IX. I soldati di Cesare prendono Fonterabia; vani tentativi del pontefice
di condurre i prìncipi alla pace o alla tregua; pretese del re d'Inghilterra al
trono di Francia, e ambizione del cardinale eboracense. Accordi di Cesare e del
re d'Inghilterra per muovere la guerra in Francia; il pontefice avverso
all'impresa. Occupazione di Nizza. Vicende della guerra in Provenza.
Deliberazione del re di Francia di portare la guerra in Italia. Ritirata dei
soldati di Cesare dalla Provenza. Gli eserciti nemici nel ducato di Milano.
Aveva Cesare,
nel principio dell'anno presente, mandato il campo a Fonterabia, terra di
brevissimo spazio, posta in sull'estuario che divide il regno di Francia dalla
Spagna; e ancora che quel luogo fusse munitissimo d'uomini di artiglierie e di
vettovaglie, né mancasse tempo a coloro che lo difendevano di ripararlo,
nondimeno, per la imperizia de' franzesi, i ripari furno fatti tanto
inavvertentemente che, rimanendo esposti alle offese degli inimici, la
necessità gli costrinse a convenire di uscirsene salvi. Recuperata Fonterabia
si distendevano più oltre i suoi pensieri, rifiutati i conforti e l'autorità
del pontefice; il quale, avendo mandato nel principio dell'anno, per trattare o
pace o sospensione dell'armi, a Cesare al re di Francia e al re di Inghilterra,
aveva trovato gli animi mal disposti: perché il re, acconsentendo alla tregua
per due anni, ricusava la pace, non sperando potere ottenere in quella
condizioni che gli soddisfacessino; Cesare, dannando la tregua per la quale si
dava tempo al re di Francia a riordinarsi a nuova guerra, desiderava la pace; e
al re d'Inghilterra era molesta qualunque convenzione si facesse per mezzo del
pontefice, per il desiderio che avea che il trattamento della concordia
finalmente del tutto si referisse a lui, inducendolo a questo gli ambiziosi
consigli del cardinale eboracense. Il quale, veramente esempio a' nostri dì di
immoderata superbia, benché nato di infima condizione e di sangue sordidissimo,
era salito appresso a quel re in tanta autorità che era manifestissimo a
ciascuno che la volontà del re senza la approvazione di Eboracense fusse di
niuno momento, e per contrario fusse validissimo tutto quello che Eboracense
solo deliberasse. Ma dissimulavano il re e il cardinale con Cesare questo
pensiero, dimostrandosi ardenti a muovere la guerra contro al reame di Francia;
il quale il re di Inghilterra pretendeva legittimamente appartenersegli per
varie ragioni, pigliandone la prima origine da Adovardo cognominato..., re
d'Inghilterra. Il quale essendo, insino nell'anno della salute nostra mille
[trecento ventotto], morto senza figliuoli maschi Carlo quarto, cognominato
bello, re di Francia, della sorella del quale era nato Adovardo, aveva fatto
instanza, come più prossimo de' parenti maschi al re morto, essere dichiarato
re di quel reame; ma escluso dal parlamento universale di tutto il regno, nel
quale fu determinato che per virtù della legge salica, legge antichissima di
quel reame, fussino inabili a succedere non solo le femmine ma ciascuno nato
per linea femminina, assunto non molto dipoi il titolo di re di Francia,
assaltò il regno con esercito potente; dove ottenute molte vittorie, e contro a
Filippo di Valois, il quale con consentimento comune era stato dichiarato
successore di Carlo bello, e contro a Giovanni suo figliuolo il quale condusse
prigione in Inghilterra, contrasse finalmente pace con lui; per la quale,
rimanendogli molte provincie e stati del reame di Francia, rinunziò al titolo
regio. Ma essendo a questa pace, che non fu lungamente osservata, succedute ora
lunghe guerre ora lunghe tregue, ultimamente Enrico quinto re d'Inghilterra,
confederatosi con Filippo duca di Borgogna, alienato dalla corona di Francia
per la uccisione del duca Giovanni suo padre, ebbe successi tanto prosperi
contro a Carlo sesto, re alienato dallo intelletto, che insieme con la città di
Parigi occupò quasi tutto il reame di Francia; nella quale città avendo trovato
il re insieme con la moglie e con Caterina sua figliuola, si congiunse in
matrimonio con quella, facendo al re demente consentire che, nonostante vivesse
Carlo suo figliuolo, il regno, morto il padre, si trasferisse in lei e ne' suoi
figliuoli: per virtù del quale titolo, benché invalido e inetto, fu, dopo la
morte di Enrico, coronato solennemente in Parigi Enrico sesto suo figliuolo re
di Francia e di Inghilterra. Ma ancoraché poi Carlo, dopo la morte del padre
nominato Carlo settimo, per l'occasione dell'essere suscitate in Inghilterra
tra quegli del sangue regio gravissime guerre, cacciasse gli Inghilesi,
eccettuata la terra di Calès, di là dal mare Oceano, nondimeno non omessono per
questo i re di Inghilterra di usare il titolo di re di Francia. Queste cagioni
potevano muovere Enrico ottavo alla guerra, sicuro più che fusse stato alcuno
degli antecessori nel suo reame: perché essendo stati depressi dai re della
famiglia di Iorch (era questo il nome d'una fazione) i re della famiglia di
Lancastro, nome dell'altra, i seguaci della casa di Lancastro, non vi essendo
superstite più alcuno di quel sangue, sollevorono al regno Enrico di Richemont,
come più prossimo a loro; il quale, superati ed estinti i re avversari, per
regnare con maggiore fermezza e autorità si copulò legittimamente con una
figliuola di Adovardo penultimo re della casa di Iorch, donde pareva che in
Enrico ottavo, nato di questo matrimonio, fussino trasferite tutte le ragioni
dell'una e dell'altra famiglia; le quali, per le insegne portavano, si
chiamavano volgarmente la rosa rossa e la rosa bianca. Nondimeno, non incitava
principalmente il re di Inghilterra la speranza di conseguire con l'armi il
reame di Francia, perché in questo conosceva innumerabili difficoltà, quanto la
cupidità di Eboracense che la lunghezza de' travagli e la necessità delle
guerre avesse finalmente a partorire che nel suo re avesse a essere rimesso
l'arbitrio della pace, quale sapendo dovere dependere dalla sua autorità,
pensava, in uno tempo medesimo, e fare risonare gloriosamente per tutto il
mondo il nome suo e stabilirsi la benivolenza del re di Francia, al quale
occultamente inclinava. Però non proponeva di obligarsi a quelle condizioni
alle quali, se avesse [avuto] l'animo ardente a tanta guerra, era conveniente
si obligasse.
Questa
occasione incitava Cesare alla guerra, e molto più la speranza che la grazia
l'autorità e il seguito grande che il duca di Borbone soleva avere in quel reame
avesse a sollevare molto il paese. Perciò, con tutto che molti de' suoi lo
consigliassino che, mancandogli danari e avendo compagni di fede incerta,
deposti i pensieri di cominciare una guerra tanto difficile, consentisse che il
pontefice trattasse la sospensione dell'armi, convenne col re di Inghilterra e
col duca di Borbone: che il duca passasse nel reame di Francia con parte dello
esercito che era in Italia; al quale, come avesse passato i monti, pagasse il
re di Inghilterra ducati centomila per le spese della guerra del primo mese,
restando in arbitrio suo o continuare di mese in mese questa contribuzione o di
passare in Francia con esercito potente, per fare guerra dal primo dì di luglio
per tutto il mese di dicembre, ricevendo dallo stato di Fiandra tremila cavalli
e mille fanti con sufficiente artiglieria e munizione: che ottenendosi la
vittoria, si restituisse al duca di Borbone lo stato toltogli dal re di
Francia; acquistassesi per lui la Provenza, alla quale pretendeva per la
cessione fatta dopo la morte di Carlo ottavo dal duca dell'Oreno ad Anna
duchessa di Borbone, la quale tenesse con titolo di re; giurasse, innanzi al
pagamento de' centomila ducati, il re di Inghilterra in re di Francia e
prestassegli omaggio, il che non facendo, questa capitolazione fusse nulla; né
potesse Borbone trattare, senza consenso di tutti due, col re di Francia:
rompesse Cesare la guerra nel tempo medesimo da' confini di Spagna, e che gli
oratori di Cesare e del re di Inghilterra procurassino che i potentati di Italia,
per assicurarsi in perpetuo dalla guerra de' franzesi, concorressino con denari
a questa impresa; cosa che riuscì vana, perché il pontefice non solo recusò di
contribuire ma dannò espressamente questa impresa, predicendo che non solo non
arebbe in Francia prospero successo ma che eziandio sarebbe cagione che la
guerra ritornasse in Italia più potente e più pericolosa che prima.
La quale
confederazione come fu fatta, benché il duca di Borbone, il quale costantemente
recusò di riconoscere il re di Inghilterra in re di Francia, confortasse che
più presto si andasse con l'esercito verso Lione per accostarsi al suo stato,
nondimeno fu deliberato si passasse in Provenza, per la facilità che arebbe
Cesare di mandargli soccorso di Spagna e per servirsi dell'armata che, per
comandamento e co' danari di Cesare, si preparava a Genova. I progressi di
questa spedizione furno che Borbone e con lui il marchese di Pescara,
dichiarato a quella guerra (perché di ubbidire a Borbone si sdegnava) capitano generale
di Cesare, passorno a Nizza; ma con forze molto minori di quelle che erano
destinate: perché a cinquecento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri
quattromila fanti spagnuoli tremila fanti italiani e cinquemila tedeschi si
doveano aggiugnere trecento uomini d'arme dell'esercito di Italia e cinquemila
altri fanti tedeschi, ma questi per mancamento di danari non vennono; e il
viceré, impotente a soldare nuovi fanti, come era stato deliberato ne' primi
consigli, per opporsi a Michelantonio marchese di Saluzzo (il quale, cacciato
del suo stato, era con mille fanti in sulla montagna), riteneva gli uomini
d'arme per la guardia del paese. Aggiugnevasi che l'armata di Cesare, una delle
principali speranze, guidata da don Ugo di Moncada allievo del Valentino, uomo
di pravo ingegno e di pessimi costumi, appariva inferiore alla armata del re di
Francia; la quale partita da Marsilia si era fermata nel porto di Villafranca.
Entrorno nondimeno nella Provenza; la Palissa la Foglietta Renzo da Ceri e
Federigo da Bozzole, capitani del re, perché non aveano forze sufficienti a
opporsi si andavano continuamente ritirando. Una parte, camminando allato al
mare, spugnò la torre imminente al porto di Tolone, dalla quale furno condotti
all'esercito due cannoni. Arrendessi Asais, città, per la sua degnità e perché
vi risiede il parlamento, principale della Provenza, e molte altre terre del
paese. Desiderava il duca di Borbone che da Asais, discostandosi dal mare, si
cercasse di passare il fiume del Rodano, per entrare più nelle viscere dello
stato del re di Francia, mentre che erano deboli le sue provisioni; perché le
genti d'arme sue, avendo patito molto e maltrattate ne' pagamenti dal re, molto
esausto di danari e che non aspettava che gli inimici di Lombardia passassino
in Francia, erano ridotte in tale disordine che non si potevano così presto
riordinare; e diffidando, come sempre, della virtù de' fanti del suo reame era
necessitato aspettare, innanzi uscisse in campagna, la venuta di fanti svizzeri
e tedeschi: nel quale spazio di tempo pensava Borbone di potere, passando il
Rodano, fare qualche progresso importante. Ma altra fu la sentenza del marchese
di Pescara e degli altri capitani spagnuoli; i quali per l'opportunità del mare
desideravano, come sapevano essere la intenzione di Cesare, che si acquistasse
Marsilia, porto opportunissimo a molestare con l'armate marittime la Francia e
a passare di Spagna in Italia. Alla volontà de' quali non potendo repugnare il
duca di Borbone, posero il campo a Marsilia; nella quale città era entrato
Renzo da Ceri con quegli fanti italiani che da Alessandria e da Lodi erano
stati menati in Francia. Intorno a Marsilia dimororno vanamente quaranta dì,
perché, benché battessino da più parti le mura con l'artiglierie e tentassino
di fare le mine, nondimeno si opponevano alla spugnazione molte difficoltà: la
muraglia assai forte di antica struttura, la virtù de' soldati, la disposizione
del popolo, divotissimo a' re di Francia e inimicissimo al nome spagnuolo, per
la memoria che Alfonso vecchio d'Aragona, ritornando da Napoli con armata
marittima in Ispagna, avea all'improviso saccheggiata quella città, la speranza
del soccorso così dalla parte del mare come perché il re di Francia, venuto in
Avignone città del pontefice posta in sul Rodano, raccoglieva continuamente
grande esercito. Aggiugnevasi che all'esercito mancavano danari. Mancavano
similmente le speranze che il re di Francia, assaltato da altre parti, fusse
impedito a volgere a una parte sola tutti i suoi provedimenti: perché il re di
Inghilterra, con tutto che appresso a Borbone avesse mandato Riccardo Pacceo,
ricusava di pagare i centomila ducati per il secondo mese; meno faceva segni di
muovere la guerra nella Piccardia, anzi, avendo ricevuto nell'isola Giovan
Giovacchino dalla Spezie mandatogli dal re di Francia, e rispondendo il
cardinale sinistramente agli oratori di Cesare, dava dell'animo suo non
mediocre sospetto. Né dalla parte di Spagna corrispondeva la potenza alla
volontà: perché, avendo le corti di Castiglia (così chiamano la congregazione
de' deputati in nome di tutto il regno) negato a Cesare di sovvenirlo di
quattrocentomila ducati, come sogliono fare ne' casi gravi del re, non avea
potuto mandare danari all'esercito che era in Provenza, né fare da' confini
suoi contro al re di Francia se non deboli movimenti e di pochissima
riputazione. Onde i capitani cesarei, disperati di ottenere Marsiglia e
temendo, come il re si accostava, non incorrere in gravissimo pericolo, levorno
il campo da Marsilia, il medesimo dì nel quale il re, raccolti seimila svizzeri
(la venuta de' quali aspettando avea tardato), si mosse d'Avignone con tutto
l'esercito. Levato il campo da Marsilia, i capitani di Cesare voltorono subito
la fronte a Italia, procedendo con grandissima celerità, perché conoscevano in
quanto pericolo si ridurrebbono se nel paese inimico si fusse accostato loro o
tutto o parte dell'esercito del re di Francia; e da altra parte il re,
giudicando d'avere occasione molto opportuna di ricuperare il ducato di Milano
per l'esercito potente che avea, perché sapeva essere deboli le cose degli
inimici, e perché sperava andando per il cammino diritto dovere essere in
Italia innanzi all'esercito che si partiva da Marsilia, deliberò seguitare quel
beneficio che la fortuna gli porgeva; la qual cosa manifestò agli uomini suoi
con queste parole: - Io ho stabilito di volere, senza indugio, passare in
Italia personalmente; qualunque mi conforterà al contrario non solo non sarà
udito da me ma mi farà cosa molto molesta. Attenda ciascuno a eseguire sollecitamente
quel che gli sarà commesso, o che appartiene all'ufficio suo. Iddio, amatore
della giustizia, e la insolenza e temerità degli inimici ci ha finalmente
aperta la via di ricuperare quel che indebitamente ci era stato rapito. -
A queste parole
corrispose e la costanza nella determinazione e la celerità dell'esecuzione.
Mosse subito l'esercito, nel quale erano dumila lancie e ventimila fanti;
fuggito il congresso della madre, che da Avignone veniva per confortarlo che
non passando i monti amministrasse la guerra per capitani. Commesse a Renzo da
Ceri che co' fanti che erano stati seco a Marsilia salisse in sull'armata e, o
per non prestare l'orecchie a' ragionamenti della concordia o diffidando del
pontefice, vietò che l'arcivescovo di Capua, mandato a lui per passare poi a
Cesare, procedesse più oltre, ma che o trattasse seco per lettere, aspettando
in Avignone appresso alla madre, o ritornasse al pontefice. E se (come scrisse
iattabondo in Italia, presupponendo forse, secondo l'uso di molti, le cose
ragionate e disegnate per già fatte o eseguite) avesse col medesimo ardore
fatto seguitare gli inimici che si partivano, sarebbe per avventura, con poco
sangue e senza pericolo, rimasto vincitore di tutta la guerra. Ma essi
disprezzando le molestie date da' paesani e seguitati da piccole forze del re,
procedendo con grandissimo ordine per la riviera del mare si condussono a
Monaco; ove rotte in molti pezzi l'artiglierie e caricatele in su' muli, per
condurle più facilmente, pervennero al Finale: nel qual luogo intesa la mossa
del re, raddoppiorno, per essere a tempo a difendere il ducato di Milano, nel
quale non erano rimaste forze sufficienti a resistere, quella celerità che
prima aveano usata per salvarsi. Così, procedendo l'uno e l'altro esercito
verso Italia, pervennono, in un dì medesimo, il re di Francia a Vercelli, il
marchese di Pescara co' cavalli e co' fanti spagnuoli ad Alva; seguitando il
duca di Borbone co' fanti tedeschi per intervallo di una giornata; il quale,
non dando spazio di respirare a se stesso, andò il dì seguente da Alva a
Voghiera, cammino di quaranta miglia, per andare il prossimo dì a Pavia; ove si
congiunse col viceré, venuto da Alessandria, ove avea lasciato alla custodia
duemila fanti, con grandissima prestezza, in tempo che già l'esercito del re
cominciava a toccare le ripe del Teseno. Quivi consultando tra loro e con
Ieronimo Morone delle cose comuni, ebbono il primo pensiero, lasciata
sufficiente guardia in Pavia, di fermarsi come l'altre volte aveano fatto in
Milano: però ordinorno che subito vi andasse il Morone per provedere alle cose
necessarie, e che il duca di Milano, il quale aveano mandato a chiamare, lo
seguitasse; essi, lasciato Antonio de Leva a Pavia con trecento uomini d'arme e
circa cinquemila fanti, da pochi spagnuoli in fuori, tutti tedeschi, si mossono
verso Milano.
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