VI. Il conclave e l'elezione di Clemente VII. Aspettazione dell'opera del
nuovo pontefice. Vano tentativo di Renzo da Ceri contro la rocca di Arona.
Morte di Prospero Colonna; giudizio dell'autore. Variazioni nel modo di
condurre le guerre dopo Carlo VIII. Fallimento dell'impresa di Cesare contro la
Francia.
Ma pochissimi
dì poi che l'ammiraglio si era levato di quello alloggiamento, nel quale era
stato circa..., succedette la creazione del nuovo pontefice, essendo già stati
nel conclave cinquanta dì: nel quale entrati da principio trentasei cardinali e
sopravenuti poi tre cardinali, consumorno tanto tempo con varie contenzioni;
dividendo gli animi loro non solamente le volontà diverse di Cesare e del re di
Francia ma eziandio la grandezza del cardinale de' Medici. Il quale, oppugnato
da tutti quegli che seguitavano l'autorità del re, da alcuni di coloro ancora
che dipendevano da Cesare, aveva in arbitrio suo le voci concordi di sedici
cardinali, disposti assolutamente a eleggere lui e a non eleggere alcuno altro
senza il suo consentimento, e promesse occulte da cinque altri di dare il voto
alla elezione che si facesse di lui proprio; e lo favorivano oltre a questo lo
imbasciadore di Cesare e tutti gli altri che l'autorità d'esso seguitavano: i
quali fondamenti benché avesse avuti quasi tutti alla morte del pontefice
Lione, nondimeno, era ora entrato nel conclave con la deliberazione più
costante di non abbandonare, né per lunghezza di tempo né per qualunque
accidente, le sue speranze, fondate principalmente perché alla elezione del
pontefice è necessario concorrino i due terzi delle voci de' cardinali
presenti. Né gli ritraeva da queste divisioni o il pericolo comune d'Italia o
proprio dello stato della Chiesa; anzi, secondo che variavano i progressi della
guerra, andava ciascuna delle parti differendo la elezione, sperando favore
dalla vittoria di quegli che gli erano propizi; e si sarebbe differita molto
più tempo se ne' cardinali avversi al cardinale de' Medici, i quali erano quasi
tutti dei più vecchi del collegio, fusse stata la medesima unione a eleggere
qualunque di loro che era in non eleggere lui, e deposte le cupidità
particolari si fussino contentati di questo fine, che il cardinale de' Medici
non ascendesse al pontificato. Ma è molto difficile che mediante la concordia
nella quale è mescolata discordia e ambizione si pervenga al fine che
comunemente si cerca. Il cardinale Colonna, inimico acerbissimo del cardinale
de' Medici, ma per natura impetuoso e superbissimo, sdegnato co' cardinali
congiunti seco perché recusavano di eleggere pontefice il cardinale Iacobaccio
romano, uomo della medesima fazione e molto dependente da lui, andò
spontaneamente a offerire al cardinale de' Medici di aiutarlo al pontificato:
il quale, per una cedola di mano propria, secretissimamente gli promesse
l'officio della vicecancelleria che risedeva in persona sua, e il palazzo
suntuosissimo il quale, edificato già dal cardinale di San Giorgio, era stato
conceduto a lui dal pontefice Lione: donde acceso tanto più il cardinale della
Colonna indusse nella sentenza sua il cardinale Cornaro e due altri. La
inclinazione de' quali come fu nota cominciorono molti degli altri, tirati,
come spesso interviene ne' conclavi, da viltà o ambizione, a fare a gara di non
essere degli ultimi a favorirlo; in modo che la notte medesima fu adorato per
pontefice, di concordia comune di tutti, e la mattina seguente, che fu il
giorno decimonono di novembre, fatta secondo la consuetudine la elezione per
solenne scrutinio; il dì medesimo precisamente che due anni innanzi era
vittorioso entrato in Milano. Credettesi che trall'altre cagioni gli avesse
giovato l'entrata grande di benefici e uffici ecclesiastici, perché i cardinali
quando entrorno nel conclave feciono concordemente una costituzione che
l'entrate di quel che fusse eletto pontefice si distribuissino con eguale
divisione negli altri. Voleva continuare nel nome di Giulio; ma ammonito da
alcuni cardinali essersi osservato che quegli che, eletti pontefici, non aveano
mutato il nome avevano tutti finita la vita loro infra uno anno, assunse il
nome di Clemente settimo, o per essere vicina la festività di quel santo o
perché alludesse allo avere, subito che fu eletto, perdonato e ricevuto in
grazia il cardinale di Volterra con tutti i suoi: il quale cardinale benché
Adriano avesse, negli ultimi dì della vita, dichiarato inabile a intervenire
nel conclave, vi era entrato per concessione del collegio, e stato insino
all'estremo pertinace perché Giulio non fusse eletto.
Grandissima
certamente per tutto il mondo era l'estimazione del nuovo pontefice; però la
tardità della elezione, maggiore che già fusse accaduto lunghissimo tempo,
pareva ricompensata con l'avere posto in quella sedia una persona di somma
autorità e valore; perché aveva congiunta ad arbitrio suo la potenza dello
stato di Firenze alla potenza grandissima della Chiesa, perché aveva tanti anni
a tempo di Lione governato quasi tutto il pontificato, perché era riputato
persona grave e costante nelle sue deliberazioni, e perché, essendo state attribuite
a lui molte cose che erano procedute da Lione, ciascuno affermava esso essere
uomo pieno di ambizione, di animo grande e inquieto e desiderosissimo di cose
nuove; alle quali parti aggiugnendosi lo essere alieno dai piaceri e assiduo
alle faccende, non era alcuno che non aspettasse da lui fatti estraordinari e
grandissimi. La elezione sua ridusse subito in somma sicurtà lo stato della
Chiesa. Perché il duca di Ferrara, spaventato che in quella sedia fusse asceso
un tale pontefice, né sperando più di ottenere Modena per la venuta del viceré
di Napoli, meno sperando ne' franzesi, i quali prima per mezzo di Teodoro da
Triulzi venuto nel campo suo gli facevano, perché aderisse a loro, grandissime
offerte, lasciata sufficiente custodia in Reggio e in Rubiera, ritornò a
Ferrara. Quietoronsi similmente le cose della Romagna; ove, sotto nome di
opprimere la fazione inimica ma in verità stimolato da' franzesi, era col
seguito de' guelfi entrato Giovanni da Sassatello, scacciatone nel pontificato
di Adriano per la potenza de' ghibellini.
Ma diviso che
fu l'esercito franzese tra Biagrassa e Rosa, l'ammiraglio, appresso al quale
non erano rimasti più che quattromila svizzeri, licenziò come inutili i fanti
del Delfinato e di Linguadoca e mandò l'artiglierie grosse di là dal Tesino,
con intenzione di aspettare in quello alloggiamento le genti che il re
preparava per soccorrerlo, perché non temeva potervi essere sforzato e vi aveva
abbondanza di vettovaglie: e nondimeno, per non perdere del tutto il tempo,
mandò Renzo da Ceri con settemila fanti italiani a pigliare Arona, terra
fortissima ne' confini del Lago Maggiore, posseduta da Anchise Visconte; in
soccorso del quale Prospero Colonna mandò da Milano mille dugento fanti. La
rocca di Arona soprafà tanto la terra che è inutile il possedere questa a chi
non possiede quella: però Renzo attendeva a battere la rocca, e avendovi dati
più assalti ove furno morti molti de' suoi, finalmente, poiché invano v'ebbe
consumato circa a un mese, si partì; confermata l'opinione, che già molti anni
era ampliata per tutta Italia, che più, in niuna parte, le azioni sue
corrispondessino alla fama acquistata nella difesa di Crema.
Camminava in
questo tempo alla morte Prospero Colonna, stato già ammalato otto mesi, non
senza sospetto di veleno o di medicamento amatorio: però, dove prima gli era
molestissima la venuta del viceré, non potendo poi più reggere le cure della
guerra, l'aveva continuamente sollecitata. Venne adunque il viceré; ma
accostatosi a Milano, per mostrare reverenza alla virtù e fama di tale
capitano, soprastette qualche dì a entrarvi: pure, intendendo essere ridotto
allo estremo e già alienato dello intelletto, entrò, per desiderio di vederlo,
in tempo che sopravisse poche ore poi; benché altri dichino che ritardò a
entrarvi dopo la morte, che succedette il penultimo dì di quello anno. Capitano
certamente, in tutta la sua età, di chiaro nome, ma salito negli ultimi anni
della vita in grandissima riputazione e autorità; perito dell'arte militare e
in quella di grandissima esperienza; ma non pronto a pigliare con celerità
l'occasioni che gli potessino porgere i disordini o la debolezza degli inimici,
come anche per il suo procedere cautamente non lasciava facile a loro
l'occasione di opprimere lui; lentissimo per natura nelle sue azioni e a cui tu
dia meritamente il titolo di cuntatore: ma se gli debbe la laude d'avere
amministrato le guerre più co' consigli che con la spada, e insegnato a
difendere gli stati senza esporsi, se non per necessità, alla fortuna de' fatti
d'arme. Perché all'età nostra ha avute molte varietà il governo della guerra:
conciossiaché, innanzi che Carlo re di Francia passasse in Italia, sostenendosi
la guerra molto più co' cavalli di armadura grave che co' fanti, ed essendo le
macchine che si usavano contro alle terre incomodissime a condurre e a
maneggiare, se bene tra gli eserciti si commettevano spesso le battaglie,
piccolissime erano le uccisioni, rarissimo il sangue che vi si spargeva, e le
terre assaltate tanto facilmente si difendevano (non per la perizia della
difesa ma per la imperizia dell'offesa) che non era alcuna terra così piccola o
così debole che non sostenesse per molti dì gli eserciti grandi degli inimici:
di maniera che con grandissima difficoltà si occupavano con l'armi gli stati
posseduti da altri. Ma sopravenendo il re Carlo in Italia, il terrore di nuove
nazioni, la ferocia de' fanti ordinati a guerreggiare in altro modo, ma sopra
tutto il furore delle artiglierie, empié di tanto spavento tutta Italia che a
chi non era potente a resistere alla campagna niuna speranza di difendersi
rimaneva; perché gli uomini, imperiti a difendere le terre, subito che
s'approssimavano gli inimici s'arrendevano, e se alcuna pure si metteva a
resistere era in brevissimi dì spugnata. Così il reame di Napoli e il ducato di
Milano furno quasi in un dì medesimo vinti e assaltati; così i viniziani, vinti
in una battaglia sola, abbandonorno subitamente tutto lo imperio che aveano in
terra ferma; così i franzesi, non veduti non che altro gli inimici, lasciorno
il ducato di Milano. Cominciorno poi gli ingegni degli uomini, spaventati dalla
ferocia delle offese, ad aguzzarsi a' modi delle difese, rendendo le terre
munite con argini con fossi con fianchi con ripari con bastioni; onde, aiutando
anche molto questo effetto la moltitudine delle artiglierie, nocive più nelle
difensioni che nelle oppugnazioni, sono ridotte a grandissima sicurtà, le terre
che sono difese, di non potere essere spugnate. A queste invenzioni dette, a
tempo de' padri nostri, forse in Italia principio la recuperazione di Otranto;
dove Alfonso duca di Calavria entrato trovò, fatti da' turchi, molti ripari
incogniti agli italiani; ma rimasono più nella memoria degli uomini che
nell'esempio. Prospero con queste arti difese due volte più chiaramente il
ducato di Milano, esso medesimo, o solo o primo di alcuno altro, e offendendo e
difendendo, coll'impedire agli inimici le vettovaglie, con l'allungare la
guerra, tanto che 'l tedio la lunghezza la povertà i disordini gli consumavano;
e vinse e difese senza tentare giornate, senza combattere, non traendo non che
altro fuori la spada, non rompendo una sola lancia: onde aperta la via da lui a
quegli che seguitorno, molte guerre, continuate molti mesi, si sono vinte più con
la industria con l'arti con la elezione provida de' vantaggi, che con l'armi.
Queste cose si
feciono in Italia l'anno mille cinquecento ventitré. Preparoronsi per l'anno
medesimo con grande espettazione molte cose di là da' monti, le quali non
partorirno effetti degni di tanti prìncipi. Perché Cesare e il re di
Inghilterra aveano convenuto insieme e promesso al duca di Borbone di rompere
con armi potenti la guerra, l'uno in Piccardia l'altro nella Ghienna; ma i
movimenti del re di Inghilterra furno nella Piccardia quasi di niuno momento, e
quel che tentò il duca di Borbone nella Borgogna si dimostrò subito vano,
perché, mancandogli i danari per pagare i fanti tedeschi, alcuni de' capitani
convenuti col re di Francia ne ritrassero una parte, onde egli andò a Milano:
ove Cesare, non gli piacendo che passasse in Ispagna forse per non dare
perfezione al matrimonio, come era il suo desiderio, mandatogli per Beuren il
titolo di luogotenente suo generale in Italia, lo confortò che si fermasse. Né
dalla parte di Spagna procederono a Cesare le cose felicemente. Il quale,
benché ardente alla guerra fusse venuto a Pampalona per entrare in Francia
personalmente, e di già avesse mandato l'esercito di là da' monti Pirenei, il
quale avea occupato Salvatierra non molto distante da San Gianni di Piè di
Porto, nondimeno, essendo stata maggiore la prontezza che non era la potenza
(perché, per mancamento di danari, né poteva sostentare tante forze quanto
sarebbe stato necessario a tanta impresa né aveva, per la medesima cagione,
potuto raccorre l'esercito se non quasi alla fine dell'anno, donde ne' luoghi
freddi la stagione dell'anno gli moltiplicava le difficoltà, impedivano la
strettezza delle vettovaglie difficili a condursi per tanto cammino), fu
costretto a dissolvere l'esercito, ragunato contro al consiglio quasi di tutti:
tanto che Federigo di Tolleto duca di Alva, principe vecchio e di autorità,
diceva, nel fervore della guerra, Cesare, in molte cose simile al re Ferdinando
avolo materno, rappresentare più in questa deliberazione Massimiliano avolo
paterno.
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