III. Tentativi del pontefice di unire in concordia i prìncipi cristiani
contro i turchi. Come il cardinale di Volterra cade in disgrazia del pontefice.
Confederazione di prìncipi di cui fa parte il pontefice. Attentato contro
Francesco Sforza. Moto nella fortezza di Valenza. Defezione del connestabile di
Borbone. Spedizione del Bonnivet in Italia; occupazione delle terre alla destra
del Ticino. Sorpresa di Prospero Colonna: sue prime deliberazioni. I francesi
vicino a Milano. Morte di papa Adriano.
Fu giudicio
quasi comune degli uomini per tutta Italia che il re di Francia, vedendo
dovergli essere contrari quegli aiuti i quali primi gli doveano essere propizi,
avesse a desistere d'assaltare per quello anno il ducato di Milano; nondimeno,
intendendosi che non solamente continuava di prepararsi ma che già cominciava a
muoversi l'esercito, quegli che temevano della vittoria sua feciono insieme per
resistergli nuova confederazione, inducendo il pontefice a esserne capo e
principale. Aveva il pontefice, desideroso della pace comune, ricercato, quando
venne in Italia, Cesare il re di Francia e il re di Inghilterra che, atteso i
successi prosperi de' turchi, deponessino l'armi tanto perniciose alla
republica cristiana, e che ciascuno spedisse a Roma agli oratori suoi sopra
queste cose pienissima autorità; la qual cosa da tutti fu nell'apparenza
eseguita prontamente, ma cominciato poi a trattarsi le cose particolarmente fu
conosciuto presto che erano fatiche vane, perché nel fare la pace si trovavano
infinite difficoltà: la tregua per tempo breve non piaceva a Cesare, senza che
pareva quasi di niuna utilità; e il re di Francia la rifiutava per tempo lungo.
Onde il pontefice, o ridestandosi in lui l'antica benivolenza verso Cesare o
parendogli che i pensieri del re di Francia fussino alieni dalla concordia,
cominciò più che il solito a inclinare l'orecchie a coloro che lo confortavano
a non permettere che da quel re fusse di nuovo posseduto il ducato di Milano.
Da queste cagioni preso animo il cardinale de' Medici, il quale prima, temendo
le persecuzioni degli emuli suoi e specialmente del cardinale di Volterra a cui
pareva che il pontefice credesse molto, dimorava a Firenze, venne a Roma,
ricevuto con grandissimo onore quasi da tutta la corte: ove, congiuntamente col
duca di Sessa imbasciadore di Cesare e con gli oratori del re di Inghilterra,
favoriva questa medesima causa appresso al pontefice.
Nel qual tempo
la mala fortuna del cardinale di Volterra, che quasi sempre perturbava la
prudenza l'astuzia e gli artifici suoi, partorì a lui danno e pericolo, e al
cardinale de' Medici facoltà di acquistare maggiore grazia e autorità appresso
al pontefice, inclinato prima molto al volterrano, perché con la sua sagacità e
con parole non meno nervose che ornate gli avea impresso nell'animo di essere
molto desideroso della pace universale della cristianità. Conciossiaché,
essendo stato, per opera del duca di Sessa, ritenuto a Castelnuovo appresso a
Roma Francesco Imperiale, sbandito di Sicilia che andava in Francia, gli furno
trovate lettere scritte dal cardinale predetto al vescovo di Santes suo nipote,
per le quali confortava il re di Francia ad assaltare con armata marittima
l'isola di Sicilia, perché volgendosi l'armi di Cesare a difenderla gli sarebbe
più facile a ricuperare il ducato di Milano: della qual cosa maravigliandosi
molto il pontefice e riputandosi ingannato dalle sue simulazioni, incitandolo
ancora ardentemente il duca di Sessa e il cardinale de' Medici, chiamatolo a sé
lo fece custodire in Castel Sant'Angelo; e dipoi deputò giudici a esaminarlo
come reo d'avere violato la maestà pontificale, concitando il re di Francia ad
assaltare coll'armi la Sicilia feudo della sedia apostolica. Nella quale
cognizione benché si procedesse lentamente, e finiti gli esamini gli fusse data
facoltà di difendersi per avvocati e procuratori, non si procedé però con la
medesima moderazione alla roba; perché, il dì stesso che il cardinale fu
ritenuto, il pontefice occupò tutte le ricchezze che erano nella sua casa.
Venne ancora a luce, per la incarcerazione del medesimo Imperiale, un trattato
che per il re di Francia si teneva in Sicilia; per il quale furno squartati il
conte di Camerata il maestro portulano e il tesoriere di quella isola.
Per le quali
cose il pontefice commosso tanto più contro al re di Francia, e cominciando
quotidianamente a consultare col cardinale de' Medici, finalmente, risonando
ogni dì più la fama della venuta de' franzesi, deliberando di opporsi loro,
narrò nel collegio de' cardinali, fatta prima la solita prefazione de' pericoli
imminenti dal principe de' turchi, il re di Francia solo essere cagione che dalla
cristianità non si rimovesse tanto pericolo, perché pertinacemente ricusava di
consentire alla tregua che si trattava; e che appartenendo a lui, come a
vicario di Cristo e successore del principe degli apostoli, provedere quanto
per lui si poteva alla conservazione della pace, il zelo della salute comune lo
costrigneva a unirsi con coloro che s'affaticavano acciò che Italia non si
turbasse, perché dalla quiete o dalla turbazione di quella nasceva la quiete o
la turbazione di tutto il mondo. In conformità del quale ragionamento, ed
essendo per tale effetto venuto il viceré di Napoli a Roma, fu stipulata, il
terzo dì d'agosto, lega e confederazione tra il pontefice, Cesare, il re
d'Inghilterra, l'arciduca d'Austria, il duca di Milano, il cardinale de' Medici
e lo stato di Firenze congiunti insieme, e i genovesi, per la difesa d'Italia,
da durare durante la vita de' confederati e uno anno dopo la morte di qualunque
di loro; riservato luogo a ciascuno di entrarvi, pure che fusse accettato dal
pontefice, Cesare, il re d'Inghilterra e lo arciduca, e desse cauzione di usare
nelle querele sue la via della ragione e non dell'armi. Congregassesi per
opporsi contro a chi volesse assaltare in Italia alcuno de' collegati, uno
esercito, nel quale il pontefice mandasse dugento uomini d'arme, Cesare
ottocento, i fiorentini dugento, il duca di Milano dugento e dugento cavalli
leggieri; provedessino il pontefice, Cesare e il duca di Milano l'artiglierie e
le munizioni con tutte le spese appartenenti: che, per soldare i fanti necessari
all'esercito e per fare l'altre spese che bisognano nelle guerre, pagasse il
papa ciascuno mese ducati ventimila, altrettanti il duca di Milano e la
medesima somma i fiorentini, pagassene Cesare trentamila, tra Genova Siena e
Lucca diecimila, restando però i genovesi obligati all'armata e all'altre spese
necessarie per la difesa loro; alla quale contribuzione fussino tutti obligati
per tre mesi, e per quello tempo più che dichiarassino il pontefice, Cesare e
il re d'Inghilterra: fusse in facoltà del pontefice e di Cesare dichiarare chi
avesse a essere capitano generale di tutta la guerra; il quale si trattava che
fusse il viceré di Napoli, sforzandosene massime il cardinale de' Medici,
l'autorità del quale appresso a' cesarei era grandissima, per l'odio che aveva
contro a Prospero Colonna. A questa confederazione fu congiunto per modo
indiretto il marchese di Mantova, perché il pontefice e i fiorentini lo
condussono per loro capitano generale a spese comuni.
Ma non
raffreddorno già, né la lega fatta da' viniziani con Cesare né l'unione di
tanti prìncipi fatta con tanti provedimenti, l'ardore del re di Francia; il
quale, venuto a Lione, si preparava per passare con grandissimo esercito
personalmente in Italia: ove già, per la fama della venuta sua, cominciavano ad
apparire nuovi tumulti. Lionello fratello di Alberto Pio ricuperò furtivamente
la terra di Carpi, custodita negligentemente da Giovanni Coscia prepostovi da
Prospero Colonna; a cui Cesare, spogliatone Alberto come rebelle dello imperio,
l'aveva donata. Ma maggiore accidente fu per succedere nel ducato di Milano,
perché cavalcando in su una muletta Francesco Sforza da Moncia a Milano, ed
essendosi, come facevano per l'ordinario, allontanati da lui i cavalli della
sua guardia perché il principe fusse meno noiato dalla polvere, la quale per i
tempi estivi si solleva grandissima da' cavalli nelle pianure di Lombardia,
Bonifazio Visconte, giovane noto più per la nobiltà della famiglia che per
ricchezze onori o altre condizioni, mosso per lo sdegno conceputo perché pochi
mesi innanzi era stato ammazzato per opera di Ieronimo Morone, non senza
volontà, (così si credeva) del duca, Monsignorino Visconte in Milano; essendo
propinquo a lui in su uno cavallo turco, come furono pervenuti a uno quadrivio,
mosso con impeto il cavallo, l'assaltò con uno pugnale per percuoterlo in sulla
testa; ma movendosi per paura la muletta né stando anche fermo per la ferocia
sua il cavallo, e Bonifazio per essere di maggiore statura e per l'altezza del
cavallo sopraffacendolo molto, il colpo destinato alla testa lo percosse in
sulla spalla. Trasse dipoi la spada fuora per dargli un altro colpo. Ma la
ferita fu piccolissima e di taglio; ed essendo già concorsi molti si messe in
fuga, seguitato dai cavalli della guardia, ma avanzandogli per la velocità del
suo cavallo si salvò nel Piemonte. Cosa, se allo ardire e alla industria fusse
stata corrispondente la fortuna, certamente accaduta rarissime volte e forse
non mai, che uno uomo solo avesse, a mezzodì, in sulla strada publica,
ammazzato uno principe sì grande, accompagnato da tante armi e da tanti
soldati, in mezzo dello stato suo, e si fusse fuggito a salvamento. Ritirossi
il duca così ferito a Moncia, non potendo credere che in Milano non fusse
congiurazione: dove Prospero e il Morone, per il medesimo sospetto, avevano
subito fatto ritenere il vescovo di Alessandria fratello di Monsignorino, il
quale, messosi volontariamente in mano di Prospero sotto la fede sua, ed
essendo esaminato, fu poi mandato prigione nella fortezza di Cremona; essendo
vari i giudizi degli uomini se e' fusse stato conscio o no di questa cosa.
Succedette, quasi ne' medesimi dì, che Galeazzo da Birago seguitato da altri
fuorusciti dello stato di Milano, con l'aiuto di alcuni soldati franzesi che
già erano nel paese del Piemonte, fu dal castellano della fortezza di Valenza,
di nazione savoino, introdotto nella terra: il che inteso da Antonio de Leva,
il quale con una parte de' cavalli leggieri e de' fanti spagnuoli era in Asti,
vi andò subito a campo; ed essendo la terra debole, la quale gli inimici non
avevano avuto tempo a riparare, piantate le artiglierie, la espugnò il secondo
dì, e dipoi battuta la fortezza ebbe il medesimo successo: restando nell'una e
l'altra espugnazione morti circa quattrocento uomini e molti prigioni, tra'
quali Galeazzo capo di questo moto.
Passava del
continuo i monti l'esercito franzese, dietro al quale avea destinato passare il
re; ma turbò il suo consiglio la congiurazione che venne a luce del duca di
Borbone. Il quale, per la nobiltà del sangue regio per la grandezza dello stato
e per la degnità dell'ufficio del gran conestabile e per la fama molto prospera
del suo valore essendo il maggiore e più stimato signore di tutto il regno di
Francia, non era già, più anni innanzi, in grazia del re, e però non promosso a
quegli gradi né introdotto a quegli segreti che meritava tanta grandezza; ma si
era aggiunto che la madre del re, suscitate certe ragioni antiche, gli
dimandava nel parlamento di Parigi il suo stato: donde egli, poiché vedde non
essere posto dal re a questa cosa alcuno rimedio, pieno di indegnazione, si
era, per mezzo di Beuren gran cameriere e molto confidato di Cesare,
confederato pochi mesi innanzi occultissimamente con Cesare e col re
d'Inghilterra; con patto che, per stabilire le cose con vincolo più fedele,
Cesare gli congiugnesse Elionora sua sorella, rimasta per la morte di Emanuello
re di Portogallo senza marito. La esecuzione de' consigli loro era fondata in
sull'avere destinato il re Francesco di andare personalmente alla guerra, nella
quale deliberazione perché perseverasse gli avea il re di Inghilterra
artificiosamente data speranza di non molestare la Francia per quello anno.
Doveva Borbone, subito che il re avesse passati i monti, entrare nella Borgogna
con dodicimila fanti, che occultissimamente co' danari di Cesare e del re di
Inghilterra si preparavano; né dubitava, per l'occasione della assenza del re e
per la grazia universale che aveva per tutto il reame di Francia, dovere fare
grandissimi progressi. Di quello che s'acquistava avea a ritenere per sé la
Provenza, permutando il titolo di conte in titolo di re di Provenza; la quale
contea appartenersegli per ragioni dependenti dagli Angioini pretendeva:
l'altre cose tutte doveano pervenire nel re di Inghilterra. Però, per escusarsi
dal seguitare in Italia il re, fermatosi a Molins terra principale del ducato
di Borbone, fingeva di essere ammalato. Donde passando il re, quando andava a
Lione, al quale era già pervenuto qualche leggiero indizio di questo trattato,
non dissimulò seco di essere stato procurato da altri di mettergli questo
sospetto, ma potere in lui sopra ogn'altra cosa l'opinione tante volte
esperimentata della sua virtù e della sua fede; donde il duca, ringraziandolo
efficacissimamente che con tanta libertà e sincerità di animo avesse parlato
seco, e ringraziando Dio che gli avesse conceduto uno tale re, la gravità del
quale non avessino forza di sollevare le accusazioni e le calunnie false, gli
aveva promesso che, come prima fusse libero (il che per la leggierezza della
infermità sperava dovere essere fra pochissimi dì), andrebbe a Lione per
accompagnarlo dovunque andasse. Ma come il re fu venuto a Lione, inteso che a'
confini della Borgogna si accumulavano fanti tedeschi, e aggiunto a questo
sospetto agli indizi avuti prima e allo essersi intercette certe lettere che
davano lume più chiaro, fece incarcerare San Valerì, Boisì fratello della
Palissa, il maestro delle poste, il vescovo d'Autun, consci della congiurazione,
e mandò subito il gran maestro con cinquecento cavalli e quattromila fanti a
Molins a prendere Borbone; ma tardi, perché egli, già insospettito e dubitando
non fussino guardati i passi, era in abito incognito passato occultissimamente
nella Francia Contea. Per il qual caso tanto importante deliberò il re non
proseguire l'andata sua; e nondimeno, ritenute appresso a sé parte delle genti
preparate alla nuova guerra, mandò in Italia [monsignore] di Bonivet ammiraglio
di Francia, con mille ottocento lancie seimila svizzeri dumila grigioni dumila
vallesi seimila fanti tedeschi dodicimila franzesi e tremila italiani: col
quale esercito passato i monti, e accostatosi a' confini dello stato di Milano,
fece dimostrazione di volere dirizzarsi a Novara. Per il che quella città, non
munita né di soldati né di ripari a sufficienza, si arrendé con licenza del
duca di Milano, ritenendosi per lui la fortezza; il medesimo, e per la medesima
cagione, fece Vigevano: donde tutta la regione che è di là dal fiume del Tesino
pervenne in potestà de' franzesi.
Non aveva
creduto Prospero Colonna, già implicato in lunga infermità, che il re di
Francia, essendosi confederati contro a lui i viniziani e dipoi venuta a luce
la congiurazione del duca di Borbone, perseverasse nella deliberazione di
assaltare per quello anno il ducato di Milano; perciò non avea con la diligenza
e celerità conveniente raccolti i soldati alloggiati in vari luoghi, né fatto i
provedimenti necessari a tanto movimento. Ora, approssimandosi gli inimici,
chiamava con sollecitudine genti, intento tutto a proibire il passo del Tesino;
il che, non si riducendo alla memoria quel che al fiume dell'Adda era succeduto
a lui contro a Lautrech, si prometteva con tanta confidenza. Di riordinare i
bastioni e i ripari de' borghi di Milano, de' quali la maggiore parte non
essendo stati attesi erano quasi per terra, [non] poneva alcuna sollecitudine.
Congregava l'esercito in sul fiume, tra Biagrassa, Bufaloro e Turbico, sito
comodo a quello effetto e opportuno ancora a Pavia e a Milano. Ma i franzesi
che erano venuti a Vigevano, avendo trovato l'acque del fiume più basse che non
era stata l'opinione di Prospero, cominciorono a passare, parte a guazzo parte
per barche, quattro miglia lontano dal campo imperiale; gittato anche uno ponte
per l'artiglierie, in luogo dove non trovorono né guardia né ostacolo alcuno.
Però Prospero, mutati per questo inopinato accidente necessariamente tutti i
consigli della guerra, mandò subito Antonio da Leva con cento uomini d'arme e
tremila fanti alla guardia di Pavia; egli col resto dello esercito si ritirò in
Milano, dove fatto consiglio co' capitani, tutti vennono concordemente in
questa sentenza: non essere possibile, se i franzesi si accostavano senza
indugio, difendere Milano, perché i bastioni e ripari de' borghi, strascurati
dopo l'ultima guerra, erano la maggiore parte caduti per terra, e la troppa
confidenza che aveva avuto Prospero di difendere il passo del Tesino era stata
cagione che non si fusse data opera a rassettargli; né era possibile condurgli,
se non in ispazio di tre dì, in grado da potergli difendere; doversi fare
deliberazione aspettante all'uno caso e all'altro; fare lavorare con somma
sollecitudine a' ripari, e nondimeno stare preparati a partirsi (se i franzesi
venissino il primo il secondo o il terzo dì) per ritirarsi in Como, se i
franzesi venivano per la via di Pavia; se per il cammino di Como, andare a
Pavia. Ma il fato avverso a franzesi, ottenebrando come altre volte aveva fatto
lo intelletto loro, non permesse che usassino così fortunata occasione. Perché,
o per negligenza o per raccorre tutto l'esercito, del quale non piccola parte
era rimasta indietro, soprastettono tre dì in su il fiume del Tesino; donde
dipoi, unitisi tutti insieme tra Milano, Pavia e Binasco, vennono (credo) a
Santo Cristoforo a uno miglio presso a Milano, tra porta Ticinese e porta
Romana e avendo fatte le spianate, e passata l'artiglieria nella vanguardia,
feciono dimostrazione di volere combattere la terra; e nondimeno, non tentato
altro, fermorono in quel luogo l'alloggiamento; dal quale levatisi pochi dì poi
alloggiorono alla badia di Chiaravalle, donde guastorono le mulina e tolseno
l'acqua a Milano, pensando più ad assediarlo che ad assaltarlo: perché, oltre
alla moltitudine abbondantissima d'armi (nella quale si dicevano essere mille
cavalli utili) e con la consueta disposizione contro al nome del re di Francia,
erano allora in Milano circa ottocento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri
quattromila fanti spagnuoli seimila cinquecento tedeschi e tremila italiani.
In questo stato
delle cose passò all'altra vita, il quartodecimo dì di settembre, il pontefice
Adriano, non senza incomodo de' collegati, al favore de' quali mancava oltre
alla autorità pontificale la contribuzione pecuniaria alla quale, per i
capitoli della confederazione, era tenuto. Morì, lasciato di sé, o per la
brevità del tempo che regnò o per essere inesperto delle cose, piccolo
concetto; e con piacere inestimabile di tutta la corte, desiderosa vedere uno
italiano, o almanco nutrito in Italia, in quella sedia.
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