XI. Conseguenze della fallita impresa contro Parma; il duca di Urbino
riconquista lo stato. Le milizie del duca e dei Baglioni sotto Perugia.
Scorrerie delle milizie nemiche nel ducato di Milano. Il conclave per
l'elezione del nuovo pontefice rimandato per la prigionia del cardinale
d'Ivrea.
Nocé assai la
difesa di Parma alle cose de' franzesi, perché dette maggiore animo al popolo
di Milano e agli altri popoli di quello stato a difendersi che non avevano
prima, e massime sapendosi esservi stati dentro pochi soldati e non avere avuto
soccorso, perché né da Piacenza si mosse alcuno né i svizzeri che erano a
Modena, né Guido Rangone né Vitello non vollono mandare gente al soccorso di
Parma: Guido allegando che, benché il duca di Ferrara, non avendo potuto
spugnare Cento difeso da' bolognesi, si fusse alla venuta de' svizzeri ritirato
al Finale, nondimeno essere pericolo che spogliandosi Modona di presidio non
venisse ad assaltarla; e il vescovo di Pistoia, vacillando e stando implicato e
irrisoluto tra le richieste instantissime che gli faceva il Guicciardino e le
persuasioni di Vitello (il quale per lo interesse proprio lo stimolava che co'
svizzeri passasse in Romagna per impedire il passo al duca di Urbino), tardò
tanto a risolversi che non fece né l'una cosa né l'altra; perché Parma da se
medesima si difese e al duca non fu fatto impedimento alcuno in Romagna,
perché, in ultimo, i svizzeri non essendo pagati non vollono muoversi. Il quale
e insieme Malatesta e Orazio fratelli de' Baglioni andavano, quello per
ricuperare gli stati perduti questi per ritornare in Perugia; avendo raccolto a
Ferrara dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e tremila fanti i
quali, parte per amicizia parte per speranza della preda, volontariamente gli
seguitavano: perché né da' franzesi né da' viniziani potettono impetrare altro
favore che permettere, a qualunque fusse soldato loro, di seguitargli; e i
viniziani concederno a Malatesta e Orazio di partirsi dagli stipendi loro.
Andati adunque da Ferrara a Lugo per il Po né trovando per lo stato della Chiesa
ostacolo alcuno, come furno vicini al ducato di Urbino, il duca chiamato da'
popoli ricuperò, eccetto quello che possedevano i fiorentini, incontinente ogni
cosa, e voltatosi dipoi a Pesero ricuperò la terra con la medesima facilità, e
in spazio di pochi giorni la rocca: e seguitando la prosperità della fortuna,
cacciato da Camerino Giovanmaria da Varano antico signore, che per illustrarsi
aveva conseguito da Lione il titolo di duca, vi messe dentro Gismondo,
giovanetto della medesima famiglia che pretendeva di avere a quello stato
migliore ragione: ritenendosi nondimeno la fortezza per il duca, il quale era
rifuggito alla Aquila. Espedite queste cose, si voltò con Malatesta e Orazio
Baglioni a Perugia; della quale aveano presa la difesa i fiorentini, non tanto
per consiglio proprio quanto per volontà del cardinale de' Medici, mosso o
dall'odio e inimicizia che aveva col duca d'Urbino e co' Baglioni o per
parergli che la vicinità loro potesse mettere in pericolo l'autorità che aveva
in Firenze o perché, aspirando al pontificato, volesse guadagnare la
riputazione di essere lui solo difensore, nella vacazione della sedia, dello
stato della Chiesa. Perché il collegio de' cardinali era al tutto senza cura di
difendere, o in Lombardia o in Toscana o altrove, parte alcuna del dominio
ecclesiastico; parte perché i cardinali erano distratti in diverse fazioni e
immerso ciascuno di loro ne' pensieri di ascendere al pontificato, parte perché
nello erario pontificale o in Castello Santo Agnolo non si trovava somma alcuna
di danari lasciata da Lione: il quale, per la sua prodigalità, non solo aveva
consumato i danari di Giulio e incredibile quantità tratti di offici creati
nuovamente, con diminuzione di quarantamila ducati di entrata annua della
Chiesa, [ma] aveva lasciato debito grande e impegnate tutte le gioie e cose
preziose del tesoro pontificale: in modo che argutamente fu detto da qualcuno
che gli altri pontificati finivano alla morte de' pontefici, ma quello di Lione
essere per continuarsi più anni poi. Mandò solamente il collegio a Perugia
l'arcivescovo Orsino, perché trattasse di concordare insieme i Baglioni; ma
essendo la persona sospetta a Gentile, per il parentado che aveva co' figliuoli
di Giampaolo, e proponendosi condizioni poco sicure per lui, si trattò invano:
in modo che, penultimo dì dell'anno, il duca di Urbino, Malatesta e Orazio
Baglioni e Cammillo Orsino, il quale seguitato da alcuni volontari si era di
nuovo unito con loro, andorono ad alloggiare al Ponte a San Ianni; donde,
distesisi quivi alla Bastia e luoghi vicini, infestavano dì e notte la città di
Perugia; ove, oltre a cinquecento fanti condotti da Gentile, vi aveano messi i
fiorentini (a' quali l'essersi il duca voltato a Pesero dette spazio di
provederla), dumila fanti, cento cavalli leggieri sotto Guido Vaina e
centoventi uomini d'arme e cento cavalli leggieri sotto Vitello.
Nel quale
tempo, nello stato di Milano si stava con sommo ozio; non si facendo da alcuna
delle parti altro che prede e correrie: le quali per fare ancora ne' luoghi
tenuti dalla Chiesa avevano i franzesi, restati in Cremona con dumila fanti,
gittato il ponte in sul Po, per il quale passando spesso nel piacentino e nel
parmigiano molestavano tutto il paese. E benché Prospero, stimolato dagli altri
capitani, publicasse di volere andare a pigliare Trezzo, e già avesse inviato
l'artiglierie, nondimeno non lo messe a effetto, allegando non essere a
proposito che l'esercito fusse impegnato in luogo alcuno, per potere soccorrere
lo stato della Chiesa se i franzesi avessino cominciato a farvi progresso
alcuno; cosa nella quale pareva che avesse i pensieri diversi dalle parole,
perché significatagli l'andata del campo a Parma, non fatto segno alcuno di
volerla soccorrere, disse essere necessario aspettare l'evento. Anzi, essendo
rimasta Piacenza abbandonata di ogni presidio, perché i svizzeri zuricani per
comandamento de' loro signori se ne partirono subitamente, Prospero fece
grandissima diligenza perché il marchese di Mantova con le sue genti non si
partisse da Milano; il quale, fermatosi in Piacenza, sostenne con somma laude,
co' fanti del suo dominio e col prestare qualche volta danari, quella città.
Né si provedeva
a tanti pericoli per la elezione del nuovo pontefice; la quale, con tanto
pregiudicio dello stato ecclesiastico, si era differita per dare tempo ai
cardinali assenti di andare al conclave, e ultimamente perché il cardinale di
Ivrea, andando da Turino a Roma, era stato, per ordine di Prospero Colonna,
ritenuto nello stato di Milano, perché come favorevole a' franzesi non si
trovasse al conclave: per il che il collegio fece decreto che tanti dì si
tardasse a entrare nel conclave quanti dì fusse stato o fusse per essere
impedito il cardinale di Ivrea a passare innanzi. Però, essendo stato liberato,
si serrò il conclave il vigesimo settimo dì di dicembre, nel quale intervennono
trentanove cardinali: tanto aveva moltiplicato il numero la promozione
immoderata fatta da Lione, alla creazione del quale non erano stati presenti
più che ventiquattro cardinali.
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