V. I francesi occupano Lodi; vani tentativi contro Cremona. Fatti di guerra
in Lombardia; fazioni sfavorevoli ai francesi. Accordi fra Prospero Colonna ed
il duca di Ferrara per la cessione di Modena venuti a conoscenza del
commissario Guicciardini. Monza ricuperata dagli imperiali; disposizione delle
forze avversarie. Vano tentativo di tregua; ritirata dei francesi.
In questo
mezzo, Bonivetto disperato di potere per forza prendere Milano, alloggiato a
San Cristoforo tralle porte Ticinese e Romana, luogo circondato da acque e da
fossi, occupata Moncia avea mandato monsignore di Baiardo e con lui Federico da
Bozzole con trecento lancie e ottomila fanti a prendere Lodi; ove, con
cinquecento cavalli e cinquecento fanti della condotta che avea dalla Chiesa e
da' fiorentini, era venuto il marchese di Mantova: il quale temendo di se
medesimo si ritirò a Pontevico, e la città abbandonata ricevette dentro i
franzesi. Preso Lodi, Federigo, gittato il ponte in su Adda, passò con le genti
medesime nel cremonese per soccorrere il castello; il quale stretto dalla fame,
non sapendo quegli che vi erano dentro che in Italia fusse passato l'esercito
del re, si era, in quegli medesimi dì che l'ammiraglio si appropinquò a Milano,
convenuto di arrendersi se per tutto il dì vigesimo sesto di settembre non
fussino soccorsi. Accostossi Federico al castello, e poi che l'ebbe rinfrescato
di vettovaglie e d'altri bisogni deliberò di assaltare la terra, confidandosi
nell'avervi Prospero Colonna lasciato piccolo presidio: benché il marchese di
Mantova v'avesse, per questo timore, mandato cento uomini d'arme cento cavalli
leggieri e quattrocento fanti. Battuto che ebbe Federigo coll'artiglierie le
mura, dette la battaglia invano, e dipoi fatta con l'artiglierie maggiore ruina
dette un'altra battaglia ma col successo medesimo; onde si ridusse a San
Martino, aspettando Renzo da Ceri che con dugento cavalli e duemila fanti
veniva del reggiano: il quale come fu venuto, ritornati alle mura le batterono per
molte ore con grande progresso, ma impediti da grandissime pioggie e conoscendo
potere difficilmente ottenere la vittoria non tentorno più oltre. Nel qual dì
Mercurio, co' cavalli leggieri de viniziani, le genti de' quali si univano a
Pontevico, passato l'Oglio corse insino a' loro alloggiamenti. Tentate queste
cose invano, e avendo nell'esercito strettezza di vettovaglie, e risolvendosi i
fanti condotti da Renzo perché non aveano ricevuti altri danari che quegli che
avea dati a Renzo il duca di Ferrara, partitisi da Cremona, andorno a campo a
Sonzino, ma con evento non dissimile. Saccheggiorno dipoi la terra di
Caravaggio, ove dimororno alcuni dì: dalla quale dimora nasceva o scusa o
impedimento al senato viniziano di non mandare a Milano gli aiuti a' quali
erano tenuti; perché scusata la lentezza del raccorre le genti per la credenza
stata comune a' capitani di Cesare che, per la separazione loro dal re di
Francia, i franzesi quell'anno non passerebbono, affermava di mandargli come
prima quegli che erano nel cremonese avessino ripassato il fiume dell'Adda.
In questo stato
delle cose, diffidando ciascuna delle parti di porre con celerità fine alla
guerra, niuno tentava di mettere in pericolo la somma delle cose. L'ammiraglio,
non pensando all'espugnazione di Milano, avea collocata la speranza o che
gl'inimici s'avessino a dissolvere per mancamento di danari o che fussino
costretti, per carestia di vettovaglie, abbandonare Milano; ove con tutto fusse
copia di frumento, nondimeno, in tanto popolosa città, la moltitudine di coloro
che se n'aveano a nutrire era quasi innumerabile; e avendo egli levate l'acque
e impediti i mulini, vi era difficoltà grande di macinare. Per questa cagione
richiamate le genti dalla Ghiaradadda le fece fermare tra Moncia e Milano,
acciò che i milanesi, i quali erano privati delle vettovaglie che solevano
concorrere per le strade di Lodi e di Pavia, rimanessino privati eziandio di
quelle che solevano ricevere dal monte di Brianza. Ma non bastavano queste cose
a fare l'effetto desiderato dallo ammiraglio. Da altra parte, per consiglio di
Prospero Colonna, con tutto che avesse oppresso il corpo da grave infermità né
meno affaticato l'animo, non potendo tollerare, per la cupidità di conservarsi
il primo luogo, la venuta del viceré di Napoli, si faceva diligenza per
interrompere le vettovaglie agli inimici, le quali venivano dalla parte di là
dal fiume del Tesino, perché la fortezza del sito nel quale alloggiavano non
lasciava speranza alcuna di cacciargli con l'armi. Perciò procurò Prospero che
in Pavia entrasse il marchese di Mantova. Per la venuta del quale, i franzesi
temendo del ponte loro gittorno un altro ponte a Torligo, distante da Pavia
venticinque miglia. Sollecitava oltre a questo Vitello, che con la compagnia delle
genti d'arme che avea da' fiorentini (i quali nel principio della guerra
l'aveano mandato a Genova) e con tremila fanti pagati da' genovesi avea
occupato, eccetto Alessandria, tutto il paese di là dal Po, passasse il fiume,
per turbare le vettovaglie che della Lomellina a' franzesi si conducevano. Ma
questo non consentì il doge di Genova, temendo alle cose proprie per la
propinquità dell'Arcivescovo Fregoso, il quale era in Alessandria. E perché i
viniziani, le genti de' quali aveano passato l'Oglio, ricusavano per il
pericolo di Bergamo passare Adda, mentre che quella parte de' franzesi che era
partita da Caravaggio dimorava appresso a Moncia, Prospero ottenne che a Trezzo
mandassino quattrocento cavalli leggieri e cinquecento fanti per impedire le vettovaglie
con le quali si sostentavano.
Alle quali cose
mentre che da ciascuna delle parti si attende non si faceva altre azioni di
guerra che battaglie leggiere, prede e scorrerie; nelle quali quasi sempre
rimanevano inferiori i franzesi, e talvolta con danno memorabile.
Conciossiacosaché essendo uscito, per fare scorta alle vettovaglie che venivano
a Milano da Trezzo, Giovanni de' Medici con dugento uomini d'arme trecento
cavalli leggieri e mille fanti, incontratosi in ottanta lancie franzesi, la
maggiore parte della compagnia di Bernabò Visconte, e messosi a seguitargli e
poi astutamente ritirandosi, gli condusse in una imboscata, fatta da sé, di
cinquecento scoppiettieri, e rottigli con poca difficoltà ne ammazzò o prese la
maggiore parte. Similmente in una altra battaglia Zucchero borgognone roppe
sessanta uomini d'arme della compagnia del grande scudiere. Assaltorno ancora
più volte i fanti spagnuoli i fanti franzesi che erano a guardia delle trincee
che si facevano per andare coperti insino a' ripari, e ne ammazzorno non
piccolo numero; e nel tempo medesimo Paolo Luzzasco, che con cento cinquanta
cavalli leggieri era rimasto a Pizzichitone, scorrendo per tutto il paese
circostante, dava molestia gravissima a quegli che erano in Cremona. Né
succedevano allo ammiraglio più felicemente l'insidie che l'altre cose. Perché
essendosi occultamente convenuto con Morgante da Parma, uno de' capi di squadra
di Giovanni de' Medici, essendone solamente conscio Gianniccolò de' Lanzi, uno
de' suoi cavalli leggieri, e quattro altri, che come prima gli toccasse la
guardia del bastione di una porta, il quale usciva fuora de' ripari, vi
ricevesse dentro le sue genti, accadde, la notte destinata, che Morgante,
parendogli avere bisogno a eseguire tal cosa di più compagni, lo conferì con un
altro de' suoi; il quale, simulando di consentire a questa perfidia, lo
consigliò che andasse a comandare in nome di Prospero Colonna alle sentinelle
che sentendo cosa alcuna non si movessero, acciocché non impedissino l'uomo il
quale manderebbe a chiamare i soldati del campo che doveano venire al bastione:
perché l'ammiraglio avea la notte medesima accostati da quella parte cinquemila
fanti, perché stessino preparati quando riceveano il segno del muoversi, e
messo in arme tutto l'esercito. Ma mentre che Morgante va a dare questo ordine
l'altro corse subitamente a rivelare la cosa a Giovanni de' Medici; dal quale,
andato al bastione, presi i consci ed esaminati, furono secondo il costume
della giustizia militare passati per le picche. Ma già pareva che da ogni parte
cominciassino a declinare le cose de' franzesi: perché, per la fertilità del
paese circostante a Milano e per avere con mulini domestici sollevata la
difficoltà del macinato, diminuiva del continuo la speranza che in quella città
avessino a mancare le vettovaglie; e per gli spessi danni ricevuti intorno a
Milano si credeva che avessino perduti tra utili e inutili mille cinquecento
cavalli, onde spaventati non uscivano degli alloggiamenti, se non per la
necessità di fare la scorta alle vettovaglie e a' saccomanni, e sempre molto
grossi. La infamia della quale viltà l'ammiraglio convertendo in gloria sua,
usava dire che non governava la guerra secondo l'impeto degli altri capitani
franzesi ma con la moderazione e maturità italiana: e nondimeno, qualunque
volta o cavalli o fanti di loro si riscontravano con gli inimici, dimostravano
prontezza molto maggiore a fuggire che a resistere.
Assicurati
adunque i capitani di Cesare dal timore dell'armi e della fame, anzi sperando
di mettere in difficoltà delle vettovaglie gli inimici, niuna cosa più gli
tormentava che il mancamento de' danari; senza i quali era malagevole nutrire i
soldati in Milano ma quasi impossibile menargli, quando così ricercassino
l'occorrenze della guerra, fuora. Alla quale difficoltà cercando di provedere
per molte vie, ma trall'altre Prospero, consentendogli occultamente il viceré
di Napoli e il duca di Sessa, avea, quasi subito dopo la morte del pontefice,
cominciato a trattare col duca di Ferrara: il quale, ricusato molte offerte
fattegli dall'ammiraglio perché, ottenuto che ebbe Reggio, andasse
all'espugnazione di Cremona, convenne finalmente con Prospero che, ricuperando
per opera sua Modona, pagasse incontinente trentamila ducati e ventimila altri
fra due mesi. La cosa pareva facile a eseguire, perché comandando Prospero al
conte Guido Rangone soldato della lega e a' fanti spagnuoli che si partissino
di Modona niuno rimedio era che quella città abbandonata non inclinasse subito
il collo al duca: e movevano Prospero con maggiore ardire a questa cosa, oltre
alla causa publica, le cupidità private l'amicizia con Alfonso da Esti il
desiderio comune a tutti i baroni romani di deprimere la grandezza de'
pontefici e la speranza che, alienata Modona e Reggio dalla Chiesa, Parma e
Piacenza più agevolmente al duca di Milano pervenissino. La qual cosa, mentre
che secretissimamente si trattava, pervenuta agli orecchi del conte Guido e da
lui manifestata al Guicciardino, conobbe non potersi in alcuno modo
interrompere se non si persuadeva a' capitani spagnuoli (i quali bene trattati
e largamente pagati stavano volentieri in quella città) che, allegando non
essere sottoposti all'autorità di Prospero Colonna insino a tanto non fussino
pervenuti allo esercito, recusassino di partirsi da Modona se non per
comandamento del duca di Sessa, per il cui comandamento entrati vi erano; con
saputa del quale benché il governatore tenesse per certo trattarsi questa cosa,
si persuadeva che, essendo oratore di Cesare a Roma e reclamando il collegio,
non solamente si vergognerebbe a dare tale commissione ma non potrebbe negare,
alla richiesta de' cardinali, di comandare apertamente il contrario. E
succedette la cosa appunto secondo il disegno. Perché, quando Prospero mandò a
comandare al conte Guido e agli spagnuoli che andassino per le necessità della
guerra a Milano, il conte si scusò con molte ragioni allegando essere suddito
della Chiesa e modonese, e i capitani spagnuoli, persuasi da lui e dal
governatore, risposono a niuno altro che al duca di Sessa dovere in tal cosa
ubbidire: le quali cose significate dal governatore al collegio de' cardinali,
chiamato subito al conclave il duca di Sessa, egli, non volendo rendere
sospetto sé e per conseguente Cesare, non potette negare di non comandare per
sue lettere a quegli capitani che non partissino. Anzi, come spesso succedono
le cose contrarie a' pensieri degli uomini, ne succedette che, leggendosi nel
collegio certe lettere di Prospero intercette dal governatore, per le quali si
palesava tutto il progresso della cosa, i cardinali aderenti al re di Francia,
per l'opposizione de' quali si difficultavano prima le provisioni de' danari
che per opera del cardinale de' Medici si erano cominciati a mandare a Modona,
conoscendo essere pernicioso al re che tal cosa avesse effetto, diventorno
apertamente fautori che a Modona si mandassino danari; e il simigliante fece il
cardinale Colonna, per dimostrare agli altri di anteporre a ogn'altro rispetto
l'utilità della sedia apostolica. La quale diligenza benché fusse bastata a
differire l'esecuzione delle convenzioni fatte con Alfonso da Esti, nondimeno,
non essendo perciò rimosso il fondamento di questi pensieri, avevano in animo
che il viceré di Napoli, il quale benché camminando lentamente veniva a Milano
con quattrocento lancie e duemila fanti, quando passava da Modena ne levasse i
fanti spagnuoli.
Ma a Milano, in
questi tempi medesimi, augumentò la copia delle vettovaglie: perché, temendo
l'ammiraglio che da' soldati che erano in Pavia non fusse occupato il ponte
fatto da lui in sul Tesino, per il quale venivano all'esercito le cose
necessarie, rimosse l'esercito minore da Moncia per mandare alla custodia del
ponte tremila fanti; degli altri una parte chiamò a sé, gli altri distribuì
parte in Marignano parte a Biagrassa vicina al ponte; onde agli imperiali,
ricuperata Moncia, perveniva più copiosamente la facoltà del cibarsi. Erano in
questo tempo nell'esercito franzese (l'alloggiamento fortissimo del quale si
distendeva dalla badia di Chiaravalle insino alla strada di Pavia, accostandosi
da quella strada a Milano per minore spazio di un tiro di artiglieria)
ottocento cavalli leggieri seimila svizzeri duemila fanti italiani diecimila
tra guasconi e franzesi; aveano al ponte del Tesino mille fanti tedeschi mille
italiani, il medesimo numero a Biagrassa, ove era Renzo da Ceri; in Noara
dugento lancie, tra in Alessandria e in Lodi duemila fanti: in Milano erano
ottocento lancie ottocento cavalli leggieri cinquemila fanti spagnuoli seimila
fanti tedeschi e quattromila italiani, oltre alla moltitudine del popolo
ardentissima con l'animo e con le opere contro a' franzesi; in Pavia il
marchese di Mantova, con cinquecento lancie seicento cavalli leggieri dumila
fanti spagnuoli e tremila italiani; a Castelnuovo di Tortonese erano con
Vitello tremila fanti, benché poco dipoi, essendo passate alcune genti franzesi
verso Alessandria, si ritirò a Serravalle per timore che non gli fusse impedita
la facoltà del ritornarsi a Genova; e i viniziani avevano seicento uomini
d'arme cinquecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, de' quali mandorno
mille fanti a Milano, a richiesta di Prospero desideroso di servirsi della fama
de' loro aiuti, e poco dipoi un'altra parte a Cremona, per il sospetto di un
trattato tenuto da Niccolò Varolo, il quale, per timore di non essere
incarcerato, fuggì di quella città.
Finalmente
l'ammiraglio, costretto dalla difficoltà delle vettovaglie, da' tempi
freddissimi e nevi grandissime, e dalla instanza e protesti che gli facevano i
svizzeri perché non voleano tollerare più tante incomodità, deliberò
discostarsi da Milano: ma innanzi publicasse il suo consiglio procurò che
Galeazzo Visconte dimandasse facoltà di andare a vedere madonna Chiara, famosa
per la forma egregia del corpo ma molto più per il sommo amore che gli portava
Prospero Colonna. Entrato in Milano introdusse ragionamenti di tregua, per i
quali convennono insieme, il dì seguente, allato a' ripari, Alarcone, Paolo
Vettori commissario fiorentino e Ieronimo Morone, e per l'ammiraglio Galeazzo
Visconte e il generale di Normandia; i quali proposono che si sospendessino
l'armi per tutto maggio, obligandosi a distribuire l'esercito per le terre: e
arebbono alla fine consentito di ridursi tutti di là dal Tesino, ma dannando i
capitani di Cesare l'interrompere colla tregua la speranza che aveano della
vittoria risposono non potere deliberare cosa alcuna senza la volontà del
viceré. Onde l'ammiraglio, due dì poi, mosse innanzi all'aurora verso la riva
del Tesino l'artiglierie, seguitò, come fu chiaro il giorno, con tutto
l'esercito, procedendo con tale ordine che pareva non recusasse di combattere.
La qual cosa come fu veduta nella città, non solo i soldati e il popolo
chiedevano con altissime voci di essere menati ad assaltargli ma i capitani e
gli uomini di maggiore autorità faceano appresso a Prospero Colonna instanza
del medesimo, dimostrandogli la facilità della vittoria, perché né di forze si
riputavano inferiori agli inimici e di animo sarebbono molto superiori; non
potendo essere che la ritirata non avesse messo timidità grande nella maggiore
parte di quello esercito, della quale molti fanti italiani, che all'ora
medesima si partivano, riferivano il medesimo. Ricordavangli la gloria infinita,
la perpetuazione eterna del nome suo, se tante vittorie già acquistate
confermasse con questa ultima gloria e trionfo. Ma nell'animo di Prospero era
sempre fisso di fuggire quanto poteva di sottomettersi all'arbitrio della
fortuna; e perciò, immobile nella sua sentenza non altrimenti che uno edificio
solidissimo al soffiare de' venti, rispondeva non essere ufficio di savio
capitano lasciarsi muovere dalle voci popolari, non menare i soldati suoi ad
assaltare gli inimici quando niuna altra speranza restava loro che difendersi.
Assai essersi vinto, assai gloria acquistata, avendo senza pericolo e senza
sangue costretto gli inimici a partirsi; né dovere essere infinita la cupidità
degli uomini, e potere ciascuno facilmente conoscere che senza comparazione maggiore
sarebbe la perdita se le cose succedessino sinistramente che il guadagno se le
succedessino prosperamente. Avere sempre con queste arti condotte a onorato
fine le cose sue, sempre per esperienza conosciuto più nuocere a' capitani la
infamia della temerità che giovargli la gloria della vittoria: perché in parte
di quella non veniva alcuno, tutta e intera s'attribuiva al capitano; ma la
laude de' successi prosperi della guerra, almeno secondo la opinione degli
uomini, comunicarsi a molti. Non volere, quando era già vicino alla morte,
andare dietro a nuovi consigli, né abbandonare quegli i quali, seguitati da lui
per tutta la vita passata, gli aveano dato gloria utilità e grandezza.
Divisonsi i franzesi in due parti: l'ammiraglio con la parte maggiore si fermò
a Biagrassa, terra distante da Milano quattordici miglia, gli altri mandò a
Rosa distante da Milano sette miglia e, intra se medesime, miglia...
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