XII. Il pontefice sempre più indignato contro il re di Francia; milizie
veneziane in suo aiuto. Terre occupate da' pontifici. Il pontefice fa decidere
l'impresa contro Ferrara e la Mirandola. Massimiliano e il re di Francia
deliberano di accertarsi delle intenzioni del re d'Aragona; risposta di
Ferdinando. Nuova convenzione fra Massimiliano e il re di Francia. L'esercito
pontificio, presa Concordia, si reca alla Mirandola. Congiura contro Pier
Soderini in Firenze.
Partito
Ciamonte, il pontefice, infiammato sopra modo contro al re, si lamentò con
tutti i prìncipi cristiani che il re di Francia, usando ingiustamente e contro
alla verità de' fatti il titolo e il nome di cristianissimo, sprezzando ancora
la confederazione con tante solennità fatta a Cambrai, mosso da ambizione di
occupare Italia, da sete scelerata del sangue del pontefice romano, aveva
mandato lo esercito ad assediarlo con tutto il collegio de' cardinali e con
tutti i prelati in Bologna; e ritornando con animo molto maggiore a' pensieri
della guerra negò agli imbasciadori, i quali, seguitando i ragionamenti
cominciati con Ciamonte, gli parlavano della concordia, volere udire più cosa
alcuna se prima non gli era data Ferrara: e con tutto che, per le fatiche
sopportate in tanto accidente e col corpo e coll'animo, fusse molto aggravata
la sua infermità, cominciò di nuovo a soldare gente e a stimolare i viniziani,
che finalmente avevano gittato il ponte tra Ficheruolo e la Stellata, che
mandassino sotto il marchese di Mantova parte delle loro genti a Modena a
unirsi con le sue, e con l'altra parte molestassino Ferrara; affermando che in
pochissimi dì acquisterebbe Reggio, Rubiera e Ferrara. Tardorono le genti
viniziane a passare il fiume, per il pericolo nel quale sarebbeno incorsi se
(come si dubitava) fusse sopravenuta la morte del pontefice; ma costretti
finalmente cedere alle sue voglie, lasciate l'altre genti in su le rive di là
dal Po, mandorono verso Modona cinquecento uomini d'arme mille seicento cavalli
leggieri e cinquemila fanti, ma senza il marchese di Mantova. Il quale,
fermatosi a Sermidi a soldare cavalli e fanti, per andare, come diceva, dipoi
all'esercito, benché sospetta già a' viniziani la sua tardità, si condusse a
San Felice castello del Modonese: dove avuto avviso che i franzesi che erano in
Verona erano entrati a predare nel contado di Mantova, allegando la necessità
di difendere lo stato suo, se ne tornò con licenza del pontefice a Mantova; ma
con querela grave de' viniziani, perché, ancora che avesse promesso di
ritornare presto, insospettiti della sua fede, credevano, come similmente fu
creduto quasi per tutta Italia, che Ciamonte, per dargli scusa di non andare
all'esercito, avesse con suo consentimento fatto correre i soldati franzesi nel
mantovano. La quale suspizione si accrebbe, perché da Mantova scrisse al
pontefice essere, per infermità sopravenutagli, impedito a partirsi.
Unite che furno
intorno a Modena le genti del pontefice le viniziane e le lancie spagnuole, non
si dubita che, se senza indugio si fussino mosse, che Ciamonte, il quale,
quando si partì del bolognese, aveva per diminuire la spesa licenziati i fanti
italiani, arebbe abbandonata la città di Reggio, ritenendosi la cittadella; ma
ripreso animo per la tardità del muoversi, cominciò di nuovo a soldare fanti,
con deliberazione di attendere solamente a guardare Sassuolo, Rubiera, Reggio e
Parma. Ma mentre che quello esercito soggiorna intorno a Modena, incerto ancora
se avesse a andare innanzi o volgersi a Ferrara, correndo alcune squadre di
quelle della Chiesa verso Reggio, messe in fuga da' franzesi, perderono cento
cavalli e fu fatto prigione il conte di Matelica. Nel qual tempo, essendo il
duca di Ferrara e con lui Ciattiglione, con le genti franzesi, alloggiati in
sul fiume del Po tra lo Spedaletto e il Bondino, opposito alle genti de'
viniziani che erano di là dal Po, l'armata loro, volendo, per l'asprezza del
tempo e per essere male proveduta da Vinegia, ritirarsi, assaltata da molte
barche di Ferrara che con l'artiglieria messono in fondo otto legni, si
condusse con difficoltà a Castelnuovo del Po, nella fossa che va nel Tartaro e
nello Adice; dove come fu condotta si disperse. Comandò poi il pontefice che
l'esercito il quale, non vi essendo venuto il marchese di Mantova, governava
Fabrizio Colonna, lasciato a guardia di Modona il duca di Urbino, andasse a
dirittura a Ferrara; dando a' capitani, che unitamente dannavano questo
consiglio, speranza quasi certa che il popolo tumultuerebbe. Ma il dì medesimo
che si erano mossi ritornorono indietro per suo comandamento, non si sapendo
quel che l'avesse indotto a sì subita mutazione; e lasciati i primi disegni,
andorono a campo alla terra di Sassuolo, ove Ciamonte avea mandati cinquecento
fanti guasconi: la quale avendo battuto due dì, con giubilo grande del
pontefice, che sentiva della camera medesima il tuono delle artiglierie sue
intorno a Sassuolo della quale aveva, pochi dì innanzi, sentito con gravissimo
dispiacere il tuono di quelle degli inimici intorno a Spilimberto, gli dettono
l'assalto, il quale con piccolissima difficoltà succedette felicemente, perché
si disordinorono i fanti che vi erano dentro; e appresentate poi subito
l'artiglierie alla fortezza dove si erano ritirati, e cominciata a batterla, si
arrenderono quasi subito senza alcuno patto: con la medesima infamia e
infelicità di Giovanni da Casale (che era loro capitano) che avea sentita
quando il Valentino occupò la rocca di Furlì; uomo di vilissima nazione, ma
pervenuto a qualche grado onorato perché nel fiore della età era stato grato a
Lodovico Sforza, e poi famoso per l'amore noto di quella madonna. Espugnato
Sassuolo, prese l'esercito Formigine; e volendo il pontefice che andassino a
pigliare Montecchio, terra forte e importante situata tra la strada maestra e
la montagna in sui confini di Parma e di Reggio, e che era tenuta dal duca di
Ferrara ma parte del territorio di Parma, recusò Fabrizio Colonna, dicendo
essergli proibito dal suo re il molestare le giurisdizioni dello imperio. Non
provedeva a questi disordini Ciamonte; il quale, lasciato in Reggio Obignì con
cinquecento lancie e con dumila fanti guasconi sotto il capitano Molard, si era
fermato a Parma, avendo ricevute nuove commissioni dal re di astenersi dalle
spese. Perché il re, perseverando nel proposito di temporeggiarsi insino alla
primavera, non faceva allora per le cose di qua da' monti provedimento alcuno.
Onde declinando in Italia la sua riputazione e diventandone maggiore l'animo
degl'inimici, il pontefice, impaziente che le sue genti non procedessino più
oltre né ammettendo le scuse che della stagione del tempo e dell'altre
difficoltà gli facevano i suoi capitani, chiamatigli tutti a Bologna, propose
si andasse a campo a Ferrara: approvando il parere suo solamente gli
imbasciadori viniziani, o per non lo sdegnare contradicendogli o perché i
soldati loro ritornassino più vicini a' suoi confini; dannandolo tutti gli
altri, ma invano, perché non consultava più ma comandava. Fu adunque deliberato
che si andasse col campo a Ferrara, ma con aggiunta che per impedire a'
franzesi il soccorrerla si tentasse, in caso non apparisse molto difficile, la
Mirandola: la quale terra, insieme con la Concordia, signoreggiata da'
figliuoli del conte Lodovico Pico, [e da Francesca,] madre e nutrice loro,
conservava sotto la divozione del re di Francia; seguitando l'autorità di
Gianiacopo da Triulzi suo padre naturale, per cui opera i piccoli figliuoli
n'aveano da Cesare ottenuta la investitura. Aveva il pontefice molto prima
ricevutigli, come appariva per uno breve, nella sua protezione, ma si scusava
che le condizioni de' tempi presenti lo costrignevano a procurare che quelle
terre non fussino tenute da persone sospette a sé; offerendo, se
volontariamente gli erano concedute, di restituirle come prima avesse
acquistato Ferrara. Fu dubitato insino allora (la quale dubitazione si ampliò
poi molto più) che il cardinale di Pavia, sospetto già d'avere occulto
intendimento col re di Francia, fusse stato artificiosamente autore di questo
consiglio, per interrompere con la impresa della Mirandola l'andare a campo a
Ferrara; la quale città non era allora molto fortificata né aveva presidio
molto grande, e i soldati franzesi stracchi col corpo e con l'animo dalle
fatiche, il duca impotente e il re alieno dal farvi maggiori provedimenti.
Ma mentre che
il pontefice attendeva con tanto ardore all'espedizione della guerra, il re di
Francia, intento più alle pratiche che all'armi, continuava di trattare col
vescovo di Gursia le cose cominciate: le quali, dimostratesi al principio molto
facili, procedetteno in maggiore lunghezza per la tardità delle risposte di
Cesare e perché, dubitando del re di Aragona (il quale, oltre all'altre azioni,
aveva di nuovo, sotto colore che verso Otranto si fusse scoperta l'armata de'
turchi, rivocato nel regno di Napoli le genti sue che erano a Verona),
giudicorno Cesare e il re di Francia necessario di accertarsi della mente sua,
così circa la continuazione nella lega di Cambrai come in quello che si avesse
a fare col pontefice, perseverando egli nella congiunzione co' viniziani e
nella cupidità di acquistare immediatamente alla Chiesa il dominio di Ferrara.
Alle quali dimande rispose dopo spazio di qualche dì il re cattolico, pigliando
in uno tempo medesimo occasione di purgare molte querele che da Cesare e dal re
di Francia si facevano di lui: avere conceduto le trecento lancie al pontefice
per l'obligazione della investitura, e a effetto solamente di difendere lo
stato della Chiesa e recuperare le cose che erano antico feudo di quella; avere
revocato le genti d'arme da Verona perché era passato il termine per il quale
le aveva promesse a Cesare, e nondimeno che non l'arebbe revocate se non fusse
stato il sospetto de' turchi; essersi interposto l'oratore suo a Bologna con
Ciamonte insieme con gli altri oratori allo accordo non per dare tempo a'
soccorsi del pontefice ma per rimuovere tanto incendio della cristianità,
sapendo massimamente essere al re molestissima la guerra con la Chiesa; essere
stato sempre nel medesimo proposito di adempiere quel che era stato promesso a
Cambrai, e volerlo fare in futuro molto più, aiutando Cesare con cinquecento
lancie e dumila fanti contro a' viniziani: non essere già sua intenzione di
legarsi a nuove obligazioni né ristrignersi a capitolazioni nuove, perché non
ne vedeva alcuna urgente cagione e perché, desideroso di conservarsi libero per
potere fare la guerra contro agli infedeli d'Affrica, non voleva accrescere i
pericoli e gli affanni della cristianità che aveva bisogno di riposo: piacergli
il concilio e la riformazione della Chiesa quando fusse universale e che i
tempi non repugnassino, e di questa sua disposizione niuno essere migliore
testimonio del re di Francia, per quello che insieme ne avevano ragionato a
Savona; ma i tempi essere molto contrari, perché il fondamento de' concili era
la pace e la concordia tra i cristiani, non potendosi senza l'unione delle
volontà convenire cosa alcuna in beneficio comune, né essere degno di laude
cominciare il concilio in tempo e in maniera che e' paresse cominciarsi più per
sdegno e per vendetta che per zelo o dell'onore di Dio o dello stato salutifero
della republica cristiana. Diceva oltre a questo separatamente agli oratori di
Cesare, parergli grave aiutarlo a conservare le terre perché dipoi per danari
le concedesse al re di Francia, significando espressamente di Verona. Intesa
adunque per questa risposta la intenzione del re cattolico, non tardorno più, Gurgense
da una parte in nome di Cesare e il re di Francia dall'altra, di fare nuova
confederazione; riserbata facoltà al pontefice di entrarvi infra due mesi
prossimi, e al re cattolico e al re d'Ungheria infra quattro. Obligossi il re
di pagare a Cesare (fondamento necessario alle convenzioni che si facevano con
lui), parte di presente parte in tempi, centomila ducati: promesse Cesare di
passare alla primavera in Italia con tremila cavalli e diecimila fanti contro
a' viniziani; nel quale caso il re fusse obligato a spese proprie mandargli
mille dugento lancie e ottomila fanti con provedimento sufficiente
d'artiglierie, e per mare due galee sottili e quattro bastarde: osservassino la
lega fatta a Cambrai, e ricercassino in nome comune alla osservanza del medesimo
il pontefice e il re cattolico; e se il pontefice facesse difficoltà per le
cose di Ferrara fusse il re tenuto a stare contento a quello che fusse
consentaneo alla ragione, ma in caso denegasse la richiesta loro si proseguisse
il concilio; per il quale Cesare dovesse congregare i prelati di Germania, come
aveva il re di Francia fatto de' prelati suoi, per procedere più innanzi
secondo che fusse poi deliberato da loro. Non si trattò in questa convenzione
de' danari prestati dal re a Cesare né dell'obligazione acquistata sopra
Verona, ma si credeva il re avesse rimosso l'animo dallo appropriarsela,
sapendo quanto Cesare fusse desideroso di ritenersela. Publicate le
convenzioni, Gurgense, molto onorato e ricevuti grandissimi doni, se ne ritornò
al suo principe; e il re, col quale nuovamente i cinque cardinali che
procuravano il concilio avevano convenuto che né egli senza consenso loro né
essi senza consenso suo concorderebbeno col pontefice, dimostrandosi con le
parole molto acceso a passare personalmente in Italia con tale potenza che per
molto tempo assicurasse le cose sue, le quali perché prima non cadessino in
maggiore declinazione, commesse a Ciamonte che non lasciasse perire il duca di
Ferrara. Il quale aggiunse ottocento fanti tedeschi alle dugento lancie che
prima vi erano con Ciattiglione.
Da altra parte
l'esercito del pontefice, poiché furono fatte benché lentamente le provisioni
necessarie, lasciato alla guardia di Modona Marcantonio Colonna con cento
uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e dumila cinquecento fanti, andò a
campo alla Concordia; la quale presa per forza, il medesimo dì che vi furono
piantate l'artiglierie, e poi ottenuta a patti la fortezza, si accostò alla
Mirandola. Approssimavasi già la fine del mese di dicembre e, per sorte, la
stagione di quello anno era molto più aspra che ordinariamente non suole
essere: per il che e per essere la terra forte, e perché si credeva che i
franzesi non dovessino lasciare perdere uno luogo tanto opportuno, i capitani
principalmente diffidavano di ottenerla; e nondimeno tanto certamente si
prometteva il pontefice la vittoria di tutta la guerra che mandando, per la
discordia che era tra 'l duca di Urbino e il cardinale di Pavia, legato nuovo
nell'esercito il cardinale di Sinigaglia gli commesse, in presenza di molti,
che sopra tutto procurasse che, quando l'esercito entrava in Ferrara, si
conservasse quanto si poteva quella città. Cominciorno a tirare contro alla
Mirandola l'artiglierie il quarto dì poi che l'esercito si fu accostato; ma
patendo molti sinistri e incomodità de' tempi e delle vettovaglie, le quali
venivano al campo scarsamente del modenese, perché essendo state messe in
Guastalla cinquanta lancie de' franzesi, altrettante in Coreggio, e in Carpi
dugento cinquanta, e avendo rotto per tutto i ponti e occupati i passi donde
potevano venire del mantovano, facevano impossibile il condurle per altra via.
Ma s'allargò prestamente alquanto questa strettezza, perché quegli che erano in
Carpi, essendo pervenuto falso romore che l'esercito inimico andava per
assaltargli, spaventati perché non vi avevano artiglierie, se ne partirono.
Ebbe nella fine
di questo anno qualche infamia la persona del pontefice, come se fusse stato
conscio e fautore che, per mezzo del cardinale de' Medici, si trattasse, con
Marcantonio Colonna e alcuni giovani fiorentini, che fusse ammazzato in Firenze
Piero Soderini gonfaloniere; per opera del quale si diceva i fiorentini
seguitare le parti franzesi: perché, avendo il pontefice procurato con molte
persuasioni di congiugnersi quella republica, non gli era mai potuto succedere;
anzi non molto prima avevano, a richiesta del re di Francia, disdetta la tregua
a' sanesi, con molestia grandissima del pontefice, benché avessino recusato non
muovere l'armi se non dopo i sei mesi della disdetta, come il re desiderava per
mettere in sospetto il pontefice; e oltre a questo aveano mandato al re dugento
uomini d'arme perché stessino a guardia del ducato di Milano, cosa dimandata
dal re per virtù della loro confederazione, non tanto per l'importanza di tale
aiuto quanto per desiderio di inimicargli col pontefice.
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