LIBRO QUATTORDICESIMO.
I. L'anno 1521 porta nuove guerre, per la gelosia di due potentissimi re,
all'Italia, stata per tre anni in pace. Il pontefice assolda seimila svizzeri,
senza che alcuno sappia per quale impresa. Segreti accordi del pontefice col re
di Francia. Il regno di Navarra conquistato all'antico re. I successi dei
francesi determinano la concordia in Ispagna. Confederazione di Cesare e del
pontefice contro il re di Francia. Ragioni di Cesare sul ducato di Milano.
Sedato nel
principio dell'anno mille cinquecento ventuno questo piccolo movimento, temuto
più per la memoria fresca de' fanti spagnuoli che assaltorono lo stato d'Urbino
che perché apparissino cagioni probabili di timore, cominciorono, pochi mesi
poi, a perturbarsi le cose d'Italia, con guerre molto più lunghe maggiori e più
pericolose che le passate; stimolando l'ambizione di due potentissimi re, pieni
tra loro di emulazione di odio e di sospetto, a esercitare tutta la sua potenza
e tutti gli sdegni in Italia: la quale, stata circa tre anni in pace, benché
dubbia e piena di sospizione, pareva che avesse il cielo il fato proprio e la
fortuna o invidiosi della sua quiete o timidi che, riposandosi più lungamente,
non ritornasse nella antica felicità. Principio a nuovi movimenti dettono
quegli i quali, obligati più che gli altri a procurare la conservazione della
pace, più spesso che gli altri la perturbano, e accendono con tutta la
industria e autorità loro il fuoco; il quale, quando altro rimedio non
bastasse, doverebbono col proprio sangue procurare di spegnere. Perché, se bene
tra Cesare e il re di Francia crescessino continuamente le male inclinazioni,
nondimeno né avevano cagioni molto urgenti alla guerra presente né eccedevano
tanto l'uno l'altro di potenza in Italia né di alcuna opportunità che, senza compagnia
di qualcun altro de' prìncipi italiani, fussino bastanti a offendersi. Perché
il re di Francia, avendo congiunti seco i viniziani alla difesa dello stato di
Milano, ed essendo i svizzeri non pronti più a fare le guerre in nome proprio
ma disposti solamente a servire come soldati chi gli pagasse, non aveva cagione
di temere movimento alcuno di Cesare, né per via del reame di Napoli né per via
di Germania; né da altra parte aveva facilità di offendere Cesare nel reame di
Napoli, non concorrendo seco a quella impresa il pontefice; il quale ciascuno
di loro, con varie offerte e arti, si cercava di conciliare: in modo che si
credeva che se il pontefice, perseverando a stare di mezzo tra tutti due,
stesse vigilante e sollecito a temperare, con l'autorità pontificale e con la
fede che gli darebbe la neutralità, gli sdegni, e reprimere l'origine de'
consigli inquieti, si avesse a conservare la pace. Né si vedeva cagione che lo
necessitasse a desiderare o a suscitare la guerra, perché e prima aveva tentato
l'armi infelicemente e, amendue questi prìncipi tanto grandi, aveva da temere
parimente della vittoria di ciascuno di loro; conoscendosi chiaramente che
quello che rimanesse superiore non arebbe né ostacolo né freno a sottoporsi
tutta Italia. Possedeva tranquillamente e con grandissima ubbidienza lo stato
amplissimo della Chiesa, e Roma e tutta la corte era collocata in sommo fiore e
felicità, piena autorità sopra lo stato di Firenze, stato potente in quegli
tempi e molto ricco; ed egli per natura dedito all'ozio e a' piaceri, e ora per
la troppa licenza e grandezza alieno sopramodo dalle faccende, immerso a udire
tutto dì musiche facezie e buffoni, inclinato ancora troppo più che l'onesto a'
piaceri che si godevano con grande infamia, pareva dovesse essere totalmente
alieno dalle guerre. Aggiugnevasi che, avendo l'animo pieno di tanta
magnificenza e splendore che sarebbe stato maraviglioso se per lunghissima
successione fusse disceso di re grandissimi, né avendo nello spendere o nel
donare misura o distinzione, non solo aveva in breve tempo dissipato con
inestimabile prodigalità il tesoro accumulato da Giulio, ma avendo, delle
espedizioni della corte e di molte sorte di offici nuovi, escogitati per fare
danari, tratto quantità infinita di pecunia, aveva speso tanto eccessivamente
che era necessitato continuamente a pensare modi nuovi da sostenere le profuse
spese sue; nelle quali non solamente perseverava ma più presto augumentava. Non
aveva stimoli di fare grandi alcuni de' suoi; e se bene lo tormentasse il desiderio
di recuperare Parma e Piacenza e di acquistare Ferrara, nondimeno non parevano
cagioni bastanti a indurlo a rivolgere sottosopra lo stato quieto del mondo, ma
più presto a temporeggiare e ad aspettare l'opportunità e le occasioni. Ma è
vero quello che si dice: non hanno gli uomini maggiore inimico che la troppa
prosperità, perché gli fa impotenti di se medesimi, licenziosi e arditi al male
e cupidi di turbare il bene proprio con cose nuove. Lione, costituito in tale
stato, o riputandosi a grande infamia lo avere perduto Parma e Piacenza,
acquistate con tanta gloria da Giulio, o non potendo contenere lo appetito
ardente allo acquisto di Ferrara o parendogli, se moriva senza avere fatto
qualche cosa grande, lasciare infame la memoria del suo pontificato, o
dubitando, come diceva egli, che i due re, esclusi ciascuno dalla speranza di
averlo congiunto seco e per questo poco abili a offendersi insieme,
condiscendessino finalmente tra loro a qualche congiunzione che fusse a
depressione della Chiesa e di tutto il resto d'Italia, o sperando, come io udi'
poi dire al cardinale de' Medici conscio di tutti i suoi secreti, cacciati i
franzesi di Genova e del ducato di Milano, potere poi facilmente cacciare
Cesare del reame napoletano, vendicandosi quella gloria della libertà d'Italia
alla quale prima aveva manifestamente aspirato l'antecessore (cosa che non
potendo succedere a Leone con le proprie forze, sperava, mitigato prima in
qualche parte l'animo del re di Francia con eleggere qualche cardinale
desiderato da lui e col dimostrarsi pronto a concedergli delle altre grazie,
indurlo a dargli aiuto contro a Cesare, come se fusse per pigliare in luogo di
ristoro il sollazzo che a Cesare accadesse il medesimo che era accaduto a lui);
qualunque lo movesse di queste cagioni, o una o più o tutte insieme, voltò
tutti i pensieri alla guerra e a unirsi con uno di questi due prìncipi, e,
congiunto con lui, muovere in Italia l'armi contra a l'altro. A' quali pensieri
per trovarsi preparato, né potere intratanto essere oppresso da alcuno, mentre
trattava con ciascuno ma più strettamente col re di Francia, mandò in Elvezia
Antonio Pucci vescovo di Pistoia (il quale ottenne poi in altro tempo da lui la
degnità del cardinalato) a soldare e condurre nello stato della Chiesa seimila svizzeri;
i quali essendogli senza difficoltà conceduti da' cantoni, per la
confederazione che dopo la guerra di Urbino aveva rinnovata con loro, ottenuto
il passo per lo stato di Milano, gli condusse nel dominio della Chiesa,
intrattenendogli più mesi in Romagna e nelle Marche. Essendo incerto ciascuno a
che proposito, non essendo movimento alcuno in Italia, sostenesse oziosamente
tanta spesa, egli affermava avergli chiamati per potere vivere sicuramente,
sapendo che ogni dì erano da i ribelli della Chiesa macchinate cose nuove: la
quale cagione non parendo verisimile, cadevano ne' discorsi degli uomini vari
concetti: chi, che egli si fusse armato per timore che egli avesse del re di
Francia, chi per qualche disegno di occupare Ferrara, chi che avesse inclinazione
di cacciare Cesare del reame di Napoli. Ma tra lui e il re si trattava
secretamente di assaltare con l'armi congiunte insieme il regno napoletano, con
condizione che Gaeta e tutto quello che si contiene tra il fiume del Garigliano
e i confini dello stato ecclesiastico si acquistasse per la Chiesa, il resto
del regno fusse del secondogenito del re di Francia; il quale, per essere di
età minore, avesse a essere insino che e' fusse di età maggiore governato
insieme col reame da uno legato apostolico, che risedesse a Napoli. Conteneva
oltre a questo, la capitolazione che il re dovesse aiutarlo contro a' sudditi e
i feudatari della sedia apostolica, condizione appartenente allo stabilimento
delle cose possedute dalla Chiesa ma non meno alla cupidità che aveva il
pontefice di acquistare Ferrara.
Nel quale
tempo, molto opportunamente a questi disegni, il re di Francia, invitato dalla
occasione de' tumulti di Spagna e confortatone (secondo che poi querelandosi
affermava) dal pontefice, mandò uno esercito sotto Asparoth fratello di
Lautrech in Navarra, per recuperare quel regno al re antico; e nel tempo
medesimo [operò che] Ruberto della Marcia e il duca di Ghelleri cominciassino a
molestare i confini della Fiandra. Le discordie di Spagna feceno facile ad
Asparoth acquistare il regno di Navarra, destituto da ogni aiuto e nel quale
non era spenta la memoria del primo re: ma avendo con le artiglierie espugnata
la rocca di Pampalona, entrato ne' confini del regno di Castiglia, occupò
Fonterabia e corse insino a Logrogno; donde, come spesso avviene nelle cose
umane, giovò a Cesare quel che gli uomini avevano creduto dovergli nuocere.
Perché le cose di Spagna, travagliate insino a quel dì con vari progressi,
erano ridotte in grandissime turbolenze: essendo da una parte congiunti i
popolari e plebei, dall'altra avendo prese l'armi in beneficio di Cesare molti
signori, i quali per lo interesse degli stati temevano la licenza popolare: la
quale proceduta a manifesta ribellione, desiderosa di avere capo di autorità,
aveva tratto della rocca di Sciativa il duca di Calavria; il quale, ricusando
di pigliare l'armi contro a Cesare, non volle discostarsi dalla carcere. Ma
l'essere assaltato il regno proprio di Castiglia dal re di Francia commosse in
modo gli animi de' popoli, i quali senza dispiacere avevano tollerata la
perdita del regno di Navarra, benché diventato per la unione fatta dal re
cattolico membro de' regni loro, che, parte per questa cagione parte per
qualche prospero successo che aveva avuto l'esercito cesareo, tutto il reame di
Spagna, deposte più facilmente le contenzioni tra loro medesimi, ritornò
all'obbedienza del suo re.
Alla prosperità
del re di Francia, per la vittoria così facile del reame di Navarra, si
aggiunse, se avesse saputo usare la occasione, maggiore successo; perché i
svizzeri, appresso a' quali erano gli imbasciadori suoi e di Cesare,
sforzandosi ciascuno di essi di congiugnersi con loro, rifiutata, contro la
opinione di molti e contro la intenzione che avevano data, l'amicizia di
Cesare, abbracciorono la congiunzione col re di Francia, obligandosi a
concedere agli stipendi suoi quanti fanti volesse, a qualunque impresa, e di
non ne concedere ad alcuno altro per usargli a offesa di quello re.
Restava la
esecuzione della capitolazione fatta a Roma tra il pontefice e lui: della quale
essendogli ricercata la ratificazione, cominciò a stare sospeso, essendogli
messo sospetto da molti che, atteso la duplicità del pontefice e l'odio che,
assunto al pontificato, gli aveva continuamente dimostrato, era da dubitare di
qualche fraude. Non essere verisimile che il pontefice desiderasse che in lui o
ne' figliuoli pervenisse il reame di Napoli, perché avendo quello regno e il
ducato di Milano temerebbe troppo la sua potenza: per certo, tanta benivolenza
scopertasi così di subito non essere senza misterio. Avvertisse bene alle cose
sue dagli inganni, e che credendo acquistare il regno di Napoli non perdesse lo
stato di Milano; perché mandando lo esercito a Napoli, sarebbe in potestà del
pontefice che aveva seimila svizzeri, intendendosi co' capitani di Cesare,
disfarlo, e disfatto quello, che difesa rimanere a Milano? Né essere da
maravigliarsi che il pontefice, avendo tentato che con le forze gli fusse tolto
quel ducato, disperato di poterlo ottenere altrimenti, cercasse privarnelo con
gli inganni. Queste ragioni commossono il re in modo che, stando dubbio del
ratificare e forse aspettando risposta di altre pratiche, non avvisava a Roma
cosa alcuna, lasciando sospesi il pontefice e gli imbasciadori suoi. Ma il
pontefice, o perché veramente, governandosi con le simulazioni consuete, avesse
l'animo alieno dal re o perché, come vidde passati tutti i termini del
rispondere, sospettasse di quel che era, e temesse che il re non scoprisse a
Cesare le sue pratiche e che tra loro per questo potesse nascere congiunzione
in pregiudicio suo, concitato ancora dal desiderio ardente che aveva di
ricuperare Parma e Piacenza e di fare qualche cosa memorabile, sdegnato oltre a
questo dalla insolenza di Lautrech e del vescovo di Tarba suo ministro, i quali
non ammettendo nello stato di Milano alcuno comandamento o provisioni
ecclesiastiche le dispregiavano con superbissime e insolentissime parole,
deliberò di congiugnersi, contro al re di Francia, con Cesare. Il quale,
irritato dalla guerra di Navarra, stimolato da molti fuorusciti di Milano,
commosso ancora da alcuni del consiglio suo desiderosi di abbassare la
grandezza di Ceures, che aveva sempre dissuaso il separarsi dal re di Francia,
si risolvé a confederarsi col pontefice contro al re; alla qual cosa si crede
lo facesse accelerare la speranza di potere facilmente, con l'autorità del
pontefice e con la sua, indebolire la lega fatta co' svizzeri, innanzi che con
doni e con gratificarsegli la consolidasse. Indusse anche a maggiore confidenza
l'animo del pontefice che Cesare, avendo udito nella dieta di Vuormazia Martino
Luther, chiamato da lui sotto salvocondotto, e fatto esaminare le cose sue da
molti teologi, i quali avevano referito essere dottrina erronea e perniciosa
alla religione cristiana, gli dette per gratificare al pontefice il bando
imperiale. La qual cosa spaventò tanto Martino che, se le parole ingiuriose e
piene di minacci che gli disse il cardinale di San Sisto legato apostolico non
lo avessino condotto a ultima disperazione, si crede sarebbe stato facile,
dandogli qualche degnità o qualche modo onesto di vivere, farlo partire dagli
errori suoi. Ma quello che si sia di questo, fu fatta tra il pontefice e
Cesare, senza saputa di Ceures il quale insino a quel tempo aveva avuto in lui
somma autorità, e il quale opportunamente morì quasi ne' medesimi dì,
confederazione a difesa comune, eziandio della casa de' Medici e de'
fiorentini: con aggiunta [di] rompere la guerra nello stato di Milano, in
quegli tempi e modi che insieme convenissino: il quale acquistandosi, restasse
alla Chiesa Parma e Piacenza, che le tenesse con quelle ragioni con le quali le
aveva tenute innanzi, e che, atteso che Francesco Sforza, che era esule a
Trento, pretendeva ragione nello stato di Milano per la investitura paterna e
per la rinunzia del fratello, che acquistandosi fusse messo alla possessione,
obligati i collegati a mantenervelo e difendervelo; che il ducato di Milano non
consumasse altri sali che quegli di Cervia: permesso al papa non solo di
procedere contro a' sudditi e feudatari suoi, ma obligato eziandio Cesare,
acquistato che fusse lo stato di Milano, ad aiutarlo contro a loro; e
nominatamente allo acquisto di Ferrara. Fu accresciuto il censo del reame di
Napoli; promessa al cardinale de' Medici una pensione di diecimila ducati in su
l'arcivescovado di Tolleto vacato nuovamente, e uno stato nel reame di Napoli
di entrata di diecimila ducati per Alessandro figliuolo naturale di Lorenzo già
duca d'Urbino.
Per
declarazione delle quali cose pare necessario brevemente raccontare quali
Cesare pretendeva che fussino in questo tempo le ragioni dello imperio sopra il
ducato di Milano. Affermavasi per la parte di Cesare che a quello stato non
erano di momento alcuno le ragioni antiche de' duchi di Orliens, per non essere
stato confermato con l'autorità imperiale il patto della successione di madama
Valentina; e che al presente apparteneva immediatamente allo imperio, perché la
investitura fatta a Lodovico Sforza per sé e per i figliuoli era stata revocata
dall'avolo, con amplitudine di tante clausule che la revocazione aveva avuto
giuridicamente effetto, in pregiudicio massime de' figliuoli, i quali non
l'avendo mai posseduto avevano ragione in speranza e non in atto; e perciò
essere stata valida la investitura fatta al re Luigi, per sé e per Claudia sua
figliuola, in caso si maritasse a Carlo, e con patto che non seguendo il
matrimonio senza colpa di Carlo fusse nulla, e che Milano per la via retta
passasse a Carlo; il quale ne fu, in caso tale, presente il padre Filippo,
investito. Da questo inferirsi che di niuno valore era stata la seconda
investitura fatta al medesimo re Luigi per sé, per la medesima Claudia e per
Anguelem, in pregiudicio di Carlo pupillo, e costituito sotto la tutela di
Massimiliano. Nella quale non potendo fare fondamento alcuno il re presente,
meno poteva allegare appartenersigli quel ducato per nuove ragioni: perché da
Cesare non aveva mai né ottenuta né dimandata la investitura; ed essere
manifesto non gli potere giovare la cessione fatta da Massimiliano Sforza
quando gli dette il castello di Milano, perché il feudo alienato di propria
autorità ricade incontinente al signore soprano, e perché Massimiliano, benché
ammesso di consentimento di Cesare, morto in quello stato non n'avendo mai
ricevuta la investitura, non poteva trasferire in altri quelle ragioni che a sé
non appartenevano.
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