X. Misere condizioni di Milano dopo la peste. Parole del Morone ai
milanesi. I francesi sotto Milano, dove pongono un presidio per l'assedio del
castello. Difficoltà di Cesare: contegno degli antichi confederati. Vano
assalto del re di Francia a Pavia; vani tentativi di deviare le acque del
Ticino; assedio della città.
Ma la città di
Milano, afflitta dalla peste grandissima che l'avea vessata quella state, non
pareva più simile a se medesima: perché del popolo era morto numero
grandissimo, di quegli che aveano fuggito tanto infortunio molti erano assenti,
non ridotta dentro la copia delle vettovaglie consueta, difficili i modi del
fare provedimenti di danari; de' ripari, non avendo alcuni atteso a
conservargli, la maggiore parte per terra: e nondimeno, in tante difficoltà,
sarebbe stata la antica prontezza degli uomini alle medesime fatiche e
pericoli. Ma il Morone, conoscendo che il mettere l'esercito in Milano più
tosto partorirebbe la ruina di quello che la difesa della città, fatta altra
deliberazione, fermatosi in mezzo della moltitudine, parlò così: - Noi possiamo
oggi dire, né con minore molestia di animo, le parole medesime che nelle angustie
sue disse il Salvatore: «lo spirito certamente è pronto, la carne
inferma». Voi avete il medesimo ardore che avete avuto sempre di
conservarvi per signore Francesco Sforza; a lui trafiggono, come sempre, il
cuore i pericoli e le calamità del suo diletto popolo; egli è parato a mettere
la vita propria per salvarvi, voi con non minore prontezza l'esporreste al
presente che molte volte l'avete esposta per il passato. Ma alla volontà non
corrispondono da parte alcuna le forze; perché per l'essere la città quasi vota
d'abitatori, esserci strettezza di vettovaglie, mancamento di danari e i
bastioni quasi per terra, non ci è modo di proibire che i franzesi non ci
entrino. Duole al duca quanto la morte l'essere necessitato ad abbandonarvi, ma
molto più che la morte gli dorrebbe che il volervi difendere fusse cagione
dell'ultimo eccidio vostro, come senza dubbio alcuno sarebbe. Ne' mali tanto
gravi è tenuto prudente chi elegge il male minore, chi non si dispera tanto che
abbandoni con una sola deliberazione tutte le sue speranze. Però il duca vi
conforta a cedere alla necessità, che ubbidiate al re di Francia per riserbarvi
a tempi migliori; i quali abbiamo grandissime cagioni di sperare che presto
ritorneranno. Non abbandonerà il duca al presente se medesimo, non abbandonerà
in futuro voi. La potenza di Cesare è grandissima, la fortuna inestimabile; la
causa è giustissima, gli inimici sono quegli medesimi che tante volte sono
stati vinti da noi. Risguarderà Iddio la pietà vostra verso il duca, la pietà
del duca verso la patria; e dobbiamo tenere per certo che, permettendo ora a
qualche buon fine quello a che ci costrigne la necessità presente, ci darà
presto contro all'inimico superbissimo vittoria tale che felicemente con lunga
pace ci ristoreremo da tante molestie. - Dopo le quali parole, avendo fatto
mettere vettovaglie in castello, si uscì della città. Andava e il duca a
Milano, non sapendo quel che avesse fatto il Morone; ma a fatica uscito di
Pavia, scontrò Ferrando Castriota che guidava l'artiglieria, dal quale
avvertito che una grande parte degli inimici avea passato il Tesino, e che
avendo scontrato in sul fiume Zucchero borgognone co' suoi cavalli leggieri
l'aveano rotto, temendo non trovare il cammino impedito, ritornò a Pavia. Nelle
quali cose benché il duca e il Morone fussino proceduti sinceramente, nondimeno
i capitani di Cesare, che erano coll'esercito a Binasco, insospettiti che
occultamente non fussero convenuti col re di Francia, mandorno Alarcone con
dugento lancie a Milano, per seguitarlo o no secondo gli avvisi ricevessino da
lui. Alla giunta del quale, il popolo, che già concordava con alcuni fuorusciti
che convenivano in nome del re, ripreso animo chiamò il nome di Cesare e di
Francesco Sforza. Ma Alarcone, conoscendo essere vana la speranza del
difendersi e presentito approssimarsi già l'avanguardia franzese, uscì per la
porta Romana alla via di Lodi; ove eziandio si era voltato tutto l'esercito
imperiale, nel tempo medesimo che gli inimici cominciavano a entrare per le
porte Ticinese e Vercellina: i quali, se non si volgendo a Milano avessino
atteso a seguitare l'esercito di Cesare, stracco per la lunghezza del cammino
nel quale aveano perdute molte armi e cavalli, si crede per certo che con somma
facilità l'arebbono dissipato; e se pure, poi che erano accostati a Milano,
fussino andati subito verso Lodi, non arebbono avuto i capitani di Cesare
ardire di fermarvisi; e forse, passando con celerità il fiume dell'Adda,
arebbono con la medesima facilità messo in disordine grande le reliquie degli inimici.
Ma il re, o parendogli forse di molta importanza lo stabilire alla sua
divozione Milano, nella quale città gli era sempre stata fatta la resistenza
principale, o non conoscendo l'occasione o movendolo altra cagione, non
solamente si accostò a Milano, dove né entrò egli né volle che l'esercito
entrasse, ma si fermò per mettervi il presidio necessario e ordinare l'assedio
del castello, nel quale erano settecento fanti spagnuoli; avendo, con laude
grande di modestia e benignità, proibito che a' milanesi non fusse fatta
molestia alcuna.
Ordinate che
ebbe le cose di Milano voltò l'esercito a Pavia, giudicando essere inutile alle
cose sue lasciarsi dopo le spalle una città nella quale erano tanti soldati: e
avea il re, secondo che era la fama, computati quegli che rimanevano a Milano,
dumila lancie ottomila fanti tedeschi seimila svizzeri seimila venturieri
quattromila italiani, i quali italiani dipoi molto si augumentorono. Nel qual
tempo, de' capitani di Cesare, si era fermato il marchese di Pescara in Lodi
con duemila fanti; e il viceré, lasciate guardate Alessandria, Como e Trezzo,
si era ridotto a Sonzino, insieme con Francesco Sforza e con Carlo di Borbone;
i quali, intra tante difficoltà e angustie ripreso alquanto d'animo per la andata
del re a Pavia, e pensando al riordinarsi se la difesa di quella città dava
loro tempo (perché altrimenti niuno rimedio conoscevano), mandorno in Alamagna
a soldare seimila fanti; allo stipendio de' quali, e a altre spese necessarie,
si provedeva con cinquantamila ducati che Cesare, perché nella guerra di
Provenza si spendessino, a Genova mandati avea. Ma sopra tutte le cose
disturbava i consigli loro la penuria di danari, non avendo facoltà di trarne
del ducato di Milano, né sperando d'avere, per la impotenza sua, da Cesare
altro provedimento che commissione che a Napoli si vendesse il più si poteva
dell'entrate del regno. Piccolo o forse niuno sussidio, o di soldati o di
danari, speravano dagli antichi confederati; perché dal pontefice e dai fiorentini,
richiesti di porgere danari, ottenevano parole generali: perché il papa, dopo
la partita dell'ammiraglio di Italia deliberato al tutto di non si mescolare
nelle guerre tra Cesare e il re di Francia, non aveva mai voluto rinnovare la
confederazione fatta coll'antecessore né fare lega nuova con alcun principe;
anzi, benché si dimostrasse inclinato a Cesare e al re di Inghilterra, aveva
occultamente prima promesso al re di Francia di non se gli opporre quando
assaltasse il ducato di Milano; e i viniziani, ricercati dal viceré che
ordinassino le genti alle quali erano tenuti per i capitoli della lega, benché
non negassino rispondevano freddamente, come quegli che aveano nell'animo di
accomodare i consigli a' progressi delle cose, o perché appresso a molti di loro
risorgesse la memoria della congiunzione antica col re di Francia, o perché
credessino egli passato in Italia con tante forze contro a inimici
imparatissimi dovere essere vittorioso, o perché più che il solito avessino a
sospetto la ambizione di Cesare, conciossiaché, con ammirazione e quasi querela
di tutta Italia, non avesse investito Francesco Sforza del ducato di Milano.
Movevagli oltre a questo l'autorità del pontefice, i cui consigli ed esempio in
questo tempo non mediocremente risguardavano.
Ma il re di
Francia, accostatosi a Pavia dalla parte di sopra, tra il fiume del Tesino e la
strada per la quale si va a Milano, fermata la vanguardia nel borgo di Santo
Antonio di là dal Tesino, in sulla strada che conduce a Genova, egli alloggiato
alla abbazia di San Lanfranco lontana un miglio dalle mura, batté con
l'artiglierie da due parti due dì le mura, e dipoi con l'esercito ordinato
cominciò a dare la battaglia; ma apparendo la terra dentro essere bene riparata
e dimostrandosi gli inimici molto valorosi a difendersi, e per contrario
vedendosi ne' suoi manifesti segni di temenza e già essendone stati ammazzati
molti, dette il segno di ritirarsi; e comprendendo quanto fusse difficile
l'espugnare una città, difesa da tanti uomini di guerra, coll'impeto delle
battaglie, si voltò a opere di trincee e di cavalieri con grandissimo numero di
guastatori, intento a tagliare i fianchi perché i soldati più sicuramente vi si
accostassino. A questa opera che si dimostrava lunga e difficile aggiunse il
fare le mine, per pigliarla, se altrimenti non gli riuscisse, a palmo a palmo;
e ultimatamente, facendolo molto diffidare la virtù e il numero de' difensori,
avuto il consiglio di molti ingegnieri e periti del corso del fiume, il quale
due miglia sopra a Pavia si divide in due corni, e poi un miglio di sotto,
innanzi che entri nel Po, si ricongiugne, deliberò di divertire il ramo che
passa allato a Pavia nel ramo minore detto il Gravalone, sperando dovergli poi
essere facile spugnarla da quella parte donde il muro, per la sicurtà che dava
la profondità dell'acque, niuno riparo aveva. Nella quale opera, tentata con
moltitudine quasi innumerabile d'uomini e con grandissima spesa, né senza
timore di quegli di dentro, consumò molti dì; ora rovinando l'impeto dell'acqua,
la quale per le pioggie immoderate grossissima era divenuta, gli argini, che
nel letto dove il fiume si divide si lavoravano per sforzarlo a volgersi nel
ramo minore, ora sperando il re di superare con la possanza degli uomini e de'
danari la violenza del fiume. Finalmente l'esperienza dimostrò quel che quasi
sempre apparisce che più può la rapidità del fiume che la fatica degli uomini o
la industria de' periti. Però il re, privato della speranza, della forza e
delle opere, determinò di perseverare nell'assedio, colla lunghezza del quale
sperava ridurre quegli di dentro in necessità di arrendersi.
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