XVI. Giampaolo Baglioni invitato a Roma dal pontefice, incarcerato e
giustiziato. Nuove insidie del pontefice contro il duca di Ferrara.
Incoronazione di Cesare in Aquisgrana; sue ragioni di preoccupazione. Minaccie
di fanti spagnoli alle terre della Chiesa.
Non accadde
questo anno in Italia cosa degna di memoria: salvo che, essendo in Perugia
Giampaolo e Gentile della medesima famiglia de' Baglioni, o perché nascesse tra
loro contenzione o perché Giampaolo, non gli bastando avere più parte e più
autorità nel governo, volesse arrogarsi il tutto, cacciò Gentile di Perugia: il
che essendo molesto al pontefice, lo fece citare che personalmente comparisse a
Roma. Il quale, temendo a andarvi, mandò Malatesta suo figliuolo a giustificarsi,
e a offerire a essere presto a obbidire a tutti i suoi comandamenti: ma
instando pure il pontefice della venuta sua, poiché fu stato molti dì
perplesso, si risolvé a andare, confidatosi parte nella antica servitù che in
ogni tempo aveva avuto con la sua casa, parte persuaso da Cammillo Orsino suo
genero e da altri amici suoi; i quali, usando l'autorità loro e valendosi di
mezzi potenti appresso al pontefice, o ottennono fede espressa da lui (benché
non per scrittura) o almanco furono dal pontefice usate tali parole con somma
astuzia e fatte tali dimostrazioni che quegli che si confidavano potere
ritrarre da lui la mente sua gli dettono animo a comparire, dandosi a intendere
che egli potesse farlo sicuramente. Ma arrivato a Roma, trovò che il pontefice,
sotto specie di sue ricreazioni come altre volte era solito di fare, era andato
pochi dì innanzi in Castello Santo Angelo. Dove andando la mattina seguente
Giampaolo per presentarsegli fu, innanzi arrivasse al cospetto suo, incarcerato
dal castellano, e dipoi per giudici diputati esaminato rigorosamente confessò
molti gravissimi delitti, sì per cose attenenti alla conservazione della
tirannide come per piaceri nefandi e altri suoi interessi particolari; per i
quali, poi che fu stato in carcere più di due mesi, fu decapitato secondo
l'ordine della giustizia: movendosi, secondo si credette, il pontefice a questo
per avere, nella guerra d'Urbino, compreso per molti segni Giampaolo essere
d'animo alieno da lui, avere tenuto pratiche con Francesco Maria, né potere in
qualunque accidente gli sopravenisse fare fondamento fermo in lui, e
conseguentemente, mentre che egli era in quello stato, nelle cose di Perugia.
Le quali per riordinare a suo proposito, essendosi i figliuoli di Giampaolo
fuggiti come ebbono nuove della sua retenzione, dette quella legazione a Silvio
cardinale di Cortona, antico servidore e allievo suo; restituì Gentile in
Perugia, al quale donò i beni che erano stati posseduti da Giampaolo, e
appoggiandosi a uno subietto molto debole voltò la riputazione e grandezza a
lui.
Continuò
medesimamente questo anno il pontefice (attribuendo più al caso o alla poca
prudenza che ad altro l'occasione perduta del vescovo di Ventimiglia) di
tentare nuove insidie contro al duca di Ferrara, per mezzo di Uberto da Gambara
protonotario apostolico, con Ridolfel tedesco, capitano di alcuni fanti
tedeschi che Alfonso teneva alla sua guardia; il quale gli aveva promesso
dargli a suo piacere la entrata della porta di Castello Tialto. Dove potendo
pervenire le genti che si mandassino da Bologna e da Modena, senza avere a
passare il Po se non per il ponte di legname che è innanzi a quella porta, fu
dato ordine a Guido Rangone e al governatore di Modena che, raccolte certe
genti sotto altri colori, andassino allo improviso a occupare quella porta, per
difenderla tanto che giugnessino gli aiuti da Modena e da Bologna; dove era
posto ordine che la gente si movesse quasi popolarmente. Ma già statuito il dì
dello assaltarla, si scoperse che Ridolfel, a chi per ordine del pontefice
erano stati dati da Uberto da Gambara circa dumila ducati, aveva da principio
comunicato ogni cosa con Alfonso; il quale, poi che ebbe scoperto assai della
mente del pontefice e de' suoi disegni, non volendo che la cosa procedesse più
innanzi, tenne modo che la fraude di Ridolfel si publicasse.
In questo anno
medesimo passò Cesare, per mare, di Spagna in Fiandra; avendo nel passare, non
per necessità come aveva fatto il padre, ma volontariamente, toccato in
Inghilterra, per parlare con quel re col quale restò in buona concordia. Di
Fiandra andato in Germania ricevé, del mese d'ottobre, in Aquisgrana, città
nobile per l'antica residenza e per il sepolcro di Carlo Magno, con grandissimo
concorso, la prima corona, quella medesima, secondo che è la fama, con la quale
fu incoronato Carlo Magno; datagli, secondo il costume antico, con l'autorità
de' prìncipi di Germania. Ma questa sua felicità era turbata dagli accidenti
nati di nuovo in Spagna. Perché a' popoli di quei regni era stata molesta la
promozione sua allo imperio, perché conoscevano che, con grandissima incomodità
e detrimento di tutti, sarebbe per varie cagioni necessitato a stare non
piccola parte del tempo fuora di Spagna; ma molto più gli aveva mossi l'odio
grande che avevano conceputo contro alla avarizia di quegli che lo governavano,
massime contro a Ceures, il quale dimostratosi insaziabile aveva per tutte le
vie accumulato somma grandissima di danari; il medesimo, avevano fatto gli
altri fiamminghi, vendendo per prezzo a' forestieri gli uffici soliti darsi
agli spagnuoli, e facendo venali tutte le grazie privilegi ed espedizioni che
si dimandavano alla corte: in modo che, concitati tutti i popoli contro al nome
de' fiamminghi, avevano, alla partita di Cesare, tumultuato quegli di
Vagliadulit; e appena uscito di Spagna, sollevati tutti, non, secondo dicevano,
contro al re ma contro a' cattivi governatori, e comunicati insieme i consigli,
non prestando più ubbidienza agli offiziali regi, avevano fatta congregazione della
maggiore parte de' popoli: i quali, data forma al governo, si reggevano in nome
della santa giunta (così chiamavano il consiglio universale de' popoli). Contro
a' quali essendosi levati in arme i capitani e ministri regi, ridotte le cose
in manifesta guerra, erano tanto moltiplicati i disordini che Cesare
piccolissima autorità vi riteneva: donde in Italia e fuora cresceva la speranza
di coloro che arebbono desiderato diminuire tanta grandezza. Aveva nondimeno
l'armata sua acquistato contro a' mori l'isola delle Gerbe, e in Germania era
stata repressa in qualche parte la riputazione del re di Francia. Perché dando
egli, per notrire discordie in quella provincia, favore al duca di Vertimberg
discordante con la lega di Svevia, quegli popoli risentitisi potentemente lo
cacciorono del suo stato e acquistato che lo ebbono lo venderono a Cesare,
desideroso di abbassare i seguaci del re di Francia, obligandosi alla difesa
contro a qualunque lo molestasse. Per il che quello duca, trovandosi distrutto
sotto la speranza degli aiuti franzesi, fu necessitato ricorrere alla clemenza
di Cesare, e da lui accettare quelle leggi, che gli furono date: non rimesso
però per questo nella possessione del suo ducato.
Nella fine di
questo anno medesimo, circa tremila fanti spagnuoli stati più mesi in Sicilia,
non volendo ritornare in Spagna secondo il comandamento avuto da Cesare,
disprezzata l'autorità de' capitani, passorono a Reggio di Calavria; e
procedendo con fare per tutto gravissimi danni verso lo stato della Chiesa,
messono in grave terrore il pontefice (nell'animo del quale era fissa la
memoria degli accidenti di Urbino) che, o sollevati da altri prìncipi o
accompagnandosi con il duca Francesco Maria, co' figliuoli di Giampaolo
Baglione e con gli altri inimici della Chiesa, non suscitassino qualche
incendio: massime recusando le offerte fatte dal viceré di Napoli e da lui di
soldarne una parte, e agli altri fare donativo di danari. Dalle quali offerte
preso maggiore animo, si movevano verso il fiume del Tronto, non per il paese
stretto del Capitanato ma per il cammino largo di Puglia; e aggiugnendosi
continuamente altri fanti e qualche cavallo, diventavano sempre più
formidabili. Nondimeno, si risolvé più facilmente e più presto che gli uomini
non credevano questo movimento; perché passato il Tronto per entrare nella
Marca anconitana, nella quale il pontefice aveva mandate molte genti, e andati
a campo a Ripatransona, avendovi dato uno assalto gagliardo, perduti molti di
loro, furno costretti a ritirarsi: per il che, diminuiti molto di animo e di
riputazione, accettorono cupidamente da' ministri di Cesare condizioni molto
minori di quelle le quali prima avevano disprezzate.
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