II. Trattative di pace fra i veneziani e Cesare; promesse del re di Francia
ai veneziani per mantenerli legati a sé. Varietà di pareri nel senato
veneziano; discorso di Andrea Gritti in favore del mantenimento della
confederazione col re di Francia; discorso di Giorgio Cornaro a favore della
confederazione con Cesare. Deliberazione dei veneziani e patti con Cesare, con
l'arciduca Ferdinando e con Francesco Sforza.
Trattavasi in
questo tempo medesimo continuamente la concordia tra Cesare e i viniziani; la
quale, per molte difficoltà che nascevano e per varie dilazioni interposte da
loro, teneva sospesi di quello che avesse a seguirne gli animi di ciascuno.
Accrebbe la dilazione, e forse anche le difficoltà di questa pratica, la morte
di Ieronimo Adorno il quale, persona di grande spirito ed esperienza benché
giovane, la trattava con molta autorità e con destrezza singolare: in luogo del
quale vi fu mandato da Milano, in nome di Cesare, Marino Caracciolo
protonotario apostolico, il quale molti anni poi fu da Paolo terzo pontefice
promosso alla degnità del cardinalato. Trattoronsi queste cose in Vinegia molti
mesi, perché da altra parte il re di Francia faceva assiduamente, per gli
imbasciadori suoi, diligenza grandissima in contrario, promettendo, ora con
lettere ora con uomini propri, di passare presto con potentissimo esercito in
Italia: perché tra' senatori erano varietà grandi di pareri e assidue
disputazioni. Perché molti consigliavano che non si abbandonasse la
confederazione del re di Francia, confidandosi che presto avesse a mandare
l'esercito in Italia; la quale speranza il re sforzandosi con somma diligenza
di nutrire aveva, oltre a molti altri, mandato di nuovo Renzo da Ceri a
Vinegia, a promettere questo medesimo e a dimostrare che già le cose erano
preparate: altri, considerando per l'esperienza delle cose passate le
negligenti esecuzioni di quel re, non confidavano che avesse a passare, e
questa opinione si accresceva per le lettere di Giovanni Baduero oratore loro
in Francia, il quale, prestando fede a quello che gli era referito dal duca di
Borbone (il quale, già congiunto occultissimamente contro al re, desiderava che
i viniziani si unissino con Cesare), affermava che 'l re di Francia per quello
anno non passerebbe né manderebbe esercito in Italia. Spaventava altri la mala
fortuna del re di Francia la prospera di Cesare, il considerare che in Italia
seguitavano Cesare il duca di Milano, i genovesi e i fiorentini con la Toscana
tutta, e si credeva che avesse a fare il medesimo il pontefice; e che fuora
d'Italia erano congiunti seco l'arciduca suo fratello, vicino allo stato de'
viniziani, e il re d'Inghilterra, il quale continuamente faceva la guerra in
Piccardia. Nella quale varietà di pareri, non meno tra i principali del senato
che tra gli altri, non si potendo, per la maturità delle cose e per la instanza
grandissima degli imbasciadori di Cesare, differire più il farne deliberazione,
convocato finalmente per determinarsi il consiglio de' pregati, Andrea Gritti,
uomo, per importantissime amministrazioni e fatti molto egregi, di somma
autorità in quella repubblica e di nome molto chiaro per tutta Italia e
appresso ai prìncipi esterni, parlò, secondo si dice, in questa sentenza:
- Ancora che io
conosca essere pericolo, prestantissimi senatori, che se io consiglierò che noi
non ci partiamo dalla confederazione del re di Francia alcuni non interpretino
che in me possa più il rispetto della lunga conversazione che io ho avuta co'
franzesi che quello della utilità della republica, non mi asterrò per questo da
esprimere liberamente il parere mio, come è propriamente ufficio de' buoni
cittadini; anzi è inutile, e cittadino e senatore, quello il quale per
qualunque cagione si ritrae da persuadere agli altri quello che in se medesimo
sente essere il beneficio della republica: benché io mi persuada che appresso
agli uomini prudenti non arà luogo questa interpretazione, perché
considereranno non solo quali siano stati in ogni tempo i costumi e le azioni
mie ma che io non ho trattato, col re di Francia né cogli uomini suoi, se non
come uomo vostro e per vostra commissione e comandamento; e mi giustificherà
oltre a questo, se io non mi inganno, la probabilità delle ragioni le quali mi
fanno condiscendere in questa sentenza. Noi trattiamo se si debba fare nuova confederazione
con Cesare, contraria alla fede data da noi agli oblighi della confederazione
che abbiamo col re di Francia; cosa che, a giudicio mio, non vuole dire altro
che stabilire in modo la potenza di Cesare, già terribile a ciascuno, che non
ci essendo mai più rimedio di moderarla o di abbassarla cresca continuamente in
nostro manifestissimo pregiudicio. Non abbiamo cagione alcuna che possa
giustificare questa deliberazione, perché il re ha sempre osservato la nostra
confederazione; e se gli effetti non sono stati così pronti a rinnovare la
guerra in Italia si conosce chiaramente che, poiché a questo lo stimolavano i
propri interessi, non è proceduto da altro che dagli impedimenti che ha avuti e
ha nel regno di Francia; i quali hanno potuto prolungare i disegni suoi ma non
potranno già annichilargli, perché la volontà è sì ardente alla recuperazione
dello stato di Milano, la potenza è sì grande che sostenuti che arà questi
primi impeti degli inimici, i quali sosterrà facilmente, niuna cosa lo
ritarderà che di nuovo non mandi forze grandissime di qua da' monti. Vedemmo
dell'una cosa e dell'altra più volte lo esempio del re Luigi; il quale, essendo
assaltata la Francia con armi molto più potenti che non sono queste che al
presente la molestano, congiuratogli contro quasi tutto il mondo, con la
grandezza delle sue forze, con la fortezza de' luoghi che sono in su i confini,
con la fede de' popoli, facilmente si difese; e quando era nell'opinione di
tutti gli uomini che per la stracchezza della guerra gli fusse necessario il
riposo di qualche tempo, mosse subito in Italia potenti eserciti. Non fece
questo medesimo ne' primi anni del regno suo il presente re? quando ciascuno
credeva che, per essere nuovo re, per avere trovata esausta la corona per le
spese infinite dello antecessore, fusse necessitato differire la guerra a uno
altro anno. Non ci debbe adunque spaventare questa tardità; né sarebbe
sufficiente scusa delle nostre variazioni, perché il confederato, ritardato non
dalla volontà ma dagli impedimenti sopravenuti, non dà giusta causa di
querelarsi al compagno né onesto colore di partirsi dalla collegazione. Questa
deliberazione ricerca da noi il rispetto della onestà il rispetto della degnità
del senato viniziano, ma non la ricerca meno il rispetto della utilità anzi
della salute nostra. Perché chi è che non conosca di quanto profitto ci sia e
da quanti pericoli ci liberi se il re di Francia recupera lo stato di Milano, e
quanto riposo partorisca per molti anni alle cose nostre? Ammuniscecene
l'esempio delle cose succedute pochi anni innanzi; perché l'averlo recuperato
questo re fu cagione che noi, che prima con grandissime spese e pericoli
difendevamo Padova e Trevigi, recuperassimo Brescia e Verona; fu cagione che,
mentre ch'egli tenne pacifico quel ducato, noi possedessimo con grandissima
pace e sicurtà tutto lo imperio nostro: esempli che ci hanno a muovere molto
più che la memoria antica della lega di Cambrai, perché i re di Francia
compresono per esperienza quel che non avevano compreso per le ragioni: quanto
detrimento ricevessino dello essersi partiti dalla nostra congiunzione; cosa
che senza comparazione conosceranno meglio nel tempo presente, nel quale ha
questo re per emulo uno imperadore, principe di tanti regni e di tanta
grandezza, la cui potenza lo necessita a desiderare e avere carissima la nostra
confederazione. Ma per contrario, chi è quello che non vegga, che non conosca,
in quanto pericolo resterebbono le cose nostre escluso che fusse totalmente il
re di Francia dalle imprese d'Italia? Perché chi può proibire a Cesare che non
appropri a sé o al fratello il ducato di Milano? del quale insino a ora non ha
mai conceduta la investitura a Francesco Sforza; e se, come è chiarissimo, arà
potestà di farlo, chi è quello che possa assicurare della volontà? chi è quello
che possa promettere che, essendo il ducato di Milano una scala di salire allo
imperio di tutta Italia, che abbi a potere più in Cesare il rispetto della
giustizia e dell'onestà che l'ambizione e la cupidità propria e naturale di
tutti i prìncipi grandi? Assicureracci forse la moderazione e la temperanza de'
ministri che ha in Italia? che sono quasi tutti spagnuoli, gente infedele
rapacissima insaziabile sopra tutte l'altre? Se adunque Cesare o Ferdinando suo
fratello si attribuiscono Milano, in che grado rimane lo stato nostro,
circondato da loro dalla parte d'Italia e di Germania? che rimedio possiamo
sperare a' nostri pericoli essendo in mano sua il reame di Napoli, il pontefice
e gli altri stati di Italia dependenti da lui, e ciascuno sì esausto e attrito
di forze che da loro non possiamo sperare favore alcuno? Ma se il re di Francia
possedesse il ducato di Milano, restando le cose bilanciate tra due tali
prìncipi, chi avesse da temere della potenza dell'uno sarebbe riguardato e
lasciato stare per la potenza dell'altro; anzi, il timore solamente della sua
venuta assicura tutti gli altri, perché costrigne gli imperiali a non si
muovere, a non si impegnare a impresa alcuna. Però a me pareva più presto
ridicola che spaventosa la vanità de' minacci loro che se non ci confederiamo
con Cesare ci volteranno contro l'esercito; come se il muovere la guerra contro
al senato viniziano sia impresa facile e da sperarne presto la vittoria, e come
se questo fusse il rimedio di fare che il re di Francia non passasse, e non più
presto cagione del contrario: perché, chi dubita che provocati da loro
proporremmo per necessità condizioni tali al re che, quando bene ne avesse
l'animo alieno, lo inducessino a passare? Non accadde egli questo medesimo a
tempo del re Luigi? che le ingiurie e i tradimenti fattici da loro ci indussono
a stimolare in modo quel re (quando io di suo prigione diventai vostro
imbasciadore), che al tempo che più temeva di essere assaltato
potentissimamente in Francia mandò l'esercito suo, benché con mala fortuna, in
Italia. Non crediate che se gli imperiali pensassino che la via di tirarci alla
amicizia loro o di assicurarsi della venuta del re di Francia fusse lo
assaltarci, che avessino differito insino a questo dì a dargli principio. Forse
che non hanno i capitani loro cupidità di arricchirsi delle prede e de'
guadagni delle guerre? forse che non hanno avuto necessità, per sgravare il
paese degli amici e sgravandolo avere facoltà di trarne danari, di nutrire
l'esercito ne' paesi d'altri? ma hanno conosciuto che per la potenza nostra è
troppo difficile lo sforzarci; che per loro non fa, temendo ogni dì della
guerra del re di Francia, implicarsi in una altra guerra, né dare cagione a uno
stato potente di forze e di danari di stimolare con la grandezza delle offerte
i franzesi a passare. Mentre che staranno in questi sospetti e in queste
ambiguità non occuperanno per sé il ducato di Milano, non tratteranno se non
con minaccie vane di offenderci; se noi gli assicureremo da questo timore sarà
in potestà loro di fare l'uno e l'altro: e se lo faranno, come è verisimile, di
chi altri potremo noi più lamentarci che di noi medesimi e della nostra troppa
timidità e del desiderio immoderato della pace? La quale è desiderabile e
santa, quando assicura da' sospetti, quando non augumenta il pericolo, quando
induce gli uomini a potersi riposare e alleggierirsi dalle spese; ma quando
partorisse gli effetti contrari è, sotto nome insidioso di pace, perniciosa
guerra; è, sotto nome di medicina salutifera, pestifero veleno. Se adunque il
fare noi confederazione con Cesare esclude il re di Francia dalle imprese
d'Italia, dà a lui facoltà di occupare ad arbitrio suo il ducato di Milano,
occupato quello pensare a deprimere noi, ne séguita che noi comperiamo, con
grandissima infamia del nome nostro con maculare la fede di questa republica,
la grandezza di un principe il quale non ha manco distesa l'ambizione che la
potenza e che pretende, egli e il fratello, che tutto quello che noi possediamo
in terra ferma appartenga a loro; e che escludiamo da Italia uno principe che
con la grandezza assicuri la libertà di tutti gli altri e che sarebbe
necessitato a essere congiuntissimo con noi. Chi propone queste ragioni, tanto
evidenti e tanto palpabili, non può già essere imputato che lo muova
l'affezione più che la verità, più gli interessi propri che l'amore della
republica. Della salute della quale non abbiamo da dubitare, se Dio alle vostre
deliberazioni concederà tanto di felicità quanto ha conceduto di sapienza a
questo eccellentissimo senato. -
Ma in contrario
Giorgio Cornaro, cittadino di pari autorità e di nome celebrato di prudenza
quanto alcuno altro di quel senato, si oppose con orazione tale a questo
consiglio: - Grande certamente, prestantissimi senatori, e molto difficile è la
presente deliberazione; nondimeno, quando io considero quale sia ne' tempi
nostri l'ambizione e la infedeltà de' prìncipi e quanto la natura loro sia
difforme dalla natura delle republiche, le quali, non si governando con l'appetito
di uno solo ma col consentimento di molti, procedono con più moderazione e
maggiori rispetti, né si partono mai sfacciatamente, come spesso fanno essi, da
quel che ha qualche apparenza di giusto e di onesto, io non posso se non
risolvermi che a noi sia perniciosissimo che il ducato di Milano sia di uno
principe più potente che noi, perché una tale vicinità ci necessita a stare in
continui sospetti e tormenti e, ancora che siamo nella pace, quasi sempre ne'
pensieri della guerra, non ostante qualunque confederazione o convenzione che
abbiamo insieme. Di questo si leggono nelle istorie antiche infiniti esempli,
nelle nostre qualcuno: ma quale maggiore e più illustre che quello che, con
acerba memoria, è scolpito nel cuore di tutti noi? Introdusse questo senato
Luigi re di Francia nel ducato di Milano, alla quale infelice deliberazione
molti di noi furno presenti; conservogli sempre intera la fede delle
capitolazioni, quantunque con premi grandi e con varie occasioni fussimo
invitati a discostarsi da lui dagli spagnuoli e da' tedeschi, quantunque
fussimo certi che per lui si trattavano spesso molte cose contro a noi. Non
piegò né il beneficio ricevuto né la fede data né tanti perpetui offici nostri
l'animo suo, pieno di tanta cupidità di offenderci che finalmente,
reconciliatosi per questa cagione con gli antichi e acerbissimi inimici suoi,
contrasse contro a noi la collegazione perniciosissima di Cambrai. Però, per
fuggire i pericoli che dalla insidiosa e fraudolenta vicinità de' prìncipi
grandi ci sarebbono del continuo imminenti, siamo necessitati (se io non mi
inganno) dirizzare tutte le nostre deliberazioni a questo fine: che il ducato
di Milano non sia né del re di Francia né dello imperadore, ma sia di Francesco
Sforza o di qualunque altro che non abbia regni e imperi maggiori; donde
depende nel tempo presente la sicurtà nostra, donde nel futuro può dependere,
se si variassino le condizioni de' tempi presenti, grande augumento ed
esaltazione del nostro stato. Noi consultiamo se è o da continuare l'amicizia
col re di Francia o da confederarci con Cesare: l'una di queste due
deliberazioni esclude totalmente dal ducato di Milano Francesco Sforza e dà
adito di entrarvi al re di Francia, principe tanto più potente di noi; l'altra
deliberazione tende a confermare e assicurare Francesco Sforza in quello
ducato, il quale Cesare propone di includere come principale nella nostra
confederazione, promette la conservazione sua al re di Inghilterra: però quando
tentasse di spogliarlo di quello stato non solo offenderebbe noi e gli altri
d'Italia, a' quali darebbe causa di volgere di nuovo l'animo a' franzesi, ma
offenderebbe il re d'Inghilterra, al quale gli conviene, come ognuno sa, avere
grandissimi rispetti; provocherebbesi contro tutti i popoli del ducato di
Milano inclinatissimi a Francesco Sforza. Così, sottoponendosi a molte
difficoltà e pericoli, e a grandissima infamia, contraverrebbe alla fede sua,
la quale non si è insino a ora veduto segno alcuno che mai abbia disprezzata,
cosa che non possiamo già dire noi de' franzesi; anzi, avendo restituito, dopo
la morte del pontefice Leone, Francesco Sforza in quello stato, consegnatogli
le fortezze secondo che successivamente si sono acquistate, e ultimamente,
contro alla opinione di molti, il castello di Milano, non si può dire che non
abbia fatto segni contrari. Perché adunque non dobbiamo fare più presto quella
deliberazione nella quale è speranza grande di conseguire lo intento nostro che
quella che manifestamente tende a fine contrario a' nostri bisogni? A questo si
oppone che di maggiore pericolo sarebbe a questa republica che il ducato di
Milano fusse in potestà di Cesare che se fusse in potestà del re di Francia;
perché quel re, per la grandezza di Cesare e per la emulazione che ha con lui,
arebbe quasi necessità di perseverare nella nostra congiunzione, ma in Cesare
tutto il contrario, per la potenza sua e per le ragioni che contro allo stato
nostro pretendono egli e il fratello. Credo che chi così sente di Cesare non si
inganni, per la natura e consuetudine de' prìncipi tanto grandi; volesse Dio
non si ingannasse chi non sente il medesimo del re di Francia! Militavano nel
suo antecessore molte delle medesime ragioni, e nondimeno potette più la
cupidità, l'ambizione, che l'onestà, che l'utilità propria. Senza che, non sono
perpetue quelle cagioni che l'arebbono a conservare unito con noi, ma
variabili, secondo la natura delle cose umane, di momento in momento: perché e
Cesare è uomo mortale come gli altri uomini; è, secondo l'esempio di molti
prìncipi stati maggiori di lui, sottoposto a infiniti accidenti di fortuna. E
quanto tempo è che, concitatagli contro tutta la Spagna, pareva più presto
degno di commiserazione che di invidia? E almeno non è tanta differenza
dall'uno pericolo all'altro quanto è differenza da una deliberazione che ci
escluda certo dal fine nostro a una che più verisimilmente vi ci conduca. Dipoi
queste ragioni risguardano il tempo futuro e lontano; ma se consideriamo lo
stato presente delle cose, non è dubbio che il rifiutare la confederazione di Cesare
ci mette per ora in maggiori molestie e pericoli; perché separandoci noi dal re
di Francia è credibile riserberà il fare la guerra a migliori tempi e
occasioni, ma stando noi congiunti con lui potrebbe pure essere che di presente
la facesse, cosa che di necessità ci porterà molestie e spese. Ma in quale caso
è più pericoloso per noi l'esito della guerra? Congiugnendoci con Cesare si può
quasi tenere per certo che la vittoria sarà da questa parte, cosa che non si
può tanto sperare se saremo congiunti col re di Francia; e confederandoci con
Cesare non ci sarebbe tanto pericolosa la vittoria del re come sarebbe per il
contrario, perché in caso tale tutte l'armi de' vincitori si volterebbono
contro a noi, e Cesare non solo arebbe minore freno e minori ostacoli ma quasi
necessità di occupare il ducato di Milano. A quel che si dice del vincolo della
confederazione è facile la risposta: perché promettemmo al re di Francia di
aiutarlo a difendere gli stati che possedeva in Italia, non a recuperargli poi
che gli avesse perduti. Non dice questo la scrittura delle nostre
capitolazioni, né ci militano le medesime ragioni. Adempiemmo le obligazioni
nostre quando, alla perdita di Milano, causata per il mancamento delle loro
provisioni, ricevetteno più danno le nostre genti d'arme che le franzesi;
adempiemmole quando, tornando Lautrech co' svizzeri alla guerra, gli mandammo i
nostri aiuti; abbiamle trapassate quando, pasciuti da lui con vane speranze e
promesse, abbiamo aspettato tanti mesi l'esercito suo. Se la volontà lo
ritiene, perché cerchiamo noi di sopportare la pena delle sue colpe? se la
necessità, non basta egli questa ragione, quando bene fussimo obbligati, a
giustificarci? Non so di che siamo più oltre debitori al re di Francia poiché
prima siamo stati abbandonati noi: non so a che più oltre sia tenuto uno
confederato per l'altro, né che possino giovare a lui i nostri pericoli. Non
affermo che i capitani di Cesare pensino a muoverci al presente la guerra, ma
né ardirei affermare il contrario, considerato la necessità che hanno del
nutrire lo esercito nello stato degli altri, la speranza che potrebbono avere
di tirarci per questa via alla loro congiunzione, massime se il re di Francia
non passerà: di che chi dubita non ne dubita, a giudizio mio, senza ragione, per
la loro negligenza, per essere esausti di danari, per la guerra che hanno di là
da' monti con due tali prìncipi; né può essere ripreso chi di questo presta
fede al vostro imbasciadore perché gli imbasciadori sono l'occhio e l'orecchio
degli stati. Replico insomma il medesimo, che con sommo studio debbiamo cercare
che di Francesco Sforza sia il ducato di Milano: donde ne nasce, in
conseguenza, che sia più utile quella deliberazione che ci può condurre a
questo effetto che quella che totalmente ce ne esclude. -
L'autorità di
due tali uomini e la efficacia delle ragioni aveva renduto più presto più
perplessi che più resoluti gli animi de' senatori, donde il senato allungava
quanto più poteva il determinarsi, inducendolo a questo la natura loro, la
gravità della cosa, il desiderio di vedere più innanzi de' progressi del re di
Francia; e ne erano anche causa molte difficoltà che nascevano di necessità
nella concordia con l'arciduca. Accresceva la sospensione degli animi loro che
il re di Francia, preparandosi sollecitamente alla guerra, avea mandato il
vescovo di Baiosa a pregargli che differissino tutto il mese prossimo a
deliberare, affermando che innanzi alla fine del termine passerebbe con
maggiore esercito che mai avesse veduto in Italia l'età presente. Nella quale
ambiguità mentre che stanno, essendo morto Antonio Grimanno doge di quella
città, fu eletto in suo luogo Andrea Gritti, che più presto nocé alle cose
franzesi che altrimenti: perché egli, collocato in quel grado, lasciata meramente
la deliberazione al senato, non volle mai più né con parole né con opere
dimostrarsi inclinato in parte alcuna. Finalmente, mandando il re al senato
continuamente uomini nuovi con offerte grandissime, e intendendosi che per le
medesime cagioni venivano Anna di Memoransi, che fu poi gran conestabile di
Francia, e Federico da Bozzole, gli oratori cesareo e inghilesi, a' quali la
dilazione era sospettissima, protestorono al senato che dopo tre dì prossimi si
partirebbono, lasciando imperfette tutte le cose. Perciò il senato necessitato
a determinarsi, e togliendo fede alle promesse del re di Francia l'essere stati
tanti mesi nutriti con vane speranze, e molto più quel che in contrario
affermava lo imbasciadore residente appresso a lui, deliberò d'abbracciare
l'amicizia di Cesare, col quale convenne con queste condizioni: che tra Cesare,
Ferdinando arciduca d'Austria, Francesco Sforza duca di Milano da una parte e
il senato viniziano dall'altra fusse perpetua pace e confederazione: dovesse il
senato mandare, quando fusse il bisogno, alla difesa del ducato di Milano
secento uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti; il medesimo per
la difesa del regno di Napoli, ma questo in caso fusse molestato da' cristiani,
perché i viniziani recusavano obligarvisi generalmente per non irritare contro
a sé l'armi de' turchi: la medesima obligazione avesse Cesare, per la difesa
contro a qualunque, di tutte le cose che i viniziani possedevano in Italia:
pagassino all'arciduca in otto anni, per conto di antiche differenze e
concordia fatta a Vuormazia, dugentomila ducati. Le quali cose come furno
convenute, il senato, avendo già rimosso dagli stipendi suoi Teodoro da
Triulzi, elesse governatore generale della sua milizia, con le condizioni
medesime, Francesco Maria duca di Urbino.
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