuggirsi vari danni da' paesani. Furono i legni presi condotti a
Ferrara, ove per memoria della vittoria acquistata si conservorno molti anni;
insino a tanto che Alfonso desideroso di gratificare al senato viniziano li
concedé loro. Rotta l'armata, mandò subito Alfonso trecento cavalli e
cinquecento fanti per rompere l'altra armata che aveva preso Comacchio; i
quali, avendo recuperato Loreto fortificato da i viniziani, si crede che arebbono
rotta l'armata se quella, conosciuto il pericolo, non si fusse ritirata alle
Bebie. Questo fine ebbe in spazio di uno mese l'assalto di Ferrara; nel quale
lo evento, che spesso è giudice non imperito delle cose, manifestò quanto fusse
più prudente il consiglio de' pochi che confortavano che, lasciate l'altre
imprese e riservati a maggiore opportunità i danari, si attendesse solamente
alla conservazione di Padova e di Trevigi e dell'altre cose ricuperate, che di
quegli che più di numero ma inferiori di prudenza, concitati dall'odio e dallo
sdegno, erano facili a implicarsi in tante imprese: le quali, cominciate
temerariamente, partorirono alla fine spese gravissime, con non mediocre
ignominia e danno della republica.
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