IX. Tregua fra il re di Francia e il re d'Aragona. Preoccupazioni in Italia
per la conclusione della tregua. Ragioni che spingono il re di Francia alla
nuova impresa d'Italia. Confederazione fra i veneziani e il re di Francia.
Ma né la
mutazione del pontefice né altri accidenti bastavano a stabilire la quiete
d'Italia, anzi già apertamente cominciavano a indirizzarsi le cose alla guerra.
Perché Cesare, alieno totalmente dalla restituzione di Verona, parendogli
rimanere privato della facilità di entrare in Italia, con tutto che fusse stata
prolungata la tregua per tutto aprile, disprezzò le condizioni dell'accordo
trattato a Milano; e infastidito della instanza che gli facevano gli oratori
del re cattolico, disse al conte di Carriati che, per la inclinazione che da lui
si dimostrava a' viniziani, conveniva che fusse chiamato più presto
imbasciadore viniziano che spagnuolo: ma augumentò molto più questa
disposizione la tregua la quale tra i re cristianissimo e cattolico fu fatta,
per uno anno, solamente per le cose di là da' monti; per la quale al re di
Francia, liberato da' sospetti di verso Spagna, si dava facilità grandissima di
rinnovare la guerra nel ducato di Milano. Aborriva in ogni, tempo il re
cattolico d'avere la guerra di là da' monti co' franzesi, perché non essendo
potente di danari, e per questo costretto ad aiutarsi delle forze de' signori e
de' popoli di Spagna, o non aveva gli aiuti pronti o bisognava che nel tempo
della guerra stesse con loro quasi come in subiezione: ma in questo tempo
massimamente era confermato il suo antico consiglio, perché colla quiete si
stabiliva meglio il regno nuovamente acquistato di Navarra, ma molto più
perché, essendo dopo la morte della reina Isabella non più re ma governatore di
Castiglia, non aveva tanto fondata ne' tempi turbolenti l'autorità sua; e aveva
veduto l'esperienza frescamente nella difesa di Navarra, della quale se bene
fusse stato felice il fine non era però che, per la lentezza de' soccorsi, non
si fusse ridotto in molti pericoli. A' quali non volendo più ritornare,
contrasse, non sapendo ancora la morte del pontefice, la tregua; con tutto che
non fusse publicata innanzi sapesse l'elezione del nuovo. E allegava, per
giustificazione di questa inaspettata deliberazione, essergli stata violata la
lega dal pontefice e da' viniziani, perché dopo la giornata di Ravenna non
avevano mai voluto pagare i quarantamila ducati, come erano tenuti mentre che
il re di Francia possedeva cosa alcuna in Italia: egli solo avere pensato al
bene comune de' confederati né attribuito a sé i premi della vittoria comune,
né possedere in Italia una piccola torre più di quello che possedeva innanzi
alla guerra; ma il papa avere pensato al particolare e fatte sue proprie le
cose comuni, occupato Parma, Piacenza e Reggio, né pensato ad altro che a
occupare Ferrara; la quale sua cupidità aveva disturbato l'acquistare le
fortezze del ducato di Milano e la Lanterna di Genova: avere egli interposta
tutta la sua diligenza e autorità per la concordia tra Cesare e i viniziani, ma
il pontefice essersi per gli interessi propri precipitato a escludergli dalla
lega; nella qualcosa avere fatto imprudentemente gli oratori suoi, che non
avendo consentito, perché così sapeano essere la mente sua, che e' fusse
nominato nel capitolo nel quale si introduceva la confederazione, l'avessino
lasciato nominare in quello nel quale si escludevano i viniziani; né avere in
questo maneggio corrisposto i viniziani al concetto che si aveva della prudenza
loro, avendo tenuto tanto conto di Vicenza che, per non perderla, non avessino
voluto liberarsi da' travagli della guerra: essergli impossibile nutrire, senza
i pagamenti che gli erano stati promessi, l'esercito che aveva in Italia, e
manco essergli possibile sostenere tutta la guerra a' confini de' regni suoi,
come conosceva desiderare e procurare tutti gli altri: né dissimulare il
pontefice il desiderio già indirizzato di torgli il regno di Napoli. E
nondimeno non muoverlo queste ingiurie a pensare di abbandonare la Chiesa e gli
altri di Italia, quando trovasse la corrispondenza conveniente, i quali sperava
che, commossi da questa tregua col re, sarebbeno più pronti a convenire seco
per la difesa comune. Inserì nello instrumento della tregua il nome di Cesare e
del re di Inghilterra, con tutto che con loro non avesse comunicato cosa
alcuna; e fu cosa ridicola che ne' medesimi dì che la si bandiva solennemente
per tutta Spagna venne uno araldo a significargli, in nome del re
d'Inghilterra, gli apparati potentissimi che e' faceva per assaltare la Francia
e a sollecitare che egli medesimamente movesse, secondo che aveva promesso, la
guerra dalla parte di Spagna.
La tregua fatta
in questo modo spaventò sommamente in Italia gli animi di coloro a' quali era
molesto lo imperio de' franzesi, tenendosi quasi per certo da tutti che il re
di Francia non avesse a tardare a mandare l'esercito di qua da' monti e che,
per l'ostinazione di Cesare alla pace, i viniziani avessino a unirsi seco; a'
quali resistere pareva molto difficile, perché l'esercito spagnuolo, ancora che
dallo stato di Milano afflitto da spese infinite avesse tratto alcuna volta
qualche somma di danari, non aveva più modo a sostentarsi. Del nuovo pontefice
non si comprendeva ancora quale fusse la intenzione: perché, benché
secretamente desiderasse che la potenza del re di Francia avesse per termine i
monti, nondimeno, nuovo nel pontificato, e confuso non meno che gli altri dalla
tregua fatta dal re cattolico nel tempo che si credeva avesse applicati i
pensieri alla guerra, stava coll'animo molto sospeso; sdegnato ancora che,
ricercando con grande instanza che alla Chiesa fussino restituite Parma e
Piacenza, il darne speranza era pronto, l'esecuzione procedeva lentamente;
desiderando tutti gli altri conservarle al ducato di Milano, e per avventura
sperando che il desiderio di recuperarle lo inducesse alla difesa di quello
stato. Parevano più certo e più potente presidio i svizzeri ma, considerando
non potersi né da Massimiliano Sforza né da altri pagare i danari che, secondo
le convenzioni, erano necessari al muovergli, si temeva che nel maggiore
bisogno ricusassino di scendere nello stato di Milano.
Da altra parte
il re di Francia, fatta che ebbe la tregua, deliberò di mandare l'esercito in
Italia, dandogli speranza alla vittoria le ragioni dette di sopra; alle quali
s'aggiugneva il sapere che i popoli dello stato di Milano, vessati da tante
taglie e rapine de' svizzeri e dagli alloggiamenti e pagamenti fatti agli
spagnuoli, desideravano ardentemente di ritornare sotto il dominio suo, avendo,
per l'acerbità degli altri, conosciuto essere, in comparazione loro,
desiderabile lo imperio de' franzesi. Anzi molti gentiluomini particolari di
quel ducato, per messi propri, indiritti chi al re chi al Triulzio (il quale il
re, acciocché di luogo più propinquo trattasse co' milanesi, avea mandato a
Lione), confortavano a non differire a mandare l'esercito; promettendo, subito
che avesse passato i monti, di pigliare scopertamente l'armi per lui. Né
mancavano gli stimoli assidui del Triulzio e degli altri fuorusciti che,
secondo il costume di chi è fuori della patria, proponevano la impresa dovere
essere molto facile, massimamente congiugnendosi seco i viniziani. E lo
costrigneva ad accelerare il confidare di prevenire, colla fine di questa, il
principio della guerra del re di Inghilterra: la quale non poteva cominciare se
non dopo il corso di qualche mese, perché quel regno, essendo già molti anni
stato in pace, era sproveduto d'armadure, d'artiglierie e quasi di tutte le
cose necessarie alla guerra, non aveva cavalli da combattere perché gli
inghilesi non conoscono altra milizia che la pedestre, e quella non essendo
esperimentata, era necessitato, perché voleva passare in Francia potentissimo,
soldare numero grande di fanti tedeschi: cose che senza lunghezza di tempo non
si potevano spedire. Costrigneva similmente il re, ad accelerare, il timore che
le fortezze non si perdessino per mancamento di vettovaglie; e specialmente la
Lanterna di Genova, la quale pochi dì innanzi non gli era succeduto di
rinfrescare per una nave mandata a questo effetto: la quale da Arbinga, insino
dove era stata accompagnata da tre navi e da uno galeone, entrata nell'alto
mare col vento prospero, per la forza del quale passata per mezzo de' legni
genovesi si era accostata al castello, surta in sull'ancore e dato il cavo alla
fortezza, già cominciava a scaricare le vettovaglie e le munizioni che avea
portate; ma Andrea Doria, quel che poi fu tanto felice e famoso in sul mare,
entrato con pericolo grande, con una nave grossa della quale era padrone, tra
la Lanterna e la nave franzese, e tagliato il cavo dato alla fortezza e i cavi
delle ancore, combattendo egregiamente e nel combattere ferito nel volto, la
conquistò.
Deliberato
adunque il re non differire il dare cominciamento alla guerra (al qual fine,
per essere parato a ogni occasione, avea prima mandato molte lancie ad
alloggiare nella Borgogna e nel Dalfinato) ristrinse le cose trattate già molti
mesi co' viniziani, ma allentate alquanto dall'una parte e dall'altra, perché e
il re aveva tenuto sospeso ora la speranza della pace con Cesare ora il
dimandare essi pertinacemente Cremona e la Ghiaradadda, e nel senato erano
stati vari pareri. Perché molti di autorità grande nella republica proponevano
la concordia con Cesare, dimostrando essere più utile alleggerirsi al presente
da tante spese e liberarsi da' pericoli, per potere più prontamente abbracciare
l'occasioni che si offerissino, che, essendo la republica affaticata e
indebolite le sostanze de' privati, implicarsi in nuove guerre in compagnia del
re di Francia; della amicizia del quale quanto fusse fedele e sicura avevano sì
fresca l'esperienza: nondimeno, parendo alla maggiore parte rare volte potere
venire tale occasione di recuperare l'antico stato loro, e che la concordia con
Cesare, ritenendosi Verona, non gli liberasse dalle molestie e da' pericoli, si
risolverono a fare la confederazione col re di Francia, lasciato da parte il
pensiero di Cremona e della Ghiaradadda. La quale per Andrea Gritti, che già
sosteneva più la persona di imbasciadore che di prigione, fu conchiusa nella
corte del re: nella quale, presupposta la liberazione di Bartolomeo da Alviano
e di Andrea Gritti, si obligorono i viniziani di aiutare, con ottocento uomini
d'arme mille cinquecento cavalli leggieri e diecimila fanti, il re di Francia
contro a qualunque se gli opponesse, alla recuperazione di Asti di Genova e del
ducato di Milano; e il re si obligò ad aiutare loro insino a tanto
ricuperassino interamente tutto quello possedevano, innanzi alla lega di
Cambrai, in Lombardia e nella marca trivisana; e che al re s'appartenessino
Cremona e la Ghiaradadda. La quale confederazione subito che fu stipulata,
andorno a Susa Giaiacopo da Triulzi e Bartolomeo d'Alviano, l'uno per andare
poi per la via più sicura a Vinegia, l'altro per unire quivi l'esercito
destinato alla guerra, che era mille cinquecento lancie ottocento cavalli
leggieri e quindicimila fanti (ottomila tedeschi, gli altri franzesi); tutti
sotto il governo di [monsignore] della Tramoglia, deputato dal re, perché le
cose procedessino con maggiore riputazione, suo luogotenente.
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