XV. Sospetti del viceré riguardo all'esercito pontificio. Vana deliberazione
degli spagnuoli e dei pontifici di passare il Po. Parole d'incitamento agli
svizzeri del cardinale sedunense. Il primo giorno della battaglia fra svizzeri
e francesi. Il secondo giorno ed il sopraggiungere dell'Alviano: importanza ed
esito della battaglia; sue conseguenze.
Ma mentre che
il viceré dimora in sul fiume del Po, e innanzi che Lorenzo de' Medici
giugnesse a Piacenza, fu preso da' suoi Cintio mandato dal pontefice al re di
Francia; appresso al quale essendo trovati i brevi e le lettere credenziali,
con tutto che per riverenza di chi lo mandava lo lasciasse subito passare,
cominciò non mediocremente a dubitare che la speranza che gli era data, che
l'esercito ecclesiastico unito seco passerebbe il fiume del Po, non fusse vana;
tanto più che, ne' medesimi dì, si era presentito che Lorenzo de' Medici avea
mandato occultamente uno de' suoi al medesimo re. La qual cosa non era aliena
dalla verità, perché Lorenzo, o per consiglio proprio o per comandamento del
pontefice, avea mandato a scusarsi se contro a lui conduceva l'esercito,
[stretto] dalla necessità che avea di ubbidire al papa; ma che in quello che
potesse, senza provocarsi la indegnazione del zio e senza maculare l'onore
proprio, farebbe ogni opera per sodisfargli, secondo che sempre era stato ed
era più che mai il suo desiderio.
Ma come Lorenzo
fu arrivato a Piacenza, si cominciò il dì medesimo, tra il viceré e lui e gli
uomini che intervenivano a' consigli loro, a disputare se fusse da passare
unitamente il fiume del Po per congiugnersi co' svizzeri, adducendosi per
ciascuno diverse ragioni. Allegavano quegli che confortavano al passare, niuna
ragione dissuadere l'entrare in Lodi, dove quando fussino si difficulterebbe
all'Alviano di unirsi con lo esercito franzese e a loro si darebbe facoltà di
unirsi con i svizzeri, o andando verso Milano a trovargli o essi venendo verso
loro: e se pure i franzesi si riducessino, come era fama volevano fare, o
fussino già ridotti in sulla strada tra Lodi e Milano, lo avere alle spalle
questi eserciti congiunti gli metterebbe in travaglio e pericolo; e anche forse
non sarebbe difficile, benché con circuito maggiore, trovare modo di
congiugnersi con i svizzeri. Essere questa deliberazione molto utile anzi
necessaria alla impresa, e per levare a' svizzeri tutte le occasioni di nuove
pratiche di accordo e per accrescere loro forze, delle quali contro a sì grosso
esercito avevano di bisogno, e specialmente di cavalli de' quali mancavano; ma
ricercarlo, oltre a questo, la fede e l'onore del pontefice e del re cattolico,
che per la capitolazione erano obligati soccorrere lo stato di Milano, e che
tante volte ne avevano data intenzione a' svizzeri, i quali trovandosi
ingannati diventerebbono di amicissimi inimicissimi. Ricercare questo medesimo
l'interesse degli stati propri, perché perdendo i svizzeri la giornata o
facendo accordo col re di Francia, non restare in Italia forze da proibirgli
che e' non corresse per tutto lo stato ecclesiastico insino a Roma e poi a
Napoli. Allegavansi in contrario molte ragioni, e quella massime, non essere
credibile che il re non avesse a quella ora mandato genti a Lodi; le quali
quando vi si trovassino, sarebbe necessario ritirarsi con vergogna e forse non
senza pericolo, potendo avere in uno tempo medesimo i franzesi alle spalle e i
viniziani o alla fronte o al fianco, né si potendo senza tempo e senza qualche
confusione ripassare il ponte. Il quale partito se il pericolo si comprasse con
degno prezzo non essere forse da recusare, ma, quando bene entrassino in Lodi
abbandonato, che frutto farebbe questo alla impresa? come potersi disegnare,
stando tra Milano e Lodi uno esercito sì potente, o di andare a unirsi co'
svizzeri o ch'i svizzeri andassino a unirsi con loro? Né essere forse sicuro
consiglio rimettere nelle mani di questa gente temeraria e senza ragione tutte
le forze del pontefice e del re cattolico, dalle quali dependeva la salute di
tutti gli stati loro; perché si sapeva pure che una grande parte aveva fatto la
pace col re di Francia, e che tra questi e gli altri che repugnavano erano
molte contenzioni. Finalmente fu deliberato che il giorno prossimo tutti due
gli eserciti, espediti, senza alcuna bagaglia, passassino il Po, lasciate bene
guardate Parma e Piacenza per timore dello esercito viniziano; i cavalli
leggieri del quale avevano, in quegli dì, scorso e predato per il paese. La
quale [deliberazione], secondo che allora credettono molti, da niuna delle
parti fu fatta sinceramente; pensando ciascuno, col simulare di volere passare,
trasferire la colpa nell'altro senza mettere se stesso in pericolo: perché il
viceré, insospettito per la andata di Cintio e sapendo quanto artificiosamente
procedeva nelle sue cose il pontefice, si persuadeva la volontà sua essere che
Lorenzo non procedesse più oltre; e Lorenzo, considerando quanto malvolentieri
il viceré metteva quello essercito in potestà della fortuna, faceva di altri
quel giudicio medesimo che da altri era fatto di sé. Cominciorno dopo il
mezzogiorno a passare per il ponte le genti spagnuole, dopo le quali doveano
incontinente passare gli ecclesiastici; ma avendo per il sopravenire della
notte differito necessariamente alla mattina seguente, non solamente non
passorno ma il viceré ritornò con l'esercito di qua dal fiume, per la relazione
di quattrocento cavalli leggieri i
quali, mandati parte dell'uno parte dell'altro esercito per sentire degli
andamenti degli inimici, rapportorno che il dì dinanzi erano entrate in Lodi
cento lancie de' franzesi: donde ritornati il viceré e Lorenzo agli alloggiamenti
primi, l'Alviano andò coll'esercito suo a Lodi.
Il re, in
questo tempo medesimo, andò da Marignano ad alloggiare a San Donato tre miglia
appresso a Milano; e i svizzeri si ridussono tutti a Milano; tra i quali,
essendo una parte aborrenti dalla guerra gli altri alieni dalla concordia, si
facevano spessi consigli e molti tumulti. Finalmente, essendo congregati
insieme, il cardinale sedunense, che ardentissimamente confortava il
perseverare nella guerra, cominciò con caldissime parole a stimolargli che
senza più differire uscissino fuora il giorno medesimo ad assaltare il re di
Francia, non avendo tanto innanzi agli occhi il numero de' cavalli e delle
artiglierie degli inimici che perturbasse la memoria della ferocia de' svizzeri
e delle vittorie avute contro a' franzesi.
- Dunque -
disse Sedunense - ha la nazione nostra sostenuto tante fatiche, sottopostasi a
tanti pericoli, sparso tanto sangue, per lasciare in uno dì solo tanta gloria
acquistata, tanto nome, agli inimici stati vinti da noi? Non son questi quegli
medesimi franzesi che accompagnati da noi hanno avute tante vittorie?
abbandonati da noi sono sempre stati vinti da ciascuno? Non sono questi quegli
medesimi franzesi che da piccola gente de' nostri furono l'anno passato rotti,
con tanta gloria, a Novara? Non sono eglino quegli che spaventati dalla nostra
virtù, confusi dalla loro grandissima viltà, hanno esaltato insino al cielo il
nome degli elvezi, chiaro quando eravamo congiunti con loro, ma fatto molto più
chiaro poi che ci separammo da loro? Non avevano quegli che furono a Novara né
cavalli né artiglierie, avevano la speranza propinqua del soccorso, e
nondimeno, credendo a Mottino, ornamento e splendore degli elvezi, assaltatigli
valorosamente a' loro alloggiamenti, andati a urtare le loro artiglierie, gli
roppono, ammazzati tanti fanti tedeschi che nella uccisione loro straccorono
l'armi e le braccia: e voi credete che ora ardischino di aspettare quarantamila
svizzeri, esercito sì valoroso e sì potente che sarebbe bastante a combattere
alla campagna con tutto il resto del mondo unito insieme? Fuggiranno,
credetemi, alla sola fama della venuta nostra; non avendo avuto ardire di
accostarsi a Milano per confidenza della loro virtù ma solo per la speranza delle
vostre divisioni. Non gli sosterrà la persona o la presenza del re, perché, per
timore di non mettere in pericolo o la vita o lo stato, sarà il primo a cercare
di salvare sé e dare esempio agli altri di fare il medesimo. Se con questo
esercito, cioè con le forze di tutta Elvezia, non ardirete di assaltargli, con
quali forze vi rimarrà egli speranza di potere resistere loro? A che fine siamo
noi scesi in Lombardia, a che fine venuti a Milano, se volevamo avere paura
dello scontro degli inimici? Dove sarebbeno le magnifiche parole, le feroci
minaccie usate tutto questo anno? quando ci vantavamo di volere di nuovo
scendere in Borgogna, quando ci rallegravamo dello accordo del re di
Inghilterra, della inclinazione del pontefice a collegarsi col re di Francia,
riputando a gloria nostra quanti più fussino uniti contro allo stato di Milano?
Meglio era non avere avute questi anni sì onorate vittorie, non avere cacciato
i franzesi d'Italia, essersi contenuti ne' termini della nostra antica fama, se
poi tutti insieme, ingannando l'espettazione di tutti gli uomini, avevamo a
procedere con tanta viltà. Hassi oggi a fare giudicio da tutto il mondo se
della vittoria di Novara fu cagione o la nostra virtù o [la] fortuna: se
mostreremo timore degli inimici sarà da tutti attribuita o a caso o a temerità,
se useremo la medesima audacia, confesserà ciascuno essere stata virtù; e
avendo, come senza dubbio aremo, il medesimo successo, saremo non solamente
terrore della età presente ma in venerazione ancora de' posteri, dal giudicio e
dalle laudi de' quali sarà il nome de' svizzeri anteposto al nome de' romani.
Perché di loro non si legge che mai usassino una audacia tale, né che mai
conseguissino vittoria alcuna con tanto valore, né che mai senza necessità
eleggessino di combattere contro agli inimici con tanto disavvantaggio; e di
noi si leggerà la battaglia fatta presso a Novara, dove con poca gente, senza
artiglierie senza cavalli, mettemmo in fuga uno esercito poderoso e ordinato di
tutte le provisioni e guidato da due famosi capitani, l'uno senza dubbio il
primo di tutta Francia l'altro il primo di tutta Italia. Leggerassi la giornata
fatta a San Donato, con le medesime difficoltà dalla parte nostra, contro alla
persona d'uno re di Francia, contro a tanti fanti tedeschi: i quali quanto più
numero sono tanto più sazieranno l'odio nostro, tanto maggiore facoltà ci
daranno di spegnere in perpetuo la loro milizia, tanto più si asterranno da
volere temerariamente fare concorrenza nell'armi co' svizzeri. Non è certo,
anzi per molte difficoltà pare impossibile, che il viceré e le genti della
Chiesa si unischino con noi: però, a che proposito aspettargli? Né è necessaria
la loro venuta, anzi ci debbe essere grato questo impedimento, perché la gloria
sarà tutta nostra, saranno tutte nostre tante spoglie tante ricchezze che sono
nello esercito inimico. Non volle Mottino che la gloria si comunicasse, non che
a altri, a' nostri medesimi; e noi saremo sì vili, sì disprezzatori della
nostra ferocia che, quando bene potessino venire a unirsi, volessimo aspettare
di comunicare tanta laude tanto onore co' forestieri? Non ricerca la fama de'
svizzeri, non ricerca lo stato delle cose che si usi più dilazione o si facci
più consigli. Ora è necessario uscire fuora, ora ora è necessario di andare ad
assaltare gli inimici. Hanno a consultare i timidi, che pensano non a opporsi
a' pericoli ma a fuggirgli, ma a gente feroce e bellicosa come la vostra
appartiene presentarsi allo inimico subito che si è avuto vista di lui. Però,
con l'aiuto di Dio che con giusto odio perseguita la superbia de' franzesi,
pigliate con la consueta animosità le vostre picche, date ne' vostri tamburi;
andianne subito senza interporre una ora di tempo, andiamo a straccare l'armi
nostre, a saziare il nostro odio col sangue di coloro che per la superbia loro
vogliono vessare ognuno ma per la loro viltà restano sempre in preda di
ciascuno.-
Incitati da
questo parlare, prese subito furiosamente le loro armi, e come furono fuora
della porta Romana messisi co' loro squadroni in ordinanza, ancor che non
restasse molto del giorno, si avviano verso l'esercito franzese, con tanta
allegrezza e con tanti gridi che chi non avesse saputo altro arebbe tenuto per
certo che avessino conseguito qualche grandissima vittoria; i capitani
stimolavano i soldati a camminare, i soldati gli ricordavano che a qualunque
ora si accostassino allo alloggiamento degli inimici dessino subito il segno
della battaglia; volere coprire il campo di corpi morti, volere quel giorno
spegnere il nome de' fanti tedeschi, e di quegli massime che, pronosticandosi
la morte, portavano per segno le bande nere. Con questa ferocia accostatisi
agli alloggiamenti de' franzesi, non restando più di due ore di quel dì,
principiorono il fatto d'arme, assaltando con impeto incredibile le artiglierie
e i ripari; col quale impeto, appena erano arrivati che avevano urtato e rotto
le prime squadre e guadagnata una parte dell'artiglierie: ma facendosi loro
incontro la cavalleria e una grande parte dello esercito, e il re medesimo
cinto da uno valoroso squadrone di gentiluomini, essendo alquanto raffrenato
tanto furore, si cominciò una ferocissima battaglia; la quale con vari eventi e
con gravissimo danno delle genti d'arme franzesi, le quali furono piegate si
continuò insino a quattro ore della notte, essendo già restati morti alcuni de'
capitani franzesi, e il re medesimo percosso da molti colpi di picche. Quivi,
non potendo più né l'una né l'altra parte tenere per la stracchezza l'armi in
mano, spiccatisi senza suono di trombe senza comandamento de' capitani, si
messono i svizzeri ad alloggiare nel campo medesimo, non offendendo più l'uno
l'altro ma aspettando, come con tacita tregua, il prossimo sole; ma essendo
stato tanto felice il primo assalto de' svizzeri, a' quali il cardinale fece,
come furno riposati, condurre vettovaglie da Milano, che per tutta Italia
corsono i cavallari a significare i svizzeri avere messo in fuga l'esercito
degli inimici.
Ma non consumò
inutilmente il re quel che avanzava della notte; perché, conoscendo la
grandezza del pericolo, attese a fare ritirare a' luoghi opportuni e a l'ordine
debito l'artiglierie, a fare rimettere in ordinanza le battaglie de'
lanzchenech e de' guasconi, e la cavalleria ai suoi squadroni. Sopravenne il dì:
al principio del quale i svizzeri, disprezzatori non che dello esercito
franzese ma di tutta la milizia d'Italia unita insieme, assaltorono con
l'impeto medesimo e molto temerariamente gli inimici; da' quali raccolti
valorosamente, ma con più prudenza e maggiore ordine, erano percossi parte
dalle artiglierie parte dal saettume de' guasconi, assaltati ancora da i
cavalli, in modo che erano ammazzati da fronte e dai lati. E sopravenne, in sul
levare del sole, l'Alviano; il quale, chiamato la notte dal re, messosi subito
a cammino co' cavalli leggieri e con una parte più espedita dello esercito, e
giunto quando era più stretto e più feroce il combattere e le cose ridotte in
maggiore travaglio e pericolo, seguitandolo dietro di mano in mano il resto
dello esercito, assaltò con grande impeto i svizzeri alle spalle. I quali,
benché continuamente combattessino con grandissima audacia e valore, nondimeno,
vedendo sì gagliarda resistenza e sopragiugnere l'esercito viniziano, disperati
potere ottenere la vittoria, essendo già stato più ore sopra la terra il sole,
sonorono a raccolta; e postesi in sulle spalle l'artiglierie che aveano
condotte seco voltorno gli squadroni, ritenendo continuamente la solita
ordinanza e camminando con lento passo verso Milano: e con tanto stupore de'
franzesi che, di tutto l'esercito, niuno né de' fanti né de' cavalli ebbe
ardire di seguitargli. Solo due compagnie delle loro, rifuggitesi in una villa,
vi furono dentro abbruciate da i cavalli leggieri de' viniziani. Il rimanente
dello esercito, intero nella sua ordinanza e spirando la medesima ferocia nel
volto e negli occhi, ritornò in Milano; lasciati per le fosse, secondo dicono
alcuni, quindici pezzi di artiglieria grossa, che avevano tolto loro nel primo
scontro, per non avere comodità di condurla.
Affermava il
consentimento comune di tutti gli uomini non essere stata per moltissimi anni
in Italia battaglia più feroce e di spavento maggiore; perché, per l'impeto col
quale cominciorono l'assalto i svizzeri e poi per gli errori della notte,
confusi gli ordini di tutto l'esercito e combattendosi alla mescolata senza
imperio e senza segno, ogni cosa era sottoposta meramente alla fortuna; il re
medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più dalla
virtù propria e dal caso che dall'aiuto de' suoi; da' quali molte volte, per la
confusione della battaglia e per le tenebre della notte, era stato abbandonato.
Di maniera che il Triulzio, capitano che avea vedute tante cose, affermava
questa essere stata battaglia non d'uomini ma di giganti; e che diciotto
battaglie alle quali era intervenuto erano state, a comparazione di questa,
battaglie fanciullesche. Né si dubitava che se non fusse stato l'aiuto delle
artiglierie era la vittoria de' svizzeri, che, entrati nel primo impeto dentro
a' ripari de' franzesi, tolto la più parte delle artiglierie, avevano sempre
acquistato di terreno; né fu di poco momento la giunta dell'Alviano, che
sopravenendo in tempo che la battaglia era ancor dubbia dette animo a i franzesi
e spavento a i svizzeri, credendo essere con lui tutto l'esercito viniziano. Il
numero de' morti, se mai fu incerto in battaglia alcuna, come quasi sempre è in
tutte, fu in questa incertissimo; variando assai gli uomini nel parlarne, chi
per passione chi per errore. Affermorono alcuni essere morti de' svizzeri più
di quattordicimila; altri dicevano di dieci, i più moderati di ottomila, né
mancò chi volesse ristrignergli a tremila; capi tutti ignobili e di nomi
oscuri. Ma de' franzesi morirno, nella battaglia della notte, Francesco
fratello del duca di Borbone, Imbricort, Sanserro, il principe di Talamonte
figliuolo del la Tramoglia, Boisì nipote già del cardinale di Roano, il conte
di Sasart, Catelart di Savoia, Busichio e Moia che portava la insegna de' gentiluomini
del re; tutte persone chiare per nobiltà e grandezza di stati o per avere gradi
onorati nello esercito. E del numero de' morti di loro si parlò, per le
medesime cagioni, variamente; affermando alcuni esserne morti seimila, altri
che non più di tremila: tra' quali morirno alcuni capitani de' fanti tedeschi.
Ritirati che
furono i svizzeri in Milano, essendo in grandissima discordia o di convenire
col re di Francia o di fermarsi alla difesa di Milano, quegli capitani i quali
prima avevano trattata la concordia, cercando cagione meno inonesta di
partirsi, dimandorono danari a Massimiliano Sforza, il quale era manifestissimo
essere impotente a darne; e dipoi tutti i fanti, confortandogli a questo Rostio
capitano generale, si partirono il dì seguente per andarsene per la via di Como
al paese loro, data speranza al duca di ritornare presto a soccorrere il
castello, nel quale rimanevano mille cinquecento svizzeri e cinquecento fanti
italiani. Con questa speranza Massimiliano Sforza, accompagnato da Giovanni da
Gonzaga e da Ieronimo Morone e da alcuni altri gentiluomini milanesi, si
rinchiuse nel castello, avendo consentito, benché non senza difficoltà, che
Francesco duca di Bari suo fratello se ne andasse in Germania; e il cardinale sedunense
andò a Cesare per sollecitare il soccorso, data la fede di ritornare innanzi
passassino molti dì; e la città di Milano, abbandonata d'ogni presidio, si
dette al re di Francia, convenuta di pagargli grandissima quantità di danari:
il quale recusò di entrarvi mentre si teneva per gli inimici il castello, come
se a re sia indegno entrare in una terra che non sia tutta in potestà sua. Fece
il re, nel luogo nel quale aveva acquistato la vittoria, celebrare tre dì
solenni messe, la prima per ringraziare Dio della vittoria, l'altra per
supplicare per la salute de' morti nella battaglia, la terza per pregarlo che
concedesse la pace; e nel luogo medesimo fece a perpetua memoria edificare una
cappella. Seguitorno la fortuna della vittoria tutte le terre e le fortezze del
ducato di Milano, eccetto il castello di Cremona e quello di Milano: alla
espugnazione del quale essendo preposto Pietro Navarra, affermava (non senza
ammirazione di tutti, essendo il castello fortissimo, abbondante di tutte le
provisioni necessarie a difendersi e a tenersi, e dove erano dentro più di
dumila uomini da guerra) di espugnarlo in minore tempo d'uno mese.
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