VII. Accordi fra i collegati per condurre a fine la guerra. Contegno del
pontefice. Fortunate azioni del marchese di Pescara e di Giovanni de' Medici.
Movimenti degli eserciti avversari. Azione dei veneziani a Garlasco e di
Giovanni d'Urbino a Sartirana. Altri fatti di guerra nel ducato di Milano.
Séguita l'anno
mille cinquecento ventiquattro; nel principio del quale, invitando le
difficoltà de' franzesi i capitani cesarei a pensare di porre fine alla guerra,
chiamorno a Milano il duca di Urbino e Pietro da Pesero proveditore viniziano,
per consultare come s'avesse a procedere nella guerra: nel quale consiglio fu
unitamente deliberato che, subito a Milano giugnessino seimila fanti tedeschi,
i quali il viceré aveva mandato a soldare, l'esercito cesareo e de' viniziani
unito insieme si avvicinasse agli inimici per cacciargli, o coll'armi o colla
fame, di quello stato. Alla qualcosa, giudicando avere forze sufficienti,
niente altro repugnava che la difficoltà de' danari; de' quali dovendosi, per
gli stipendi corsi, quantità grande a' soldati, non si sperava potergli fare
muovere di Milano e dell'altre terre se prima non si pagavano; né manco era
necessario, avendo a stare l'esercito alla campagna, provedere che per
l'avvenire corressino ordinatamente di tempo in tempo i pagamenti. Sollevorono
questa difficoltà in parte i milanesi, desiderosi di liberarsi dalle molestie
della guerra, i quali prestorno al duca [novanta]mila ducati: disponendogli a
questo più facilmente l'esempio de' danari prestati quando Lautrech stette
intorno a Milano, [i quali] erano stati dipoi, dell'entrate ducali, restituiti
prontamente. Porse similmente a questa difficoltà la mano il pontefice; il
quale, avendo sospettissima per la memoria delle cose passate la vittoria del
re di Francia (benché con sommo artificio agli uomini che il re gli avea
mandati dimostrasse il contrario), numerò occultissimamente all'oratore di
Cesare ventimila ducati, e volle che i fiorentini, a' quali il viceré
dimandava, per virtù della confederazione fatta vivente Adriano, nuova
contribuzione, pagassino come per ultimo residuo trentamila ducati.
Né aveva perciò
il pontefice nell'animo di dimostrarsi per l'avvenire più favorevole all'una
parte che all'altra; anzi, con tutto che Cesare e il re, mandatogli, subito che
e' fu assunto al pontificato, l'uno Beuren l'altro San Marsau, si sforzassino
congiugnerlo a sé, deliberava, rimossi che fussino i pericoli presenti, usando
quella moderazione che nelle discordie de' cristiani conviene a' pontefici,
attendere come non inclinato più all'uno che all'altro a procurare la pace: la
quale deliberazione, grata al re, che aveva temuto che pontefice non avesse
contro a lui la medesima disposizione che aveva avuto cardinale, dispiaceva per
il contrario a Cesare, parendogli che, per la passata congiunzione, per
l'averlo favorito dopo la morte di Lione e nella assunzione al pontificato,
fusse conveniente che non si separasse da lui. Però gli fu molestissimo quel
che gli fu significato per parte del pontefice, che, benché non spogliasse
l'animo della benivolenza portatagli insino a quel dì, nondimeno, che avendo
deposta la persona privata e diventato padre comune, era necessitato in futuro
a non fare offici se non comuni.
Ma mentre che
il viceré si prepara per andare contro agli inimici mandò Giovanni de' Medici a
campo a Marignano, la quale terra insieme con la fortezza si arrendé; e non
molti dì poi il marchese di Pescara, il quale, disposto a non militare sotto
Prospero Colonna, non prima che nell'estremità della sua vita era venuto alla
guerra, avendo notizia che nella terra di Robecco alloggiavano con monsignore
di Baiardo quattrocento cavalli leggieri e molti fanti, chiamato in compagnia
Giovanni de' Medici, assaltatigli improvisamente, presa la maggiore parte degli
uomini e de' cavalli, e dissipati e messi in fuga gli altri, ritornò subito a
Milano, per non dare tempo agli inimici, che erano a Biagrassa, di seguitarlo:
lodato in questo fatto di industria e di ardore ma molto più di celerità,
perché Robecco, distante non più che due miglia da Biagrassa, è distante da
Milano, donde erano partiti, diciassette miglia.
Ridotte a
questo grado le cose della guerra, che la speranza de' franzesi consisteva che
agli inimici avessino a mancare danari, quella degli imperiali che a' franzesi
avessino a mancare le vettovaglie, perché non speravano potergli cacciare per
forza dello alloggiamento fortissimo di Biagrassa, e nondimeno aspettando
ciascuno soccorso, questi de' fanti tedeschi quegli de' svizzeri e altri fanti,
l'ammiraglio, fatto abbruciare Rosa, ritirò quelle genti a Biagrassa,
attendendo per incomodare gli inimici a fare correre e abbruciare tutto il
paese. Ma venuti finalmente i fanti tedeschi, l'esercito imperiale, nel quale
erano principali il duca di Milano il duca di Borbone il viceré di Napoli il
marchese di Pescara, con mille secento uomini d'arme mille cinquecento cavalli
leggieri settemila fanti spagnuoli dodicimila tedeschi e mille cinquecento
italiani, lasciati alla guardia di Milano quattromila fanti, andò ad alloggiare
a Binasco; ove, non molti dì poi, si unì con loro il duca di Urbino con secento
uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti de' viniziani. Nel quale
tempo il castello di Cremona, non potendo più resistere alla fame e avendo
Federigo da Bozzole, che era in Lodi, tentato invano di soccorrerlo, s'arrendé
agli imperiali. Andò dipoi l'esercito a Casera, terra propinqua a cinque miglia
a Biagrassa; dove l'ammiraglio, il quale aveva distribuito tra Lodi, Novara e
Alessandria dugento lancie e cinquemila fanti, stava fermo, con ottocento
lancie, ottomila svizzeri (a' quali pochi dì poi se ne aggiunsono più di tremila
altri) e con quattromila fanti italiani e dumila tedeschi; né ancora esausto di
vettovaglie, perché n'avevano nell'esercito e ne' luoghi vicini copia per due
mesi. Impossibile era l'assaltargli, senza grandissimo pericolo, in
alloggiamento tanto forte. Però gli imperiali, avendo più volte tentato di
passare il Tesino, per interrompere che da quella parte non passassino
vettovaglie, per insignorirsi delle terre tenevano di là dal Tesino e per
impedire che venendo soccorso di Francia non si unisse con loro, ma soprastando
per timore che Milano non restasse in pericolo, finalmente deliberorno di
passare, giudicando che per la confidenza che avevano nel popolo milanese non
fusse necessario molto presidio di soldati. Però ritornò il duca a Milano e con
lui Giovanni de' Medici, e vi restorno seimila fanti. Così passorno, il secondo
dì di marzo, il fiume del Tesino sotto Pavia, in su tre ponti: alloggiò la
battaglia a Gambalò, il resto dello esercito nelle ville vicine. Per la passata
de' quali, l'ammiraglio mandò subito Renzo da Ceri alla guardia di Vigevano; e
temendo di non perdere quella terra e gli altri luoghi di Lomellina, i quali
perduti sarebbe restato quasi assediato, passò egli, a' cinque dì, con tutto lo
esercito, lasciati a Biagrassa cento cavalli e mille fanti, e alloggiò la
vanguardia sua intorno a Vigevano, la battaglia a Mortara a due miglia di
Gambalò, dove era il viceré; nel quale alloggiamento, molto sicuro, aveva
comode le vettovaglie, perché avevano sicura la strada di Monferrato, Vercelli
e Novara, e le vettovaglie venivano di terra in terra, tutte vicine l'una a
l'altra e quasi per condotto. Presentò l'ammiraglio, due dì continui, la
battaglia agli inimici; i quali, benché si conoscessino superiori di numero e
di virtù di soldati, recusorno di farla, non volendo mettere in pericolo la
speranza del vincere quasi certa, perché per lettere intercette aveano
presentito che a essi cominciavano a mancare danari.
Passato che
ebbe l'esercito imperiale il Tesino, il duca di Urbino con le genti viniziane
andò a campo a Garlasco, terra forte di sito, fossi e ripari, dove erano
quattrocento fanti italiani; il quale, posto tra Pavia e Trumello di là dal
Tesino, dove egli aveva disegnato di alloggiare, interrompeva non solo a lui ma
a tutto il resto dello esercito le vettovaglie: e fatta la batteria gli dette
il dì medesimo l'assalto, nel quale essendo quasi ributtato, molti de' suoi
passorono per l'acqua de' fossi insino alla gola, essendovi ancora alcuni de'
fanti di Giovanni de' Medici; e assaltorono con tale impeto che vi entrorono
per forza, con grandissima uccisione di quegli di dentro. Accostossi dipoi
l'esercito a San Giorgio verso la Pieve al Cairo, per accostarsi a Sartirano,
terra forte situata in sulla riva di qua dal Po, e opportuna a impedire loro le
vettovaglie; alla custodia della quale erano Ugo de' Peppoli e Giovanni da
Birago con alcuni cavalli e con [secento] fanti. Ma andatovi Giovanni d'Urbina,
coll'artiglierie e con dumila fanti spagnuoli, espugnò prima la terra e poi la
rocchetta, uccisi quasi tutti i fanti e presi i capitani. Mossonsi i franzesi
per soccorrere Sartirano, ma prevenuti dalla celerità degli inimici, inteso nel
cammino quel che era succeduto, fermorno tutto l'esercito a Mortara.
Né ancora
nell'altre parti del ducato di Milano procedevano felicemente le cose loro. I
soldati lasciati in Milano costrinsono ad arrendersi la terra di San Giorgio
sopra Moncia, dalla quale andavano vettovaglie a Biagrassa; Vitello ricuperò la
terra della Stradella, gli uomini della quale costretti dalla iniquità de'
soldati aveano chiamato fanti da Lodi; Paolo Luzzasco scontratosi in molti
cavalli de' franzesi gli messe in fuga; e Federico da Bozzole andato da Lodi ad
assaltare Pizzichitone ne riportò, in cambio della vittoria, ferite e morti di
molti de' suoi. Solamente, alcuni cavalli de' franzesi, scorrendo tra Piacenza
e Tortona, tolsono quattordicimila ducati mandati allo esercito di Cesare.
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