XII. Aspirazione del re di Francia e del re di Spagna all'impero. Speranze
dell'uno e dell'altro sovrano. Preoccupazioni e prudenza del pontefice.
Allestimento di armate da parte dei due re e simulazione d'amicizia. Morte di
Lorenzo de' Medici; il ducato d'Urbino passa alla sedia apostolica.
Morto
Massimiliano, cominciorno ad aspirare allo imperio apertamente il re di Francia
e il re di Spagna: la quale controversia, benché fusse di cosa sì importante e
tra prìncipi di tanta grandezza, nondimeno fu esercitata tra loro modestamente,
non procedendo né a contumelie di parole né a minaccie d'armi ma ingegnandosi
ciascuno, con l'autorità e mezzi suoi, tirare a sé gli animi degli elettori.
Anzi il re di Francia, molto laudabilmente, parlando sopra questa elezione con
gli imbasciadori del re di Spagna, disse essere commendabile che ciascuno di
loro cercasse onestamente di ornarsi dello splendore di tanta degnità, la quale
in diversi tempi era stata nelle case delle persone e degli antecessori loro;
ma non per questo doverselo l'uno di loro ripigliare dall'altro per ingiuria,
né diminuirsi per questo la benivolenza e congiunzione, anzi dovere seguitare
lo esempio che qualche volta si vede di due giovani amanti che, benché amino
una dama medesima e si sforzi ciascuno di loro, con ogni arte e industria
possibile, di ottenerla, non per questo vengono tra loro a contenzione.
Pareva al re di
Spagna appartenersegli lo imperio debitamente per essere continuato molti anni
nella casa di Austria, né essere stato costume degli elettori privarne i
discendenti del morto senza evidente cagione della inabilità loro. Non era
alcuno in Germania di tanta autorità e potenza che avesse a competere seco in
questa elezione, né gli pareva giusto o verisimile che gli elettori avessino a
trasferire in uno principe forestiero tanta degnità continuata già molti secoli
nella nazione germanica; e quando alcuno, corrotto con danari o per altra
cagione, fusse di intenzione diversa, sperava e di spaventargli con le armi
preparate in tempo opportuno e che gli altri elettori se gli opporrebbono, e
almanco che tutti gli altri prìncipi e l'altre terre franche di Germania non
tollererebbono tanta infamia e ignominia di tutti, e massime trattandosi di
trasferirla nella persona d'uno re di Francia, con accrescere la potenza d'uno
re inimico alla loro nazione e donde si poteva tenere per certo che quella
degnità non ritornerebbe mai in Germania. Stimava facile ottenere la perfezione
di quello che era già stato trattato collo avolo, essendo già convenuto de'
premi e de' donativi con ciascuno degli elettori. Da altra parte non era minore
né la cupidità né la speranza del re di Francia, fondata principalmente in
sulla credenza dello acquistare con grandissima somma di danari i voti degli
elettori; de' quali alcuni, congiunti seco per antica amicizia e
intrattenimento, mostrandogli la facilità della cosa, lo incitavano a farne
impresa: la quale speranza (come sono pronti gli uomini a persuadersi quello
che desiderano) nutriva con ragioni più presto apparenti che vere. Perché
sapeva che ordinariamente a' prìncipi di Germania era molesto che gl'imperadori
fussino molto potenti, per il sospetto che non volessino in tutto o in qualche
parte riconoscere le giurisdizioni e autorità imperiali occupate da molti; e
però si persuadeva che in modo alcuno non fussino per consentire alla elezione
del re di Spagna, sottomettendosi da se medesimi a uno imperadore più potente
che dalla memoria degli antichi in qua fusse stato imperadore alcuno, cosa che
non pareva al tutto simile in lui, perché non avendo stati né aderenze antiche
in Germania non potevano avere tanto sospetta la sua grandezza: per la quale
ragione, comune similmente alle terre franche, stimava non solo contrapesarsi
ma opprimersi il rispetto della gloria della nazione, come sogliono comunemente
potere più negli uomini senza comparazione gli stimoli dello interesse proprio
che il rispetto del beneficio comune. Eragli noto essere molestissimo a molte
case illustri in Germania, che pretendevano essere capaci di quella degnità,
che lo imperio fusse continuato tanti anni in una casa medesima, e che quello
che oggi a l'una domani a l'altra dovevano dare per elezione fusse cominciato,
quasi per successione, a perpetuarsi in una stirpe medesima; e potersi chiamare
successione quella elezione che non ardiva discostarsi da' più prossimi della
stirpe degli imperadori: così da Alberto d'Austria essere passato lo imperio in
Federigo suo fratello, da Federigo in Massimiliano suo figliuolo, e ora
trattarsi di trasferirlo da Massimiliano nella persona di Carlo suo nipote. I
quali umori e indegnazioni de' prìncipi di Germania gli davano speranza che le
discordie ed emulazioni tra loro medesimi potessino aiutare la causa sua,
accadendo spesso nelle contenzioni che chi vede escluso sé, o chi è favorito da
sé, si precipiti, posposti tutti i rispetti, più presto a qualunque terzo che
cedere a chi è stato opposito alla sua intenzione. Sperò oltre a questo il re
di Francia nel favore del pontefice, così per la congiunzione e benivolenza che
gli pareva avere contratta seco come perché non credeva che a lui potesse
piacere che Carlo, principe di tanta potenza e che, contiguo col regno di
Napoli allo stato della Chiesa, aveva per l'aderenza de' baroni ghibellini
aperto il passo insino alle porte di Roma, conseguisse anche la corona dello
imperio; non considerando che questa ragione, verissima contro a Carlo,
militava ancora contro a lui: perché e al pontefice e a ciascuno altro non
aveva a essere manco formidoloso lo imperio congiunto in lui che in Carlo; con
ciò sia che se l'uno di loro possedeva forse più regni e più stati, l'altro non
era da stimare manco, perché non aveva sparsa e divulsa in vari luoghi la sua
potenza ma il regno tutto raccolto e unito insieme, con ubbidienza maravigliosa
de' popoli suoi e pieno di grandissime ricchezze. Nondimeno, non conoscendo in
sé quello che facilmente considerava in altri, ricorse al pontefice
supplicandolo volesse dargli favore, perché di sé e de' regni suoi si potrebbe
valere come di proprio figliuolo.
Premeva
grandissimamente il pontefice la causa di questa elezione, essendogli
molestissimo, per la sicurtà della sedia apostolica e del resto di Italia,
qualunque de' due re fusse assunto allo imperio; né essendo tale l'autorità sua
appresso agli elettori che sperasse con quella potere giovare molto, giudicò
essere necessario adoperare in cosa di tanto momento la prudenza e le arti.
Persuadevasi che il re di Francia, ingannato da qualcuno degli elettori, non
avesse parte alcuna in questa elezione; né avere, benché in uomini venali, a
potere tanto le corruttele che avessino sì disonestamente a trasferire lo
imperio dalla nazione germanica nel re di Francia. Parevagli che al re di
Spagna, per essere della medesima nazione, per le pratiche cominciate da
Massimiliano e per molti altri rispetti, fusse molto facile conseguire lo
intento suo, se non se gli faceva opposizione molto potente; la quale giudicava
non potere farsi in altro modo se non che il re di Francia si disponesse a
voltare in uno degli elettori quelli medesimi favori e danari che usava per
eleggere sé. Parevagli impossibile indurre il re a questo mentre che era nel
fervore delle speranze vane; però sperava che quanto più ardentemente e con più
speranza si ingolfasse in questa pratica tanto più facilmente, quando
cominciasse ad accorgersi riuscirgli vani i pensieri suoi, trovandosi già
scoperto e irritato, e in su la gara, aversi a precipitare a favorire la elezione
d'uno terzo con non minore ardore che avesse favorito quella di se medesimo; e
potere in questo tempo, acquistata che avesse fede col re di essergli
favorevole e d'avere desiderato quel medesimo che lui, essere udita l'autorità
e il consiglio suo; e potere similmente accadere, favorendosi gagliardamente
ne' princìpi le cose del re di Francia, che l'altro re, veduto difficultarsi il
desiderio suo e dubitando che il re avversario non vi avesse qualche parte, si
precipitasse medesimamente a uno terzo. Però non solo dimostrò al re di Francia
di avere sommo desiderio che in lui pervenisse lo imperio, ma lo confortò con
molte ragioni a procedere vivamente in questa impresa, promettendogli
amplissimamente di favorirlo con tutta la autorità del pontificato. Né parendogli
potere fare maggiore impressione, che questa fusse la sua intenzione, che usare
in questa azione uno instrumento il quale il re di Francia giudicasse dependere
più da sé che da altri, destinò subitamente nunzio suo in Germania Ruberto
Orsino arcivescovo di Reggio, persona confidente al re: con commissione che, e
da per sé e insieme con gli agenti che vi erano per il re, favorisse quanto
poteva appresso agli elettori la sua intenzione: avvertendolo perciò a
procedere o con maggiore o con minore moderazione secondo che in Germania
trovasse la disposizione degli elettori e lo stato delle cose. Le quali azioni,
discorse dal pontefice prudentemente e coperte con somma simulazione, arebbono
avuto bisogno che nel re di Francia e ne' ministri suoi che erano in Germania
fusse stata maggiore prudenza, e ne' ministri del pontefice maggiore gravità e
maggiore fede.
Ma mentre che
queste cose si trattano con le pratiche e non con le armi, il re di Francia
ordinò che Pietro Navarra uscisse in mare con una armata di venti galee e di
altri legni e con quattromila fanti pagati, sotto nome di reprimere le fuste
de' mori (le quali avendo già molti anni scorso senza ostacolo i nostri mari
scorrevano in questo anno medesimo più che mai) e di assaltare, se così paresse
al pontefice, i mori di Africa; ma principalmente perché il pontefice,
scopertosi totalmente per lui nella causa dello imperio, non avesse causa di
temere delle forze del re cattolico; il quale, più per timore che aveva di
essere offeso che per desiderio che avesse di offendere altri, preparava
sollecitamente una armata per mandarla alla custodia del reame di Napoli. E
nondimeno, in queste diffidenze e sospetti, continuandosi tra l'uno e l'altro
re nella simulazione di amicizia, si convennono in nome loro a Mompolieri il
gran maestro di Francia e monsignore di Ceures, in ciascuno de' quali
consisteva quasi tutto il consiglio e l'animo del suo re, per trattare sopra lo
stabilimento del matrimonio della seconda figliuola del re di Francia col re di
Spagna; e molto più per risolvere le cose del reame di Navarra, la restituzione
del quale all'antico re, promessa nella concordia fatta a Noion, benché molto
sollecitata dal re di Francia, era stata insino a quel dì differita dal re di
Spagna con varie escusazioni: ma la morte del gran maestro, succeduta innanzi
parlassino insieme, interroppe la speranza di questa andata.
Morì in questo
tempo Lorenzo de' Medici, oppressato da infermità quasi continua da poi che,
consumato con infelici auspici il matrimonio, era ritornato di Francia; perché,
e pochissimi dì innanzi alla morte sua la moglie, avendo partorito, gli aveva
morendo preparata la strada. Per la morte di Lorenzo, il pontefice, desideroso
di tenere congiunta, mentre viveva, la potenza de' fiorentini a quella della
Chiesa, disprezzati i consigli di alcuni che lo consigliavano che, non restando
più, eccetto lui, alcuno de' discendenti legittimi per linea mascolina di
Cosimo de' Medici fondatore di quella grandezza, restituisse alla sua patria la
libertà, propose il cardinale de' Medici alla amministrazione di quello stato;
o per desiderio di perpetuare il nome della sua casa o per odio, causato per
l'esilio, contro al nome della republica. E pensando che il ducato di Urbino si
potesse difficilmente, per l'amore de' popoli all'antico duca, tenere sotto
nome della figliuola restata unica di Lorenzo compresa nella investitura
paterna, lo restituì insieme con Pesero e Sinigaglia alla sedia apostolica: né
parendogli che questo bastasse a raffrenare l'ardore de' popoli, fece gittare
in terra le mura della città di Urbino e degli altri luoghi principali del
ducato, eccetto di Agobbio, alla quale città, per non essere, per la emulazione
che aveva con la città di Urbino, tanto inclinata con l'animo a Francesco
Maria, voltò favore e riputazione, costituendola come capo di quello ducato. Il
quale per indebolire tanto più, dette a' fiorentini, in pagamento de' danari
spesi per lui nella guerra d'Urbino, de' quali gli aveva fatti prima creditori in
camera apostolica, la fortezza di Santo Leo con tutto il Montefeltro e il
pivieri di Sestina, che soleva essere territorio di Cesena: contentandosi poco
i fiorentini di questa sodisfazione ma non potendo opporsi alla sua volontà.
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