XIV. Difficoltà degli assediati in Pavia; risposta dei veneziani
all'oratore di Cesare. Scarsezza di danari nell'esercito di Cesare. Milizie
cesaree in marcia verso Pavia. Diversità di pareri nel consiglio del re di
Francia. Il re delibera di perseverare nell'assedio della città; nuove
disposizioni delle forze assedianti. Le forze del re di Francia. Gli imperiali
prendono il castello di Sant'Angelo. Casi sfortunati per i francesi. Perché i
grigioni richiamano gli uomini propri soldati dal re. Appoggio del re
d'Inghilterra a Cesare.
Erano gli
assediati in Pavia angustiati dalla carestia de' danari, aveano strettezza di
munizioni per l'artiglierie, cominciava a mancare il vino e, dal pane in fuori,
tutte l'altre vettovaglie; onde i fanti tedeschi già quasi tumultuosamente
dimandavano danari, concitati dal capitano loro, oltre a quello che per se
stessi faceano: del quale si temeva che secretamente non fusse convenuto col re
di Francia. Da altra parte il viceré, avvicinandosi il duca di Borbone, il
quale conduceva dell'Alamagna cinquecento cavalli borgognoni e seimila fanti
tedeschi, soldati co' danari del re de' romani, era andato a Lodi, ove
pensavano raccorre tutto l'esercito; riputando dovere avere esercito non
inferiore agli inimici. Ma per muovere i soldati e per sostentargli non aveano
né danari né facoltà alcuna di provederne, degli aiuti del pontefice e de'
fiorentini erano del tutto disperati, medesimamente di quegli de' viniziani. I
quali, dopo aver interposto varie scuse e dilazioni, aveano finalmente risposto
al protonotario Caracciolo, oratore di Cesare appresso a loro, volere procedere
secondo che procedesse il pontefice, per mezzo del quale si credeva che
secretamente avessino convenuto col re di Francia di stare neutrali; anzi
confortavano occultamente il pontefice a fare scendere in Italia agli stipendi
comuni diecimila svizzeri, per non avere a temere della vittoria di ciascuno
de' due eserciti: cosa approvata da lui, ma per carestia di danari e per sua
natura, eseguita tanto lentamente che molto tardi mandò in Elvezia il vescovo
di Veroli a preparare gli animi loro.
Sollevò
alquanto le difficoltà di Pavia la industria del viceré e degli altri capitani:
perché mandati nel campo franzese alcuni a vendere vino, Antonio de Leva, avuto
il segno, mandò a scaramucciare da quella parte; donde levato il romore, i
venditori, rotto il vaso grande, corsono in Pavia con uno piccolo vasetto messo
in quello, nel quale erano rinchiusi tremila ducati: per la quale piccola somma
fatti capaci, i tedeschi della difficoltà del mandargli, stettono in futuro più
pazienti. E levò anche il fomento de' tumulti la morte del capitano, proceduta
in tempo tanto opportuno che si credette fusse stato, per opera di Antonio de
Leva, morto di veleno. Nel qual tempo, o poco prima, il marchese di Pescara,
andato a campo a Casciano, alla custodia della qual terra erano cinquanta
cavalli e quattrocento fanti italiani, gli costrinse ad arrendersi senza alcuna
condizione. Ma essendo venuto co' soldati tedeschi il duca di Borbone, niuna
altra cosa ritardava i capitani, ansii del pericolo di Pavia, che il mancamento
tanto grande di danari che non solamente non potevano pensare agli stipendi
dell'esercito ma aveano difficoltà de' danari necessari a condurre le munizioni
e l'artiglierie: nella quale necessità, proponendo a' fanti la gloria e le
ricchezze che perverrebbono loro della vittoria, riducendo in memoria quel che
vincitori aveano conseguito per il passato, accendendogli con gli stimoli
dell'odio contro a' franzesi, indussono i fanti spagnuoli a promettere di
seguitare un mese intero l'esercito senza ricevere danari, e i tedeschi a
contentarsi di tanti che bastassino a comperare le vettovaglie necessarie.
Maggiore difficoltà era negli uomini d'arme e ne' cavalli leggieri alloggiati
per le terre del cremonese e della Ghiaradadda; perché non avendo, già molto
tempo, ricevuti danari allegavano non potere, seguitando l'esercito ove sarebbe
necessario comperare tutte le vettovaglie, sostentare sé e i cavalli.
Lamentavansi essere meno grata e meno stimata l'opera loro che quella de'
fanti, ne' quali era stata, pur qualche volta, distribuita alcuna quantità di
danari, in essi, già tanto tempo, niuna; e nondimeno non essere inferiori né di
virtù né di fede, ma molto superiori di nobiltà e di meriti passati. Mitigò,
gli animi di costoro il marchese di Pescara, andato a' loro alloggiamenti; ora
scusando ora consolandogli ora riprendendogli: che quanto erano di virtù più
chiari, quanto più era manifesto il loro valore, tanto più si doveano sforzare
di non essere superati da' fanti né di fede né di affezione verso Cesare, di
cui si trattava non solamente l'onore e la gloria ma di tutti gli stati che
aveva in Italia: la cui grandezza quanto amassino, a cui quanto desiderassino
servire, non dovere mai avere maggiore occasione di dimostrarlo; e se tante
volte aveano per Cesare esposta la vita propria, che vergogna essere, che cosa
nuova, che ora recusassino mettere per lui vile quantità di pecunia? Dalle
quali persuasioni e dalla autorità del marchese mossi, consentirono di ricevere
per un mese quasi minima quantità di danari. Così raccolto tutto l'esercito,
nel quale si diceano essere settecento uomini d'arme, pari numero di cavalli
leggieri, mille fanti italiani e più di sedicimila tra spagnuoli e tedeschi,
partiti da Lodi il vigesimo quinto dì di gennaio, andorno il dì medesimo a
Marignano; dimostrando volere andare verso Milano, o perché il re mosso dal
pericolo di quella città si levasse da Pavia o per dare causa di partirsi da
Milano a' soldati che vi erano alla custodia: nondimeno, passato poi appresso a
Vidigolfo il fiume del Lambro, si dirizzorno manifestamente verso Pavia.
Pagava il re
nell'esercito [mille trecento] lancie diecimila svizzeri quattromila tedeschi
cinquemila franzesi e settemila italiani, benché, per le fraudi de' capitani e
per la negligenza de' suoi ministri, il numero de' fanti era molto minore. Alla
guardia di Milano era Teodoro da Triulzi con [trecento] lancie semila fanti tra
grigioni e vallesi e tremila franzesi; ma quando gli imperiali si voltorno
verso Pavia richiamò, da duemila in fuori, tutti i fanti all'esercito.
All'uscita degli imperiali alla campagna, si disputava nel consiglio del re
quello che fusse da fare; e... della Tramoglia,... della Palissa, Tommaso di
Fois e molti altri capitani confortavano che il re si levasse coll'esercito
dall'assedio di Pavia, e si fermasse o al monasterio della Certosa o a Binasco,
alloggiamenti forti (come ne sono spessi nel paese) per i canali dell'acque
derivate per annaffiare i prati. Dimostravano che in questo modo si otterrebbe
presto, e senza sangue e senza pericolo, la vittoria; perché l'esercito
inimico, non avendo danari, non poteva sostentarsi insieme molti dì ma era
necessitato o a dissolversi o a ridursi ad alloggiare sparso per le terre: che
i tedeschi che erano in Pavia, i quali, per non essere imputati di coprire la
timidità con la scusa del non essere pagati, sopportavano pazientemente,
creditori già dello stipendio di molti mesi, subito che e' fusse levato
l'assedio dimanderebbono il pagamento; al quale non avendo i capitani modo di
provedere né speranza apparente colla quale gli potessino, benché vanamente,
nutrire, conciterebbono qualche pericoloso tumulto: non conservarsi insieme gli
inimici con altro che colla speranza di fare presto la giornata; i quali, come
vedessino allungarsi la guerra e discostarsi l'opportunità del combattere, si
empierebbono di difficoltà e di confusione. Dimostravano quanto fusse
pericoloso stare con l'esercito in mezzo di una città, nella quale erano
cinquemila fanti di nazione bellicosissima, e di uno esercito che veniva per
soccorrerla, potente e di numero d'uomini e di virtù e di esperienza di
capitani e di soldati, e feroce per le vittorie ottenute per il passato, e il
quale avea collocato tutte le speranze sue nel combattere. Non essere infamia
alcuna il ritirarsi quando si fa per prudenza non per timidità, quando si fa
per ricusare di non mettere in dubbio le cose certe, quando il fine propinquo
della guerra ha a dimostrare a tutto il mondo la maturità del consiglio; e
niuna vittoria essere più utile più preclara più gloriosa che quella che
s'acquista senza danno e senza sangue de' suoi soldati; e la prima laude nella
disciplina militare consistere più nel non si opporre senza necessità a'
pericoli, nel rendere, con la industria con la pazienza e con l'arti, vani i
conati degli avversari, che nel combattere ferocemente. Il medesimo era consigliato
al re dal pontefice, a cui il marchese di Pescara, temendo di tanta povertà,
aveva prima significato, le difficoltà dell'esercito di Cesare essere tali che
gli troncavano quasi tutta la speranza di prosperi successi. Nondimeno il re,
le cui deliberazioni si reggevano solamente co' consigli dell'ammiraglio,
avendo più innanzi agli occhi i romori vani, e per ogni leggiero accidente
variabili, che la sostanza salda degli effetti, si riputava ignominia grande
che l'esercito, nel quale egli si trovava personalmente, dimostrando timore
cedesse alla venuta degli inimici; e lo stimolava (quello di che quasi niuna
cosa fanno più imprudentemente i capitani) che si era quasi obligato a
seguitare co' fatti le parole dette vanamente: perché e palesemente aveva affermato,
e molte volte in Francia e per tutta Italia significato, che prima eleggerebbe
la morte che muoversi senza la vittoria da Pavia. Sperava nella facilità di
fortificare il suo alloggiamento di maniera che non potria essere disordinato
allo improviso da assalto alcuno; sperava che, per l'inopia de' danari, ogni
piccola dilazione disordinerebbe gli inimici, i quali, non avendo facoltà di
comperare le vettovaglie e necessitati di andare predando i cibi per il paese,
non potrebbono stare fermi agli alloggiamenti; sperava similmente dare
impedimento alle vettovaglie che s'arebbono a condurre al campo, delle quali
sapeva la maggiore parte essere destinata da Cremona, perché di nuovo avea
soldato Giovanlodovico Palavicino, acciò che o occupasse Cremona, dove era
piccolo presidio, o almeno interrompesse la sicurtà che da quella città si
movessino le vettovaglie. Queste ragioni confermorno il re nella pertinacia di
perseverare nell'assedio di Pavia, e per impedire agli inimici l'entrarvi
ridusse in altra forma l'alloggiamento dell'esercito. Alloggiava prima il re,
dalla parte di Borgoratto, alla badia di San Lanfranco, posta circa un mezzo
miglio di là da Pavia e oltre alla strada per la quale da Pavia si va a Milano
e in sul fiume del Tesino, vicino al luogo dove fu tentata la diversione
dell'acque; la Palissa, e con l'avanguardia e co' svizzeri, alle Ronche, nel
borgo appresso alla porta di Santa Iustina, fortificatosi alle chiese di San
Piero di Sant'Appollonia e di San Ieronimo; alloggiava Giovanni de' Medici, co'
cavalli e fanti suoi, alla chiesa di San Salvadore. Ma intesa la partita degli
inimici da Lodi, andò ad alloggiare nel barco, al palagio di Mirabello situato
di qua da Pavia; lasciati a San Lanfranco i fanti grigioni, ma non mutato
l'alloggiamento della avanguardia. Ultimatamente, passò il re ad alloggiare a'
monasteri di San Paolo e di San Iacopo luoghi comodi ed eminenti e cavalieri
alla campagna, vicinissimi a Pavia ma alquanto fuori del barco; trasferito ad
alloggiare a Mirabello [monsignore] d'Alansone col retroguardo. E per potere
soccorrere l'un l'altro roppono il muro del barco da quella parte, occupando lo
spazio del campo insino al Tesino, dalla parte di sotto, e dalla parte di sopra
insino alla strada milanese; di maniera che, tenendo circondata intorno intorno
Pavia, e il Gravelone e il Tesino e la Torretta, che è dirimpetto alla darsina
in mano del re, non potevano gli imperiali entrare in Pavia se o non passavano
il Tesino o non entravano per il barco.
Risedeva il
peso del governo dell'esercito nell'ammiraglio: il re, consumando la maggiore
parte del tempo in ozio e in piaceri vani, né ammettendo faccende o pensieri
gravi, dispregiati tutti gli altri capitani, si consigliava con lui; udendo
ancora Anna di Memoransì, Filippo Ciaboto di Brione e... di San Marsau, persone
al re grate ma di piccola esperienza nella guerra. Né corrispondeva il numero
dell'esercito del re a quello che ne divulgava la fama, ma eziandio a quello
che ne credeva esso medesimo: perché, essendo della cavalleria una parte andata
col duca di Albania un'altra parte rimasta con Teodoro da Triulzi alla guardia
di Milano, molti alloggiando sparsi per le ville e terre circostanti, non
alloggiavano fermamente nel campo oltre ottocento lancie, e de' fanti, de' quali
si pagava, per le fraudi de' capitani e per la negligenza de' ministri del re,
numero immoderato, era diversissima la verità dall'opinione, ingannando sopra
tutti gli altri i capitani italiani, i quali lo stipendio per moltissimi fanti
ricevevano ma pochissimi ne tenevano: il medesimo accadeva ne' fanti franzesi.
Duemila valligiani, che alloggiavano a San Salvadore tra San Lanfranco e Pavia,
assaltati all'improviso da quegli di dentro, erano stati dissipati.
In questo stato
delle cose i capitani imperiali, passato che ebbero il Lambro, si accostorno al
castello di Santangelo; il quale, situato tra Lodi e Pavia, arebbe dato, se non
fusse stato in potestà loro, impedimento grandissimo al condurre delle
vettovaglie da Lodi allo esercito. Guardavalo Pirro fratello di Federico da
Bozzole con [du]cento cavalli e [otto]cento fanti; e il re, pochi dì prima, per
non mettere i suoi temerariamente in pericolo, aveva mandato a considerare il
luogo il medesimo Federico e Iacopo Cabaneo, i quali riferirono quel presidio
essere bastante a difenderlo. Ma l'esperienza dimostrò la fallacia de' discorsi
loro: perché essendovisi accostato Ferdinando Davalo co' fanti spagnuoli e
avendo con l'artiglierie levate alcune difese, quegli di dentro impauriti si ritirorno
il dì medesimo nella rocca, e poche ore dappoi pattuirono che, rimanendo
prigioni Pirro, Emilio Cavriana e tre figliuoli di Febus da Gonzaga, gli altri
tutti, lasciate l'armi e i cavalli e promesso non militare per un mese contro a
Cesare, si partissero.
Chiamò ancora
il re dumila fanti italiani di quegli di Marsilia, che erano a Savona; i quali
(secondo scrive il Capella) essendo arrivati nello alessandrino presso al fiume
di Urbe, Gaspar Maino, che con mille settecento fanti era a guardia di
Alessandria, uscito fuora con poca gente, gli assaltò; e avendogli trovati
stracchi per il cammino e senza guardie, perché non avevano sospetto di essere
assaltati, gli ruppe con poca fatica; e fuggendo nel Castellaccio, entrò dentro
alla mescolata con loro: i quali si arrenderono con diciassette insegne. Né
ebbe migliore successo la cura data a Gian Lodovico Palavicino; il quale,
entrato con quattrocento cavalli e dumila fanti in Casalmaggiore, dove non
erano mura, e fattivi ripari e occupato dipoi San Giovanni in Croce, cominciò
di quel luogo a correre il paese, attendendo quanto poteva a rompere le
vettovaglie. Però Francesco Sforza, che era a Cremona, fatto con difficoltà
mille quattrocento fanti, gli mandò con pochi cavalli di Ridolfo da Camerino e
co' cavalli della sua guardia verso Casalmaggiore, sotto Alessandro
Bentivoglio; i quali accostatisi, il Palavicino col quale era Niccolò Varolo
soldato de' franzesi, il decimo ottavo dì di febbraio, confidando nello avere
più gente, non aspettato Francesco Rangone che doveva venire con altri fanti e
cavalli, uscito fuora si attaccò con loro; e volendo sostenere i suoi che già
si ritiravano, fatto cadere da cavallo, fu fatto prigione e tutti i suoi rotti
e dissipati.
Aggiunsesi alle
cose del re di Francia un'altra difficoltà: perché Gian Iacopo de' Medici da
Milano, castellano di Mus, dove era stato mandato dal duca di Milano per
l'omicidio fatto di Monsignorino Ettor Visconte, posto di notte uno agguato a
canto alla rocca di Chiavenna, situata in su uno colle a capo del lago e
distante dalle case del castello, prese il castellano, uscito fuora a
passeggiare, e condotto subito alla porta della rocca minacciando di
ammazzarlo, indusse la moglie a dargli la rocca; il che fatto, egli, immediate,
scopertosi di un altro agguato con trecento fanti ed entrato per la rocca nella
terra, la prese: donde le leghe de' grigioni, pochi dì innanzi al conflitto,
revocorno i seimila grigioni che erano nello esercito del re.
Arrivò in
questo tempo nello esercito imperiale il cavaliere da Casale, mandato dal re
d'Inghilterra con promesse grandi, e con ordine di levare i cinquantamila
ducati di Viterbo: perché quel re, cominciando ad avere invidia alla prosperità
del re di Francia, e mosso ancora che nel mare di verso Scozia erano state
prese dai franzesi certe navi inghilesi, minacciava rompere la guerra in
Francia, e desiderava sostenere l'esercito imperiale. Però commesse al Pacceo,
che era a Trento, che andasse a Vinegia a protestare in nome suo la osservanza
della lega; alla quale si sperava gli avesse a indurre più facilmente che
Cesare aveva mandato la investitura di Francesco Sforza in mano del viceré, con
ordine ne disponesse secondo le occorrenze delle cose. Fece ancora il re
d'Inghilterra pregare dall'oratore suo il pontefice che aiutasse le cose di
Cesare; a che il pontefice si scusò per la capitolazione fatta col re di
Francia, per sua sicurtà, senza offesa di Cesare; dolendosi ancora che, dopo il
ritorno dello esercito di Provenza, era stato venti dì innanzi avesse potuto
intendere i loro disegni, e se avevano animo di difendere o di abbandonare lo
stato di Milano.
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