XI. Nuovi e inutili tentativi di concordia del pontefice: suoi accordi col
re di Francia; nuove angustie e difficoltà di Cesare.
Ma mentre che
queste cose si fanno e si preparano, il pontefice, poi che ebbe inteso il re
avere occupato Milano, commosso dal principio tanto prospero e perciò
desideroso di assicurare le cose proprie, mandò a lui Gianmatteo Giberto
vescovo di Verona suo datario, uomo a sé confidentissimo ma né anche ingrato al
re. Commessegli che prima andasse a Sonzino a confortare il viceré e gli altri
capitani alla concordia, dimostrando dovere andare al re di Francia per la
medesima cagione; i quali, già cresciuti di speranza per la resistenza di
Pavia, gli risposono ferocemente non volere prestare orecchie ad alcuna
composizione per la quale il re avesse a ritenere un palmo di terra nel ducato
di Milano. Simile e forse più dura disposizione trovò nel re di Francia,
enfiato per la grandezza dell'esercito e per la facoltà non solamente di
sostentarlo ma di accrescerlo; col quale fondamento principalmente affermava
essere passato in Italia e non per la speranza sola d'avere a prevenire gli
inimici, benché dicesse e questo essergli in buona parte succeduto. Sperare al
certo di ottenere Pavia, la quale tuttavia continuava di battere aspramente,
per l'opere faceva intorno alle mura; alle quali confidava che gli inimici,
avendo, come si comprendeva per la infrequenza del tirare, mancamento di
munizioni, non potrebbono resistere, e per la derivazione che ancora non era
disperata del Tesino e per la carestia del pane che era dentro; né stimare
premio degno di tante fatiche e di spesa così immoderata la ricuperazione sola
del ducato di Milano e di Genova, ma pensare non meno ad assaltare il regno di
Napoli.
Trattossi dipoi
tra loro, e con piccola difficoltà se gli dette la perfezione, la cagione
principale per la quale il datario era stato mandato; perché il pontefice
s'obligò a non dare aiuto manifesto o occulto contro al re e che il medesimo
farebbono i fiorentini, e il re ricevette in protezione il pontefice e i
fiorentini, inserendovi specialmente l'autorità che avea in Firenze la famiglia
de' Medici: la quale concordia convennono non si publicasse se non quando
paresse al pontefice; e nondimeno, ancora che non pervenisse allora alla
notizia de' capitani di Cesare, cresceva in essi continuamente il sospetto
conceputo di lui. Però, per certificarsi al tutto della sua mente, mandorno a
lui Marino abate di Nagera commissario del campo, a proporgli insieme speranza
e timore: perché da una parte gli offerivano cose grandissime, dall'altra gli
dimostravano che, essendo Cesare e il re venuti all'ultima contenzione, non
poteva Cesare altro che riputare che fusse stato contro a sé chiunque non fusse
stato con lui. Ma il pontefice rispondeva, niuna cosa meno convenire a sé che
il partire dalla neutralità nelle guerre tra prìncipi cristiani, perché così
richiedeva lo ufficio pastorale e perché potrebbe con maggiore autorità
trattare la pace: per la quale, nel tempo medesimo, procurava con Cesare; a
cui, avuta licenza dalla madre del re di passare da Lione in Spagna, dopo
l'acquisto di Milano, pervenne l'arcivescovo di Capua, e scusato che ebbe con
le medesime ragioni il pontefice del non avere voluto rinnovare la lega, come
Cesare, intesa la andata del re verso Italia aveva instantemente dimandato, lo
confortò efficacemente in suo nome che o con la tregua o con la pace si
deponessino l'armi. Inclinavano l'animo suo alla concordia le difficoltà nelle
quali vedeva essere ridotto: non avere modo di fare in Ispagna provedimento
alcuno di danari per le cose di Italia, la prosperità che si dimostrava del re di
Francia, il sospetto che il re di Inghilterra non fusse occultamente convenuto
con l'inimico; perché quel re non solamente ricusava che cinquantamila ducati,
i quali finalmente aveva proveduti a Roma per la guerra di Provenza, si
mandassino all'esercito di Lombardia, ma (quel che causava sospetto maggiore)
dimandava a Cesare, costituito in tante necessità, che gli restituisse i danari
prestati e che gli pagasse tutti quegli a' quali era tenuto: perché Cesare,
insino quando passò in Ispagna, cupidissimo della sua congiunzione, per
rimuovere tutte le difficoltà che lo potevano tenere sospeso, si obligò a
pagargli la pensione che ciascuno anno gli dava il re di Francia e ventimila
ducati per le pensioni che il medesimo re pagava al cardinale eboracense e ad alcuni
altri, e trentamila ducati che per il doario si pagavano alla reina bianca,
stata moglie del re Luigi; delle quali promesse non avea insino a quel dì
pagata cosa alcuna. E nondimeno Cesare, con tutto che alla afflizione
dell'animo si aggiugnesse la infermità del corpo, perché il dolore conceputo
quando cominciorno ad apparire le difficoltà della spugnazione di Marsilia gli
avea generata la quartana, o perché la mente sua indisposta a cedere
all'inimico non si piegasse naturalmente per alcune difficoltà o perché
confidasse nella virtù del suo esercito, se si conducessino mai a fare giornata
con gli inimici, o promettendosi dovere essere per l'avvenire favorito non meno
immoderatamente dalla fortuna che per il passato stato fusse, rispondeva non
essere secondo la degnità sua fare alcuna convenzione mentre che il re di
Francia vessava coll'armi il ducato di Milano.
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