XXI. Monitorio del pontefice contro il duca di Urbino. Occupazione del
ducato da parte di Lorenzo de' Medici; resa delle fortezze. Investitura di
Lorenzo. Ragioni di sospetti e di malcontento del re di Francia riguardo al
pontefice.
In questi tempi
medesimi il pontefice, preparandosi di spogliare con l'armi del ducato di
Urbino Francesco Maria della Rovere, cominciò a procedere con le censure contro
a lui, publicato un munitorio nel quale si narrava che, essendo soldato della Chiesa,
denegandogli le genti per le quali avea ricevuto lo stipendio, si era convenuto
secretamente cogli inimici: l'omicidio antico del cardinale di Pavia, del quale
era stato assoluto per grazia non per giustizia; altri omicidi commessi da lui;
l'avere mandato, nel maggiore fervore della guerra tra 'l pontefice Giulio (del
quale era nipote, suddito e capitano) [e il re di Francia], Baldassarre da
Castiglione per condursi a' soldi del re; l'avere nel tempo medesimo negato il
passo ad alcune genti che andavano a unirsi coll'esercito della Chiesa, e
perseguitati, nello stato quale possedeva come feudatario della sedia
apostolica, i soldati della medesima sedia fuggiti del fatto d'arme di Ravenna.
Aveva il pontefice avuto nell'animo di muovergli, più mesi prima, la guerra,
movendolo, oltre alle ingiurie nuove, lo sdegno quando negò di aiutare il
fratello e lui a ritornare in Firenze; ma lo riteneva alquanto la vergogna di
perseguitare il nipote di colui per opera del quale era salita la Chiesa a
tanta grandezza, e molto più i prieghi di Giuliano suo fratello; il quale, nel
tempo dello esilio loro, dimorato molti anni nella corte di Urbino appresso il
duca Guido e, morto lui, appresso al duca presente, non poteva tollerare che da
loro medesimi fusse privato di quel ducato nel quale era stato sostentato e
onorato. Ma morto dopo lunga infermità Giuliano de' Medici in Firenze e
diventato vano il movimento di Cesare, il pontefice, stimolato da Lorenzo
nipote e da Alfonsina sua madre, cupidi di appropriarsi quello stato, deliberò
non tardare più; allegando per scusa della ingratitudine, la quale da molti era
rimproverata, non solamente l'offese ricevute da lui, le pene nelle quali
secondo la disposizione della giustizia incorreva uno vassallo contumace al suo
signore, uno soldato il quale obligatosi e ricevuti i danari denegava le genti
a chi l'aveva pagate, ma molto più essere pericoloso il tollerare, nelle
viscere del suo stato, colui il quale avendo cominciato, senza rispetto della
fede e dell'onore, a offenderlo, poteva essere certo che quanto maggiore si
dimostrasse l'occasione tanto più sarebbe pronto a fare per l'avvenire il
medesimo.
Il progresso di
questa guerra fu che, come Lorenzo, coll'esercito raccolto de' soldati e de'
sudditi della Chiesa e de' fiorentini, toccò i confini di quel ducato, la città
di Urbino e l'altre terre di quello stato si dettono volontariamente al
pontefice; consentendo il duca, il quale si era ritirato a Pesero, che, poi che
non gli poteva difendere, si salvassino. Fece e Pesero il medesimo, come
l'esercito inimico si fu accostato: perché, con tutto vi fussino tremila fanti,
la città fortificata e il mare aperto, Francesco Maria, lasciato nella rocca
Tranquillo da Mondolfo suo confidato e i capitani e i soldati nella terra, se
ne andò a Mantova, dove prima avea mandato la moglie e il figliuolo; o non si
confidando a soldati la maggiore parte non pagati o, come molti scusando il
timore con l'amore affermavano, impaziente di stare assente dalla moglie. Così
il ducato di Urbino, insieme con Pesero e con Sinigaglia, venne in quattro dì
soli alla ubbidienza della Chiesa, eccettuate le fortezze di Sinigaglia e di
Pesero, San Leo, e la rocca di Maiuolo. Arrendessi quasi immediate quella di
Sinigaglia; e quella di Pesero, benché fortissima, battuta due dì con
l'artiglierie, convenne di arrendersi se fra venti dì non era soccorsa, con
condizione che in quel mezzo non vi si facesse ripari né alcuna fortificazione:
il quale patto male osservato fu cagione che Tranquillo, non avendo avuto
soccorso infra il termine convenuto, recusò di consegnarla, e cominciato di
nuovo a tirare l'artiglierie assaltò la guardia di fuora. Ma era più dura la
sua condizione, perché, ritornatosene, avuta che fu la terra, Lorenzo a
Firenze, i capitani restati nello esercito avevano fatto trincee intorno alla
rocca e messo in mare certi navili per vietare non vi entrasse soccorso: però,
spirato il termine, si cominciò subito a batterla; ma il dì medesimo i soldati
che vi erano dentro, fatto tumulto contro a Tranquillo, lo dettono per salvare
sé ai capitani, da' quali in pena della sua contravenzione fu condannato al
supplicio delle forche. Arrendessi pochi dì poi la rocca di Maiuolo, luogo
necessario ad assediare San Leo, perché è vicina a un miglio e situata allo
opposito di quella. Intorno a San Leo furno messi duemila fanti che lo
tenessino assediato, perché per il sito suo fortissimo niuna speranza vi era di
ottenerlo se non per l'ultima necessità della fame; e nondimeno, tre mesi poi,
fu preso furtivamente per invenzione maravigliosa di uno maestro di legname il
quale, salito una notte per una lunghissima scala sopra uno dirupato che era
riputato il più difficile di quel monte, e fatta portare via la scala, dimorato
in quel luogo tutta la notte, cominciò, subito che apparì il dì, a salire con
certi ferramenti, tanto che si condusse insino alla sommità del monte; donde
scendendo, e con gli instrumenti di ferro facilitando alcuni de' luoghi più
difficili, la notte seguente, per la medesima scala, se ne ritornò agli
alloggiamenti: dove fatto fede potersi salire, ritornò la notte deputata per la
medesima scala, seguitandolo cento cinquanta fanti de' più eletti; co' quali
fermatosi in sul dirupato, come fu l'alba del dì, perché era impossibile salire
di notte più alto, cominciorno per quegli luoghi strettissimi a salire uno a
uno. Ed erano già montati alla sommità del monte circa trenta di loro con uno
tamburino e con sei insegne, e occultatisi in terra aspettavano i compagni che
montavano; ma essendo dì alto, una guardia che partiva dal luogo suo gli vidde
così prostrati in terra, e avendo levato il romore, essi vedutisi scoperti, non
aspettati altrimenti i compagni, dettono il cenno come erano convenuti a quegli
del campo: i quali, secondo l'ordine dato, assaltorono subito con molte scale
il monte da molte parti, per divertire quegli di dentro. I quali, correndo
ciascuno a' luoghi ordinati spaventati per vedere già dentro sei insegne che
scorrevano il piano del monte e avevano morto qualcuno di loro, si rinchiusono
nella fortezza, che è murata nel monte: dove essendo già saliti degli altri
dopo i primi, apersono la porta per la quale si entrava in sul monte; per la
quale entrati gli altri che ancora non erano saliti, e così preso il monte,
quegli che erano nella rocca, benché la fusse bene proveduta di ogni cosa, si
arrenderono il secondo dì. Acquistato con l'armi quello stato, che insieme con
Pesero e Sinigaglia, membri separati dal ducato di Urbino, non era di entrata
di più di venticinquemila ducati, Leone, seguitando il processo cominciato, ne
privò per sentenza Francesco Maria, e di poi ne investì nel concistorio Lorenzo
suo nipote; aggiugnendo, per maggiore validità, alla bolla espedita sopra
questo atto la soscrizione della propria mano di tutti i cardinali. Co' quali
non volle concorrere Domenico Grimanno vescovo di Urbino, e molto amico di quel
duca: donde temendo lo sdegno del pontefice partì, pochi dì poi, da Roma; né vi
ritornò mai se non dopo la sua morte.
Era stata
molesta al re di Francia l'oppressione del duca di Urbino, spogliato per quel
che aveva trattato seco: erangli più moleste molte opere del pontefice. Perché
essendosi Prospero Colonna, quando ritornava di Francia, fermato a Busseto
terra de' Palavicini, e dipoi per sospetto de' franzesi venuto a Modona, dove
medesimamente era rifuggito Ieronimo Morone, insospettito de' franzesi, che
contro alle promesse fatte gli aveano comandato che andasse in Francia,
trattavano continuamente, mentre che Prospero stette a Modona e poi a Bologna,
di occupare per mezzo di alcuni fuorusciti furtivamente qualche luogo
importante del ducato di Milano; concorrendo alle medesime pratiche Muzio
Colonna, a cui il pontefice, conscio di queste cose, avea consentito
alloggiamento per la compagnia sua nel modonese. Aveva inoltre il pontefice
confortato il re cattolico (così dopo la morte dell'avolo materno si chiamava
l'arciduca) che non facesse nuove convenzioni col re di Francia; e appresso a'
svizzeri Ennio vescovo di Veroli nunzio apostolico, che poi quasi decrepito fu
promosso al cardinalato, oltre a molti altri offici molesti al re confortava i
cinque cantoni a seguitare l'amicizia di Cesare. Onde trattandosi nel medesimo
tempo tra Cesare, il quale fermatosi tra Trento e Spruch spaventava più i
franzesi con le dimostrazioni che con gli effetti, e il re di Inghilterra e i
svizzeri che di nuovo si assaltasse il ducato di Milano, temeva il re di
Francia che queste [cose] non si trattassino con volontà del pontefice; del
quale appariva anche in altro il malo animo, perché con varie eccezioni
interponeva difficoltà nel concedergli la decima de' benefici del regno di
Francia promessagli a Bologna. E nondimeno (tanta è la maestà del pontificato)
il re si ingegnava di placarlo con molti offici: onde, volendo, dopo la partita
di Cesare, molestare, per trarne danari, la Mirandola, Carpi e Coreggio come
terre imperiali, se ne astenne per le querele del pontefice, che prima avea
ricevuti i signori di quelle terre in protezione; e infestando i mori d'Affrica
con molti legni il mare di sotto, gli offerse di mandare, per sicurtà di quelle
marine, molti legni che Pietro Navarra armava a Marsilia di consentimento suo,
per assaltare, solo per la speranza di predare, con seimila fanti i liti della
Barberia. E nondimeno il pontefice, perseverando nella sentenza sua, con tutto
che parte negasse parte scusasse queste cose, non consentì mai non che altro
alla sua dimanda, fatta con grande instanza, di rimuovere il vescovo verulano
del paese de' svizzeri; né mai rimosse Muzio Colonna del modonese, ove fingeva
essere alloggiato di propria autorità, se non quando, partito Prospero da
Bologna e rimaste vane tutte le cose che si trattavano, non era più di momento
alcuno la stanza sua. Al quale fu infelicissimo il partirsi, perché non molto
poi, entrato con le forze de' Colonnesi e con alcuni fanti spagnuoli
furtivamente di notte in Fermo, morì in spazio di pochi giorni d'una ferita
ricevuta la notte medesima mentre dava opera a saccheggiare quella città.
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