X. Dubbi del re di Francia per il contegno e gli atti del pontefice. Cauto
contegno di questo. Ambiguo contegno del viceré. Prime irrequietudini in Milano
per l'avvicinarsi dei francesi. La partenza del viceré dalla Trebbia e suo
improvviso ritorno. Suo atteggiamento d'attesa degli avvenimenti.
Faceva in
questo tempo medesimo il re, con sommi prieghi, instanza col pontefice che non
gli impedisse la recuperazione del suo ducato, offerendogli non solamente che
dopo la vittoria non procederebbe più oltre ma che sempre farebbe la pace ad
arbitrio suo. Le quali cose benché il pontefice udisse benignamente e che,
acciò che con maggiore fede fussino ricevute le parole sue, usasse a trattare
col re l'opera e il mezzo di Giuliano suo fratello, nondimeno molte cose lo
facevano sospetto al re: la memoria delle cose precedenti al pontificato;
l'avere il pontefice, subito che fu assunto, mandato a lui Cintio suo familiare
con uno breve e con umane commissioni, ma tanto generali che arguivano non
avere l'animo inclinato a lui: l'avere il pontefice consentito che Prospero
Colonna fusse eletto capitano generale del duca di Milano, il che Giulio, per
l'odio contro a' Colonnesi, aveva sempre vietato. Insospettivalo molto più, che
il pontefice aveva significato al re di Inghilterra volere continuare nella
confederazione fatta con Cesare col re cattolico e con lui, e alle comunità de'
svizzeri aveva scritto quasi dimostrando di esortargli alla difesa d'Italia; né
dissimulava volere continuare con loro la confederazione fatta da Giulio, per
la quale, ricevendo ogni anno ventimila ducati da lui, si erano obligati alla protezione
dello stato ecclesiastico. Era anche segno del suo animo il non avere ricevuto
in grazia il duca di Ferrara, ma differita con varie scuse la restituzione di
Reggio insino a tanto che a Roma venisse il cardinale suo fratello; il quale,
per fuggire le persecuzioni di Giulio e l'instanza del re di Francia che
andasse al concilio pisano, se ne era andato ad Agria suo vescovado in
Ungheria. Ma più che di alcuna di queste cose rendeva sospetto il pontefice
l'avere, benché più occultamente gli fusse stato possibile, confortato il
senato viniziano a convenire con Cesare, cosa tutta contraria all'intenzione
del re; il quale aveva ancora interpetrato in mala parte che 'l papa,
dimostrando di muoversi non per altro che per l'officio pontificale, gli aveva
scritto uno breve esortatorio a non muovere l'armi, a inclinare a finire la
guerra con onesta composizione, cosa che per se stessa il re non arebbe
biasimata se, per il medesimo desiderio della pace, avesse confortato il re di
Inghilterra a non molestare la Francia.
E certamente
non era vano il sospetto del re, perché il pontefice desiderava sommamente che
i franzesi non avessino più sedia in Italia, o perché gli paresse più utile per
la sicurtà comune o per la grandezza della Chiesa o perché gli risedesse
nell'animo la memoria delle offese ricevute dalla corona di Francia: alla quale
se bene il padre e gli altri suoi maggiori fussino stati deditissimi, e
n'avessino in vari accidenti riportato comodità e onore, nondimeno era più
fresco che i suoi fratelli ed egli erano stati cacciati di Firenze per la
venuta del re Carlo; e che questo presente re, favorendo il governo popolare, o
gli aveva sempre dispregiati o se alcuna volta si era dimostrato inclinato a
loro l'aveva fatto per usargli come instrumenti a tirare per questo sospetto i
fiorentini a convenzioni utili a sé proprio, dimenticandosi di loro
interamente. Aggiugnevasi per avventura lo sdegno di essere stato, dopo la
giornata di Ravenna, menato prigione a Milano e che il re aveva comandato fusse
condotto in Francia. Ma quantunque, o per queste cagioni o per altre, avesse
questa disposizione, il non vedere i fondamenti potenti, come arebbe
desiderato, a resistere lo faceva procedere cautamente e dissimulare quanto
poteva il concetto suo, udendo sempre cupidamente le dimande e le instanze che
gli erano fatte contro al re.
Perché i
svizzeri, inclinatissimi a muoversi per difendere il ducato di Milano,
offerivano muoversi con numero molto maggiore purché gli fusse porta quantità
mediocre di danari; la quale, per la impotenza degli altri, non si poteva
sperare se non dal pontefice. Ma del viceré erano incerti i consigli, varie e
occulte le parole: perché ora offeriva al pontefice di opporsi a' franzesi,
discendendo egli medesimamente apertamente nella causa, mandando a unirsi con
lui le sue genti e pagando per tre mesi quantità non piccola di fanti; e perché
più facilmente si credesse, chiamati i suoi soldati del parmigiano e del
reggiano, si era fermato con l'esercito in sul fiume della Trebbia, ed essendo
ancora alcuni de' suoi soldati alla guardia di Tortona e di Alessandria, i
quali mai non avea mossi; ora affermava avere ricevuto comandamento del suo re,
nel tempo medesimo che gli significò l'avere fatta la tregua, di ridurre l'esercito
nel reame di Napoli. Altrimenti parlava Ieronimo Vich oratore appresso al
pontefice, confermandosi in questo con quello che prometteva il suo re: che
pigliando il pontefice la difesa di Milano, egli, non avendo rispetto alla
tregua fatta, romperebbe la guerra in Francia; il che diceva essergli lecito
senza violare la fede data. Perciò molti credettono che quel re, temendo che
per la tregua fatta niuno fusse per opporsi al re di Francia, avesse comandato
al viceré che, in caso non vedesse gli altri concorrere caldamente alla difesa
del ducato di Milano, che cercando di non provocare con ingiurie nuove il re di
Francia, riducesse l'esercito a Napoli: per la qual cagione medesima dimostrava
al re d'avere l'animo inclinato alla pace, offerendo di indurvi eziandio Cesare
e il re di Inghilterra; e per renderlo manco acerbo seco, in caso recuperasse
Milano, gli faceva promessa quasi certa che 'l suo esercito non se gli
opporrebbe. Perciò il viceré, avendo in animo di partirsi, richiamò i soldati
che sotto il marchese di Pescara erano in Alessandria e in Tortona,
significando (come fu fama) nel tempo medesimo al Triulzio la sua
deliberazione, acciò che il re di Francia ricevesse in grazia la partita. Ma
non eseguì subito questo consiglio, perché i svizzeri, ardentissimi alla difesa
del ducato di Milano, aveano per publico decreto mandati cinquemila fanti e
davano speranza di mandarne numero molto maggiore; anzi dimostrando, il
contrario, mandò Prospero Colonna a trattare co' svizzeri in qual luogo si
avessino a unire insieme contro a' franzesi, o perché avesse ricevuto avviso a
Cesare essere stata molestissima la tregua fatta, o dal suo re nuove
commissioni che seguitasse la volontà del pontefice; il quale, combattendo in
lui da una parte la piccola speranza dall'altra la propria inclinazione,
perseverava ancora nelle medesime perplessità. E nondimeno, essendo i svizzeri
venuti nel tortonese, ove Prospero aveva data intenzione che il viceré verrebbe
a unirsi, interponendo varie scuse, gli ricercò che venissino a unirsi in sulla
Trebbia: dalla quale domanda essi comprendendo la diversità della volontà dalle
parole, risposono ferocemente non ricercare questo il viceré per andare a
mostrare la fronte agli inimici ma per voltare con sicurtà maggiore le spalle,
non importare niente a' svizzeri se aveva timore di combattere co' franzesi,
quel medesimo stimare il suo andare il suo stare il suo fuggirsi; essi bastare
soli a difendere il ducato di Milano contro a ciascuno.
Ma già
tumultuava tutto il paese: il conte di Musocco figliuolo di Giaiacopo era, non
si opponendo alcuno, entrato in Asti e poi in Alessandria; i franzesi, partiti
da Susa, si facevano innanzi; il duca di Milano, non essendo stato a tempo a
entrare in Alessandria, si unì co' svizzeri appresso a Tortona; ove essendo
stato significato loro apertamente dal viceré che aveva deliberato di partirsi,
se ne andorono a Novara. I milanesi, alla fama della partita del viceré,
mandorono imbasciadori a Novara a scusarsi con lui se, non avendo chi gli
difendesse, per fuggire gli ultimi mali convenissino co' franzesi; il quale
dimostrò di accettare benignamente la loro escusazione, anzi gli commendò che
alla salute della patria comune pietosamente pensassino. In sulla quale
occasione Sacramoro Visconte, deputato all'assedio del castello, rivoltatosi
alla fortuna de' franzesi, vi messe dentro vettovaglie.
Partì adunque
il viceré dalla Trebbia con tutto l'esercito, nel quale erano mille dugento
uomini d'arme e ottomila fanti, per ritornarsene nel reame, come disperate le
cose di Lombardia, e però pensando solamente alla salvazione dell'esercito: ma
il dì medesimo, mentre che camminava, ricevute tra Piacenza e Firenzuola
lettere da Roma, voltate subitamente le insegne, tornò nel medesimo
alloggiamento. La cagione fu che il pontefice, al quale erano state quasi ne'
dì medesimi restituite Piacenza e Parma, deliberato di tentare se per mezzo de'
svizzeri si potesse difendere il ducato di Milano, dette occultissimamente a
Ieronimo Morone, imbasciadore del duca appresso a sé, quarantaduemila ducati
per mandare a' svizzeri; ma sotto nome, se pure pervenisse a notizia di altri,
che ventimila fussino per conto delle pensioni, ventiduemila per quello che i
tre cantoni pretendevano dovere avere dallo antecessore, il quale aveva sempre
ricusato di pagargli.
Per la
ritornata del viceré in sulla Trebbia e per la fama della venuta di nuovi
svizzeri, i milanesi, pentitisi di essersi mossi troppo presto, davano speranza
a Massimiliano Sforza di ritornare sotto il dominio suo, ogni volta che i
svizzeri e l'esercito spagnuolo si unissino in sulla campagna. Le quali
speranze per nutrire, il viceré, appresso al quale era Prospero Colonna,
gittava il ponte in sul Po, promettendo continuamente di passare ma non lo
mettendo a effetto; perché, pensando principalmente alla salute dell'esercito,
deliberava procedere secondo i successi delle cose, parendogli molto pericoloso
dovere avere alla fronte i franzesi, alle spalle l'esercito veneto; il quale,
occupata già la città di Cremona e gittato il ponte alla Cava in sul Po, gli
era vicino.
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