IV. Consigli del pontefice agli svizzeri di maggior benevolenza verso il re
di Francia, ed al re di attenersi agli accordi con loro conchiusi. Difficoltà
di conciliazione fra gli svizzeri ed il re. Proroga della tregua fra il re di
Francia ed il re d'Aragona.
Ridotto che fu
il reame di Francia alla obbedienza della Chiesa, e così spento già per tutto
il nome e la autorità del concilio pisano, cominciavano alcuni di quegli che
avevano temuta la grandezza del re di Francia a commuoversi, e a temere che
troppo non si deprimesse la sua potenza; e specialmente il pontefice. Il quale,
benché perseverasse nel medesimo desiderio che da lui non fusse recuperato il
ducato di Milano, nondimeno, dubitando che il re, spaventato da tanti pericoli
e avendo innanzi agli occhi le cose dell'anno passato, non si precipitasse,
come continuamente con volontà di Cesare trattava il re cattolico, alla
concordia con Cesare (per la quale, contraendo lo sposalizio della figliuola
con uno de' nipoti di quei re, gli concedesse in dote il ducato di Milano),
cominciò a persuadere i svizzeri che per il troppo odio contro al re di Francia
non lo mettessino in necessità di fare deliberazione non manco nociva a loro
che a lui; perché sapendo anche essi la mala disposizione che contro a loro
avevano Cesare e il re cattolico, l'accordo col quale conseguissino lo stato di
Milano non sarebbe manco pericoloso alla libertà e autorità loro che alla
libertà della Chiesa e di tutta Italia: doversi persistere nel proposito che il
re di Francia non recuperasse il ducato di Milano, ma avvertire ancora che
(come spesso interviene nelle azioni umane) per fuggire troppo [uno] de' due
estremi non incorressino nell'altro estremo, parimente, e forse più, dannoso e
pericoloso; né per assicurarsi, sopra il bisogno, che quello stato non
ritornasse nel re di Francia, essere cagione di farlo cadere in mano d'altri,
con tanto maggiore pericolo e pernicie di tutti quanto ci resterebbe manco chi
potesse loro resistere che non era stato chi potesse resistere alla grandezza
del re di Francia. Dovere la republica de' svizzeri, avendo esaltato insino al
cielo il nome suo nell'arti della guerra con tanti egregi fatti e nobilissime
vittorie, cercare di farlo non meno illustre con l'arti della pace; antivedendo
dallo stato presente i pericoli futuri, rimediandogli con la prudenza e col
consiglio, né lasciando precipitare le cose in luogo donde non potessino
restituirsi se non con la ferocia e virtù delle armi: perché nella guerra, come
a ogni ora testimoniava l'esperienza, molte volte accadeva che il valore degli
uomini era soffocato dalla potestà troppo grande della fortuna. Essere migliore
consiglio moderare in qualche parte l'accordo di Digiuno, offerendosi massime
dal re maggiori pagamenti e promissione di fare tregua per tre anni con lo
stato di Milano, pure che non fusse astretto alla cessione delle ragioni; la
quale essendo di maggiore momento in dimostrazione che in effetto (perché,
quando al re ritornasse l'opportunità di recuperarlo, l'avere ceduto non gli
farebbe altro impedimento che volesse egli medesimo), non doversi per questa
difficoltà ridurre le cose in tanto pericolo. Da altra parte con efficaci ragioni
confortava il re di Francia a volere più presto, per minore male, ratificare
l'accordo fatto a Digiuno che tornare in pericolo di avere, la state prossima,
tanti inimici nel suo regno. Essere ufficio di principe savio, per fuggire il
male maggiore abbracciare per utile e per buona la elezione del male minore; né
si dovere per liberarsi da uno pericolo e uno disordine incorrere in un altro
più importante e di più infamia: perché, che onore gli sarebbe concedere agli
inimici suoi naturali, e che lo avevano perseguitato con tante fraudi, il
ducato di Milano con sì manifesta nota di viltà? che riposo che sicurtà,
diminuita tanto la sua riputazione, avere accresciuto la potenza di quegli che
non pensavano ad altro che ad annichilare il reame di Francia? da' quali
conosceva egli medesimo che nessuna promessa nessuna fede nessuno giuramento
poteva assicurarlo, come con gravissimo suo danno gli dimostrava l'esperienza
del tempo passato. Essere cosa dura il cedere quelle ragioni, ma di minore
pericolo e di minore infamia, perché una semplice scrittura non faceva più
potenti i suoi avversari; ed essendo stata fatta questa promessa senza
consentimento suo dai suoi ministri, non si potere dire che da principio fusse
stata sua deliberazione, ma essere più scusato a eseguirla quasi come
necessitato dalla promessa fatta e da qualche osservanza della fede; e sapersi
pure per tutto il mondo da quanto pericolo avesse quello accordo liberato
allora il reame di Francia. Lodare che con altri partiti cercasse di indurre i
svizzeri alla sua intenzione; ed egli, desideroso che per sicurtà del regno suo
seguitasse in qualunque modo la concordia tra lui e loro, non mancare di fare
con ogni studio tutti gli offici perché i svizzeri si disponessino alla sua
volontà; ma quando pure stessino pertinaci, esortare paternamente lui a
piegarsi, e a obbedire a' tempi e alla necessità; e per tutti gli altri
rispetti, e per non levare la scusa a lui di discostarsi dalla congiunzione
degli inimici.
Conosceva il re
essere vere queste ragioni, benché si lamentasse che il pontefice avesse
mescolato tacitamente le minaccie con le persuasioni, e confessava essere
necessitato a fare qualche deliberazione che gli diminuisse il numero degli
inimici; ma aveva fisso nell'animo sottoporsi più tosto a tutti i pericoli che
cedere le ragioni del ducato di Milano; confortandolo a questo medesimo il suo
consiglio e tutta la corte, a quali benché fusse molestissimo che il re facesse
più guerra in Italia, nondimeno, avendo rispetto alla degnità della corona di
Francia, era molto più molesto che e' fusse così ignominiosamente sforzato a
cederle. Simile pertinacia era nelle diete de' svizzeri; a' quali benché il re
offerisse di pagare di presente quattrocentomila ducati, e poi in vari tempi
ottocentomila, e che il cardinale sedunense e molti de' principali,
considerando il pericolo imminente se il re di Francia si congiugnesse con
Cesare e col re cattolico, fussino inclinati ad accettare queste condizioni,
nondimeno la moltitudine, inimicissima del nome franzese, e che superba per
tante vittorie si confidava di difendere contro a tutti gli altri prìncipi
uniti insieme il ducato di Milano, e appresso alla quale era già molto
diminuita l'autorità di Sedunense, e sospetti gli altri capi per le pensioni
solevano ricevere dal re di Francia, insisteva ostinatissimamente nella
ratificazione dell'accordo di Digiuno; anzi, concitata da grandissima temerità,
trattava di entrare di nuovo in Borgogna: benché, opponendosi a questo
Sedunense e gli altri capi, non con manifesta autorità ma con vari artifici e
modi indiretti, traportavano di dieta in dieta questa deliberazione.
Però il re di
Francia, non essendo né offeso né assicurato da loro, non cessava di continuare
la pratica del parentado col re cattolico; nella quale, come altra volta, era
la principale difficoltà se in potestà del padre o del suocero doveva stare [la
sposa] insino al tempo abile alla consumazione del matrimonio, perché
ritenendola il padre nessuna sicurtà dello effetto pareva avere a Cesare: e il
re, insino che gli restava qualche speranza che la fama di questo maneggio, la
quale egli studiosamente divulgava, potesse per lo interesse proprio mitigare
in beneficio suo gli animi degli altri, nutriva volentieri le difficoltà che vi
nascevano. Venne a lui Quintana, secretario del re cattolico, quello che per le
medesime cagioni vi era stato l'anno dinanzi; e dipoi passato con suo
consentimento a Cesare, ritornò di nuovo al re di Francia. Alla ritornata del
quale, perché si potessino con maggiore comodità risolvere le difficoltà della
pace, il re e Quintana in nome del re cattolico prorogorono per un altro anno
la tregua fatta l'anno passato con le medesime condizioni; alle quali si
aggiunse, molto secretamente, che durante la tregua non potesse il re di
Francia molestare lo stato di Milano; nel quale articolo non si includeva né
Genova né Asti. La quale condizione, tenuta occulta da lui, fu publicata e
bandita solennemente dal re cattolico per tutta Spagna; incerti gli uomini
quale fusse più vera, o la negazione dell'uno o l'affermazione dell'altro. Fu
nella medesima convenzione riservato tempo di tre mesi a Cesare e al re di
Inghilterra d'entrarvi, i quali affermava il Chintana che vi entrerebbono
amendue: il che, quanto al re di Inghilterra, si diceva vanamente; ma a Cesare
aveva persuaso il re d'Aragona, resoluto sempre a non volere la guerra di verso
Spagna, non si potere con migliore via ottenere il maritaggio che si trattava.
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