XVI. Nomina di nuovi cardinali. Entrata dell'ambasciatore di Massimiliano
in Bologna e suo superbo contegno. Sue trattative di accordo coi veneziani.
Avversione del pontefice alla pace coi francesi e subito fallimento delle
trattative. Gli ambasciatori aragonesi per invito dell'inviato di Massimiliano
ritirano le milizie spagnole dall'esercito pontificio.
Il quale non
aveva in questo tempo, per le cose che si trattavano attenenti alla pace,
deposti i pensieri della guerra: perché di nuovo tentava l'espugnazione della
bastia del Genivolo, avendo preposto a questa impresa Giovanni Vitelli. Ma
essendo, per la strettezza de' pagamenti, il numero de' fanti molto minore di
quel che aveva disegnato, ed essendo per le pioggie grandi, e perché quegli che
erano nella bastia aveano rotto gli argini del Po, inondato il paese
all'intorno, non si faceva progresso alcuno: e per acqua vi erano superiori le
cose d'Alfonso da Esti; perché avendo con una armata di galee e di brigantini
assaltata appresso a Santo Alberto l'armata de' viniziani, quella, spaventata
perché mentre combattevano si scoperse una armata di legni minori che veniva da
Comacchio, si rifuggì nel porto di Ravenna, avendo perduto due fuste tre
barbotte e più di quaranta legni minori. Onde il papa, perduta la speranza di
pigliare la bastia, mandò quelle genti nel campo che alloggiava al Finale,
diminuito molto di fanti perché strettissimamente erano pagati. Creò nel tempo
medesimo il pontefice otto cardinali, parte per conciliarsi gli animi de'
prìncipi, parte per armarsi, contro alle minaccie del concilio, di prelati
dotti ed esperimentati e di autorità nella corte romana, e di persone
confidenti a sé, tra' quali fu l'arcivescovo d'Iorch (diconlo i latini
eboracense) imbasciadore del re di Inghilterra, e il vescovo di Sion: questo
come uomo importante a muovere la nazione de' svizzeri; quello perché ne fu
ricercato dal suo re, il quale aveva già non piccola speranza di concitare
contro a' franzesi. E per dare arra quasi certa della medesima degnità a
Gurgense, e renderselo con questa speranza più facile, si riservò, col
consentimento del concistorio, facoltà di nominarne un altro riservato nel
petto suo.
Ma inteso che
ebbe, Gurgense avere consentito di andare a lui, disposto a onorarlo
sommamente, e parendogli niuno onore potere essere maggiore che il pontefice
romano farsegli incontro, e oltre a questo dargli maggiore comodità d'onorarlo
il riceverlo in una magnifica città, andò da Ravenna a Bologna; dove, il terzo
dì dopo l'entrata sua, entrò il vescovo Gurgense, ricevuto con tanto onore che
quasi con maggiore non sarebbe stato ricevuto re alcuno: né si dimostrò da lui
pompa e magnificenza minore; perché, venendo con titolo di luogotenente di
Cesare in Italia, aveva seco grandissima compagnia di signori e di
gentiluomini, tutti colle famiglie loro, vestiti e ornati molto splendidamente.
Alla porta della città se gli fece incontro, con segni di grandissima
sommissione, l'imbasciadore che 'l senato viniziano teneva appresso al
pontefice: contro al quale egli, pieno di fasto inestimabile, si voltò con
parole e gesti molto superbi, sdegnandosi che uno che rappresentava gli inimici
di Cesare avesse avuto ardire di presentarsi al cospetto suo. Con questa pompa
accompagnato insino al concistorio publico, ove con tutti i cardinali
l'aspettava il pontefice, propose con breve ma superbissimo parlare, Cesare
averlo mandato in Italia per il desiderio che aveva di conseguire le cose sue
più tosto per la via della pace che della guerra; la quale non poteva avere
luogo se i viniziani non gli restituivano tutto quello che in qualunque modo se
gli apparteneva. Parlò dopo l'udienza publica col pontefice privatamente, nella
medesima sentenza e con la medesima alterezza: alle quali parole e
dimostrazioni accompagnò, il seguente dì, fatti non meno superbi. Perché avendo
il pontefice, con suo consentimento, diputati a trattare seco tre cardinali,
San Giorgio, Regino e quel de' Medici, i quali aspettandolo all'ora che erano
convenuti di essere insieme, egli, come se fusse cosa indegna di lui trattare
con altri che col pontefice, mandò a trattare con loro tre de' suoi
gentiluomini, scusandosi di essere occupato in altre faccende: la quale
indegnità divorava insieme con molt'altre il pontefice, vincendo la sua natura
l'odio incredibile contro a' franzesi.
Ma nella
concordia tra Cesare e i viniziani, della quale cominciò a trattarsi prima,
erano molte difficoltà. Perché se bene Gurgense, il quale aveva dimandato prima
tutte le terre, consentisse alla fine che a loro rimanessino Padova e Trevigi
con tutti i loro contadi e appartenenze, voleva che in ricompenso dessino a
Cesare quantità grandissima di danari; che da lui in feudo le riconoscessino, e
le ragioni dell'altre terre gli cedessino: le quali cose erano nel senato
ricusate; ove tutti unitamente conchiudevano più utile essere alla republica
(poi che aveano talmente fortificate Padova e Trevigi che non temevano di
perderle) conservarsi i danari; perché, se mai passava questa tempesta,
potrebbe offerirsi qualche occasione che facilmente recupererebbono il loro
dominio. Da altra parte il pontefice ardeva di desiderio convenissino con
Cesare, sperando che da questo avesse a succedere che egli si alienasse dal re
di Francia; però gli stimolava, parte con prieghi parte con minaccie, che
accettassino le condizioni proposte. Ma era minore appresso a loro la sua
autorità, non solamente perché conoscevano da quali fini procedesse tanta
caldezza ma perché, sapendo quanto gli fusse necessaria la compagnia loro in
caso non si riconciliasse col re di Francia, tenevano per certo che mai gli abbandonerebbe.
Pure, da poi che fu disputato molti dì, rimettendo il vescovo Gurgense qualche
parte della sua durezza e i viniziani cedendo più di quel che aveano destinato
alla instanza ardentissima del pontefice, interponendosi medesimamente gli
oratori del re d'Aragona, che a tutte le pratiche intervenivano, pareva che
finalmente fussino per convenire; pagando i viniziani, per ritenersi con
consentimento di Cesare Padova e Trevigi, ma in tempi lunghi, quantità
grandissima di danari.
Rimaneva la
causa della riconciliazione tra 'l pontefice e il re di Francia, tra i quali
non appariva altra controversia che per le cose del duca di Ferrara; la quale
Gurgense per risolvere (perché Cesare senza questa aveva deliberato non
convenire) andò a parlare al pontefice, al quale rarissime volte era stato;
persuadendosi, per le speranze avute dal cardinale di Pavia e dagli oratori del
re cattolico, dovere essere materia non difficile, perché da altra parte
sapeva, il re di Francia, avendo minore rispetto alla degnità che alla quiete,
essere disposto a consentire molte cose di non piccolo pregiudicio al duca. Ma
il pontefice, interrompendogli quasi nel principio del parlare il ragionamento,
cominciò per contrario a confortarlo che, concordando co' viniziani, lasciasse
pendenti le cose di Ferrara; lamentandosi che Cesare non conoscesse l'occasione
paratissima di vendicarsi, con l'altrui forze e danari, di tante ingiurie
ricevute da' franzesi, e che aspettasse d'essere pregato di quel che
ragionevolmente doveva con somma instanza supplicare. Alle quali cose Gurgense
poi che con molte ragioni ebbe replicato, né potendo rimuoverlo dalla sentenza
sua, gli significò volersi partire senza dare altrimenti perfezione alla pace
co' viniziani; e baciatigli secondo il costume i piedi, il dì medesimo, che fu
il quintodecimo dalla venuta sua a Bologna, se ne andò a Modona; avendo invano
il pontefice mandato a richiamarlo subito che fu uscito della città: onde si
indirizzò verso Milano, lamentandosi in molte cose del pontefice, e
specialmente che, mentre che per la venuta sua in Italia erano quasi sospese
l'armi, avesse mandato secretamente per turbare lo stato di Genova... vescovo
di Ventimiglia figliuolo già di Paolo cardinale Fregoso. Dell'andata del quale
essendo penetrata notizia a' franzesi, lo feciono, così incognito come andava,
pigliare nel Monferrato; onde condotto a Milano manifestò interamente le
cagioni e i consigli della sua andata.
Ricercò
Gurgense, quando partì da Bologna, gli imbasciadori aragonesi (i quali,
essendosi per quel che appariva affaticati molto per la pace comune, si
dimostravano sdegnati della durezza del pontefice) che facessino ritornare nel
reame di Napoli le trecento lancie spagnuole; il che essi prontamente
acconsentirono. Donde ciascuno tanto più si maravigliava che, nel tempo che si
trattava del concilio, e che si credeva dovere essere potenti in Italia, con la
presenza d'amendue i re, l'armi franzesi e tedesche, il pontefice, oltre
all'inimicizia del re di Francia, si alienasse Cesare e si privasse degli aiuti
del re cattolico. Dubitavano alcuni che in questo come in molte altre cose
fussino diversi i consigli del re d'Aragona dalle dimostrazioni, e che altro
avessino in publico operato gli oratori suoi altro in secreto col pontefice;
perché avendo provocato il re di Francia con nuove offese, e per quelle
risuscitata la memoria delle antiche, pareva che dovesse temere che la pace di
tutti gli altri non producesse gravissimi pericoli contro a sé, rimanendo
indeboliti di stato di danari e di riputazione i viniziani, poco potente in
Italia il re de' romani e vario instabile e prodigo più che mai: altri,
discorrendo più sottilmente, interpretavano potere per avventura essere che il
pontefice, quantunque il re cattolico gli protestasse d'abbandonarlo e
richiamasse le sue genti, confidasse che egli, considerando quanto nocerebbe a
sé proprio la sua depressione, avesse sempre ne' bisogni maggiori a sostenerlo.
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