XV. Massimiliano per consiglio del re d'Aragona si fa propugnatore di pace.
Timori e sospetti del re di Francia verso Ferdinando. Il re di Francia manda il
cardinale di Parigi a Mantova per le eventuali trattative. Fazioni di guerra
vicino al Po e nel mirandolese. L'ambasciatore di Massimiliano, per invito del
pontefice, si reca presso di lui a Bologna.
Variavano in questo
modo le cose dell'armi, non si vedendo ancora indizio da potere fondatamente
giudicare quale dovesse essere l'esito della guerra. Ma non meno né con minore
incertitudine variavano i pensieri de' prìncipi, principalmente di Cesare; il
quale inaspettatamente deliberò di mandare il vescovo Gurgense a Mantova a
trattare la pace. Erasi, come è detto di sopra, stabilito per mezzo del vescovo
prefato tra 'l re di Francia e Cesare di muovere potentemente alla primavera la
guerra contro a' viniziani e che in caso che 'l pontefice non consentisse
d'osservare la lega di Cambrai, di convocare il concilio: al quale Cesare molto
inclinato, aveva dopo il ritorno di Gurgense chiamato i prelati degli stati
suoi patrimoniali, perché trattassino in quali modi e in qual luogo si dovesse
celebrare. Ma, come naturalmente era vario e incostante e inimico del nome
franzese, avea dipoi prestato l'orecchie al re d'Aragona; il quale,
considerando che l'unione di Cesare e del re, e la depressione con l'armi
comuni de' viniziani, medesimamente la ruina del pontefice per mezzo del
concilio, accrescerebbeno immoderatamente la grandezza del re di Francia, si
era ingegnato persuadergli essere più a proposito suo la pace universale, pure
che con quella conseguisse o in tutto o in maggiore parte quello che gli
occupavano i viniziani; confortandolo che a questo effetto mandasse a Mantova
una persona notabile con ampia autorità e che operasse che il re di Francia
facesse il medesimo, e che egli simigliantemente vi manderebbe; onde il pontefice
non potrebbe dinegare di fare il simile, né finalmente deviare dalla volontà di
tanti prìncipi; dalla cui deliberazione dependendo la deliberazione de'
viniziani (perché per non rimanere soli erano necessitati seguitare la sua
autorità), potersi verisimilmente sperare che Cesare, senza difficoltà senza
armi senza accrescere la riputazione o la potenza del re di Francia, otterrebbe
con somma laude insieme con la pace universale lo intento suo. E quando pure
non ne succedesse quel che ragionevolmente ne doveva succedere, non per questo
rimanere privato della facoltà di muovere, al tempo determinato e
coll'opportunità medesime, la guerra: anzi, essendo egli il capo di tutti i
prìncipi cristiani e avvocato della Chiesa, augumentarsi molto le
giustificazioni ed esaltarsi assai da questo consiglio la gloria sua; perché a
tutto il mondo manifestamente apparirebbe avere principalmente desiderato la
pace e l'unione de' cristiani, ma averlo costretto alla guerra l'ostinazione e
perversi consigli degli altri. Furno capaci a Cesare le ragioni addotte dal re
cattolico, e perciò nel tempo medesimo scrisse al pontefice e al re di Francia.
Al pontefice, avere deliberato di mandare il vescovo Gurgense in Italia,
perché, come conveniva a principe religioso, e per la degnità imperiale
avvocato della Chiesa e capo di tutti i prìncipi cristiani, aveva statuito
procurare quanto potesse la tranquillità della sedia apostolica e la pace della
cristianità; e confortare lui che, come apparteneva a vicario vero di Cristo,
procedesse con la medesima intenzione, acciò che, non facendo quel che era
ufficio del pontefice, non fusse costretto egli a pensare a' rimedi necessari
per la quiete de' cristiani. Non approvare che e' trattasse di privare i
cardinali assenti della degnità del cardinalato, perché non si essendo
assentati per maligni pensieri né per odio contro a lui non meritavano tale
pena; né appartenere al papa solo la privazione de' cardinali. Ricordargli
oltre a questo, essere cosa molto indegna e inutile creare in tante turbazioni
cardinali nuovi, come similmente gli era proibito per i capitoli fatti da'
cardinali nel tempo della sua elezione al pontificato; esortandolo a riservare
tal cosa a tempo più tranquillo, nel quale non arebbe o necessità o cagione di
promuovere a tanta degnità se non persone approvatissime per prudenza per
dottrina e per costumi. Al re di Francia scrisse che, sapendo la inclinazione
che sempre avea avuta alla pace onesta e sicura, avea deliberato di mandare a
Mantova il vescovo Gurgense a trattare la pace universale, alla quale credeva
con fondamenti non leggieri che il pontefice, l'autorità del quale erano
costretti a seguitare i viniziani, fusse inclinato; il medesimo prometterebbono
gli oratori del re d'Aragona; e che perciò lo ricercava che egli similmente vi
mandasse imbasciadori con ampio mandato: i quali come fussino congregati,
Gurgense richiederebbe il pontefice che facesse il medesimo, e in caso lo
denegasse se gli denunzierebbe in nome di tutti il concilio: mandando che per
procedere con maggiore giustificazione e porre fine alle controversie di tutti,
Gurgense udirebbe le ragioni di tutti; ma che, in qualunque caso, tenesse per
certo che giammai co' viniziani non farebbe concordia alcuna se nel tempo
medesimo non si terminassino col pontefice le differenze sue.
Fu grata questa
cosa al pontefice, non a fine di pace o di concordia ma perché, persuadendosi
potere disporre il senato viniziano a comporsi con Cesare, sperava che Cesare
liberato per questo mezzo dalla necessità di stare unito col re di Francia si
separerebbe da lui; onde agevolmente potrebbe contro al re nascere congiunzione
di molti prìncipi. Ma questa improvisa deliberazione fu molestissima al re di
Francia; perché, non avendo speranza che ne avesse a risultare la pace
universale, giudicava che il minore male che ne potesse succedere sarebbe
interporre lunghezza all'esecuzione delle cose convenute da sé con Cesare.
Temeva che il pontefice, promettendo a Cesare di aiutarlo acquistare il ducato
di Milano e a Gurgense la degnità del cardinalato e altre grazie
ecclesiastiche, non l'alienasse da lui; o almeno, essendo mezzo che la
composizione co' viniziani non fusse più favorevole a Cesare, mettesse lui in
necessità d'accettare la pace con inonestissime condizioni. Accrescevagli il
sospetto l'essersi Cesare confederato di nuovo co' svizzeri, benché solamente a
difesa. Persuadevasi, il re cattolico essere stato autore a Cesare di questo
nuovo consiglio; della cui mente sospettava grandemente per molte cagioni.
Sapeva che l'oratore suo appresso a Cesare si era affaticato e affaticava
scopertamente per la concordia tra Cesare e i viniziani: credeva che
occultamente desse animo al pontefice, nell'esercito del quale erano state le
genti sue molto più tempo che quello che per i patti della investitura del
regno di Napoli era tenuto: sapeva che, per impedire l'azioni sue, si opponeva
efficacemente alla convocazione del concilio; e sotto specie d'onestà dannava
palesemente che, ardendo Italia di guerre, e con la mano armata, si trattasse
di fare una opera che senza la concordia di tutti i prìncipi non poteva
partorire altro che frutti velenosissimi: aveva notizia prepararsi da lui
nuovamente in mare una armata molto potente, e con tutto che publicasse di
volere passare in Affrica personalmente non si poteva però sapere se ad altri
fini si preparava. Facevanlo molto più sospettare le dolcissime parole sue
colle quali pregava quasi fraternalmente il re che facesse la pace col
pontefice, rimettendo eziandio, quando altrimenti fare non si potesse, delle
sue ragioni, per non si dimostrare persecutore della Chiesa, contro all'antica
pietà della casa di Francia, e per non interrompere a lui la guerra destinata
per esaltazione del nome di Cristo contro a' mori di Affrica, turbando in uno
tempo medesimo tutta la cristianità; soggiugnendo essere stata sempre
consuetudine de' prìncipi cristiani, quando preparavano l'armi contro agli
infedeli, domandare in causa tanto pia sussidio dagli altri, ma a lui bastare
non essere impedito, né ricercarlo d'altro aiuto se non che consentisse che
Italia stesse in pace. Le quali parole, benché porte al re dall'oratore suo e
da lui proprio dette all'oratore del re risedente appresso a lui, molto
destramente e con significazione grande di amore, pareva perciò che contenessino
uno tacito protesto di pigliare l'armi in favore del pontefice: il che al re
non pareva verisimile che ardisse di fare senza speranza di indurre Cesare al
medesimo.
Angustiavano
queste cose non mediocremente l'animo del re, e l'empievano di sospetto che il
trattare la pace per mezzo del vescovo Gurgense sarebbe opera o vana o
perniciosa a sé; nondimeno, per non dare causa di indegnazione a Cesare, si
risolvé a mandare a Mantova il vescovo di Parigi, prelato di grande autorità e dotto
nella scienza delle leggi. In questo tempo medesimo significò il re a
Gianiacopo da Triulzi, il quale fermatosi a Sermidi avea, per maggiore comodità
dell'alloggiare e delle vettovaglie, distribuito in più terre circostanti
l'esercito, essere la volontà sua che da lui fusse amministrata la guerra; con
limitazione che, per l'espettazione della venuta di Gurgense, non assaltasse lo
stato ecclesiastico: alla qual cosa repugnando anche l'asprezza inusitata del
tempo, per la quale, con tutto che fusse cominciato il mese di marzo, era
impossibile alloggiare allo scoperto.
Perciò il
Triulzo, poi che non s'aveva occasione di tentare altro e che era ne' luoghi
tanto vicini, deliberò di tentare se si poteva offendere l'esercito inimico; il
quale, allargatosi quando Ciamonte ritornò da Sermidi a Carpi, alloggiava al
Bondino quasi tutta la fanteria, e la cavalleria al Finale e per le ville
vicine. Però, ricevuta la commissione del re, andò il dì seguente alla Stellata
e l'altro dì alquanto più innanzi; ove distribuì al coperto per le ville
circostanti l'esercito, e facendo gittare il ponte con le barche tra la
Stellata e Ficheruolo in su tutto il fiume del Po: avendo ordinato che 'l duca
di Ferrara ne gittasse un altro un miglio di sotto ove si dice la Punta, in su
quello ramo del Po che va a Ferrara; e che con l'artiglierie venisse allo
Spedaletto, luogo in sul Polesine di Ferrara che è di riscontro al Bondino.
Ebbe in questo mezzo il Triulzio notizia dalle sue spie che molti cavalli
leggieri, di quella parte dell'esercito de' viniziani che era di là dal Po,
dovevano la notte prossima venire appresso alla Mirandola a ordinare certe
insidie; perciò vi mandò occultamente molti cavalli: i quali giunti a Bellaere,
palagio del contado mirandolano, vi trovorno fra' Lionardo napoletano capitano
de' cavalli leggieri de' viniziani, uomo chiaro in quello esercito, il quale
non temendo dovessino venirvi gli inimici, smontato quivi con cento cinquanta
cavalli ne aspettava molti altri che lo doveano seguitare; ma oppresso
all'improviso, volendosi difendere, fu ammazzato con molti de' suoi. Venne
Alfonso da Esti, come era destinato, allo Spedaletto, e la notte seguente
cominciò a tirare con l'artiglierie contro al Bondino; e nel tempo medesimo il
Triulzio mandò Gastone monsignore di Fois, figliuolo di una sorella del re (il
quale, giovanetto, era l'anno dinanzi venuto all'esercito), a correre, con
cento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e cinquecento fanti, insino
alle sbarre dell'alloggiamento degli inimici: il quale messe in fuga
cinquecento fanti destinati alla guardia di quella fronte; onde gli altri
tutti, lasciato guardato il Bondino, si ritirorno di là dal canale nel sito
forte. Ma non succedette al Triulzo alcuna delle cose destinate; perché l'artiglieria
piantata contro al Bondino, essendovi in mezzo il Po, faceva per la distanza
del luogo piccolo progresso, e molto più perché cresciuto il fiume, e tagliato
l'argine da quegli che erano nel Bondino, allagò talmente il paese che dalla
fronte degli alloggiamenti franzesi al Bondino non si poteva più andare se non
colle barche: di maniera che 'l capitano, disperato di potere più condursi per
quella via agli alloggiamenti degli inimici, chiamò da Verona dumila fanti
tedeschi e ordinò si soldassino tremila grigioni, per accostarsi loro per la
via di San Felice; in caso che, per opera del vescovo Gurgense, non si
introducesse la pace.
La cui venuta
era stata alquanto più tarda perché a Salò, in sul lago di Garda, aveva
aspettato più dì invano la risposta del pontefice; il quale aveva per lettere
ricercato che mandasse imbasciadori a trattare. Venne finalmente a Mantova,
accompagnato da don Petro d'Urrea, il quale per il re d'Aragona risedeva
ordinariamente appresso a Cesare ove pochi dì poi sopravenne il vescovo di
Parigi; persuadendosi il re di Francia (il quale, per essere più vicino alle
pratiche della pace e a provedimenti della guerra, era venuto a Lione) che
medesimamente il pontefice dovesse mandarvi. Il quale, da altra parte, faceva
instanza che Gurgense andasse a lui; mosso non tanto perché gli paresse questo
essere più secondo la degnità pontificale quanto perché sperava, e
coll'onorarlo e col caricarlo di promesse, e con l'efficacia e autorità della
presenza, averlo a indurre nella sua volontà, alienissima più che mai dalla
concordia e dalla pace: il che per persuadergli più facilmente procurò che
andasse a lui Ieronimo Vich valenziano, oratore del re cattolico appresso a sé.
Non negava Gurgense di volere andare al pontefice; ma diceva, essere richiesto
di fare prima quel che era conveniente fare dipoi; affermando che più
facilmente si rimoverebbono le difficoltà se si trattasse prima a Mantova, con
intenzione di andare poi al pontefice con le cose digerite e quasi conchiuse.
Astrignerlo a questo medesimo non meno la necessità che il rispetto della
facilità: perché come era egli conveniente lasciare solo il vescovo di Parigi,
mandato dal re di Francia a Mantova per l'instanza fatta da Cesare? con che
speranza potersi trattare da lui le cose del suo re? come conveniente
richiederlo che andasse insieme con lui al pontefice? perché né secondo la
commissione né secondo la degnità del re poteva andare in casa dello inimico,
se prima non fussino composte, o quasi composte, le differenze loro. In
contrario argomentavano i due imbasciadori aragonesi, dimostrando che tutta la
speranza della pace dipendeva dal comporre le cose di Ferrara; perché composte
quelle, non rimanendo al pontefice più causa alcuna di sostentare i viniziani,
sarebbono essi del tutto necessitati di cedere alla pace con quelle leggi che
volesse Cesare medesimo. Pretendere il pontefice che la sedia apostolica avesse
in sulla città di Ferrara potentissime ragioni: riputare, oltre a questo,
Alfonso da Esti avere usato seco grande ingratitudine, avergli fatte molte
ingiurie; e per mollificare l'animo suo gravemente sdegnato essere più
conveniente e più a proposito che il vassallo dimandasse più tosto clemenza al
superiore che disputasse della giustizia. Dunque, avendosi a impetrare
clemenza, essere non solamente onesto ma quasi necessario il trasferirsi a lui;
il che facendo non dubitavano che molto mitigato diminuirebbe il rigore; né
essi giudicare essere utile che quella diligenza industria e autorità che
s'aveva a usare per disporre il pontefice alla pace si spendesse nel
persuaderlo a mandare. Soggiugnevano, con parole bellissime, non si potere né
disputare né terminare le differenze se non intervenivano tutte le parti, ma in
Mantova non essere altri che una, perché Cesare il re cristianissimo e il re
cattolico erano in tanta congiunzione di leghe, di parentadi e di amore che si
dovevano riputare come fratelli, e che gli interessi di ciascuno di loro
fussino comuni di tutti. Assentì finalmente Gurgense, con intenzione che 'l vescovo
di Parigi, aspettando a Parma che partorisse l'andata sua, vi andasse
anch'egli, se così piacesse al suo re, di andare al pontefice.
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