X. Il Morone fatto prigione dal marchese di Pescara. Il Pescara, occupato
il ducato, costringe i milanesi a giurare fedeltà a Cesare, e cinge con trincee
il castello di Milano ove trovasi il duca; timori d'Italia tutta per la potenza
di Cesare; come fu giudicato l'operato del marchese di Pescara. Risposta dei
veneziani all'inviato di Cesare.
Ma mentre che
il cardinale trattava le commissioni del pontefice con Cesare, essendogli data
continuamente speranza di desiderata espedizione, succederono in Lombardia
effetti molto diversi. Perché essendo il duca di Milano alleggierito in modo
della infermità che si teneva per certo che almanco fusse liberato dal pericolo
di presta morte, deliberò il marchese di Pescara (il quale per il Castaldo
medesimo aveva avuto commissione da Cesare di provedere a questi pericoli,
secondo che gli paresse più opportuno) di impadronirsi del ducato di Milano,
sotto colore che il duca, per le pratiche tenute per il mezzo del Morone, era
caduto dalle ragioni della investitura, e che il feudo era ricaduto a Cesare
supremo signore. Però, essendo il marchese a Novara, benché oppresso da non
piccola infermità, e avendo una parte dello esercito in Pavia, i tedeschi
alloggiati appresso a Lodi (le quali due città aveva fatte fortificare), chiamò
inaspettatamente a Novara il resto delle genti che alloggiavano nel Piemonte e
nel marchesato di Saluzzo, il quale quasi subito dopo la vittoria avevano
occupato; e sotto specie di volere compartire gli alloggiamenti per tutto lo
stato di Milano, chiamò a Novara il Morone, nella persona del quale si può dire
che consistesse la importanza d'ogni cosa; perché era certo che, come egli
fusse fatto prigione, il duca di Milano, spogliato d'uomini e di consiglio, non
farebbe resistenza alcuna; dove, se fusse libero, poteva dubitare che, con lo
ingegno con l'esperienza con la riputazione, difficultasse molto i suoi
disegni. Era ancora necessario che Cesare avesse in potestà sua la persona del
Morone, stato autore e instrumento di tutte le pratiche, per potere col suo
processo giustificare le imputazioni che si davano al duca di Milano. Non è
cosa alcuna più difficile a schifare che il fato, nessuno rimedio è contro a'
mali determinati. Poteva già conoscere il Morone che la pratica tenuta col
marchese di Pescara era vana; sapeva di essere in grandissimo odio appresso a
tutti i soldati spagnuoli, tra i quali già molte cose della sua infedeltà si
dicevano; e che Antonio de Leva publicamente minacciava di farlo ammazzare; non
è credibile non considerasse la importanza della sua persona, che non vedesse
in che grado si trovava il duca di Milano, inutile allora e quasi come morto;
tra loro, già molti dì innanzi, era ogni cosa sospesa e piena di sospizione:
ognuno lo confortava a non andare, egli medesimo ne stette ambiguo. Nondimeno,
o avendo ancora occupato l'animo dalle simulazioni e dalle arti del marchese o
facendo fondamento nella amicizia grande che gli pareva avere contratta con
lui, o confidandosi della fede la quale disse poi avere avuta per una sua
lettera, o per dire meglio tirato da quella necessità, che trascina gli uomini
che non vogliono lasciarsi menare, si risolvé di andare quasi a una carcere
manifesta: cosa a me tanto più maravigliosa quanto mi restava in memoria avermi
il Morone detto più volte nello esercito, al tempo di Leone, non essere uomo in
Italia né di maggiore malignità né di minore fede del marchese di Pescara. Fu
ricevuto da lui benignamente; e soli, in camera, parlorono delle prime pratiche
e di ammazzare gli spagnuoli e Antonio de Leva, ma in luogo che Antonio, che
dal marchese era stato occultato dietro a uno panno d'arazzo, udiva tutti i
ragionamenti; dal quale, partito che fu dal marchese, che fu il quartodecimo dì
di ottobre, fu fatto prigione e mandato nel castello di Pavia. Nel quale luogo
andò il marchese proprio a esaminarlo sopra quelle cose che insieme avevano
trattate; messe in processo tutto l'ordine della congiurazione, accusando il
duca di Milano come conscio di ogni cosa; che era quello che principalmente si
cercava.
Incarcerato il
Morone, il marchese, in mano del quale erano prima Lodi e Pavia, ricercò il
duca che per sicurtà dello stato dello imperadore gli facesse consegnare
Cremona e le fortezze di Trezzo, Lecco e Pizzichitone, che per essere in su il
passo di Adda sono tenute le chiavi del ducato di Milano; promettendo, avute
queste, di non innovare più altro: le quali il duca, trovandosi ignudo di ogni
cosa, abbandonato di consiglio e di speranza, gli fece subito consegnare. Avute
queste, ricercò più oltre di essere ammesso in Milano (diceva) per parlare
seco; che gli fu consentito con la medesima facilità: ed entrato che fu in
Milano, gli mandò a fare instanza che gli facesse consegnare il castello di Cremona;
e che non ricercava il medesimo di quello di Milano per non essere dimanda
conveniente, poi che vi era dentro la sua persona, ma che dimandava bene che,
per sicurtà dello esercito di Cesare, il duca consentisse che il castello fusse
serrato con le trincee. Dimandò ancora che gli desse in mano Gian Angelo Riccio
suo segretario e Poliziano segretario del Morone, acciò che si potessino
esaminare sopra le imputazioni che erano date a lui di avere macchinato contro
a Cesare. Alle quali dimande rispose il duca che teneva le castella di Milano e
di Cremona in nome e a instanza di Cesare, al quale era stato sempre
fedelissimo vassallo, e che non le voleva consegnare ad alcuno se prima non
intendeva la sua volontà; la quale per intendere chiaramente gli manderebbe
subito uno uomo proprio, pure che il marchese gli concedesse sicurtà di
passare; e che non gli pareva onesto consentire di essere, in questo mezzo,
serrato in castello; dalla quale violenza si difenderebbe in qualunque modo
potesse. Avere bisogno per sé di Gian Angelo, per essere egli instrutto di
tutte le cose sue importanti, né essere per allora appresso a sé altro
ministro; e avere anche maggiore necessità di quello del Morone per poterlo
presentare innanzi a Cesare, e giustificare con questo mezzo che, nella
infermità sua, il padrone aveva fatto in suo nome, senza saputa sua, molte
espedizioni che gli potrebbono essere di carico, se con questo mezzo non
giustificasse la innocenza sua; e che le pratiche del Morone erano diverse e
separate dalle pratiche sue. Lo effetto fu che, dopo molte repliche e protesti
fatti da l'uno a l'altro per scrittura, il marchese costrinse il popolo di
Milano a giurare fedeltà allo imperadore contro alla volontà sua, e con
incredibile dispiacere di tutti messe per tutto lo stato officiali in nome di
Cesare, e cominciò con le trincee a serrare il castello di Cremona e quello di
Milano; nel quale il duca, con grandissimi conforti e speranze di soccorso
dategli dal pontefice e da' viniziani, era risoluto di fermarsi, avendovi seco
ottocento fanti eletti, e messevi quelle vettovaglie che comportò la brevità
del tempo. Né mancò di impedire, quanto potette, con l'artiglierie che e' non
si lavorasse alle trincee; le quali si lavoravano dalla parte di fuora, col
fosso più lontano dal castello che non aveva fatto Prospero Colonna. Spaventò,
e ragionevolmente, l'occupazione del ducato di Milano Italia tutta; la quale
conosceva andarne in manifesta servitù ogni volta che Cesare fusse padrone di
Milano e di Napoli; e sopra tutti afflisse il pontefice, vedendo scoperte
quelle pratiche con le quali aveva trattato non solo di assicurare Milano ma
ancora di distruggere l'esercito di Cesare e torgli il regno di Napoli. Al
marchese di Pescara conciliò forse grazia appresso a Cesare, ma nel cospetto di
tutti gli altri eterna infamia; non solo perché restò nella opinione della
maggiore parte che da principio avesse avuto intenzione di mancare a Cesare, ma
ancora perché, quando gli fusse stato sempre fedele, parve cosa di grande
infamia che avesse dato animo agli uomini, e allettatigli con tanta arte e con
tante fraudi a fare pratiche seco, per avere occasione di manifestargli, e
farsi grande de' peccati d'altri procurati con le lusinghe e con l'arti sue.
Difficultò
questa innovazione la speranza della concordia la quale si trattava per il
protonotario Caracciolo col senato viniziano, ridotta già in termini che pareva
propinqua alla conclusione, di rinnovare la prima confederazione con le
medesime condizioni e di pagare a Cesare, per ricompensazione della omissione
del passato, ottantamila ducati; escluse in tutto le dimande di contribuire in
futuro con danari, e di restituire i fuorusciti di Padova e dell'altre terre
che avevano seguitato Massimiliano. Ma il caso sopravenuto di Milano empié
quello senato di grandissima perplessità, essendo da una parte molestissimo
restare soli in Italia contro a Cesare, con pericolo che, come minacciava il
marchese di Pescara di volere fare, la guerra non si trasferisse nel loro
dominio (e già ne appariva qualche preparazione), da altra, non manco, di
accrescere col loro accordo la facilità a Cesare di insignorirsi totalmente di
quel ducato; il quale, aggiuntogli a tanti stati e a tante altre opportunità,
era la scala di soggiogare loro con tutto il resto d'Italia. Né cessava di
confortargli al medesimo efficacemente il vescovo di Baiosa, mandato da madama
la reggente per trattare la unione sua con gli italiani contro a Cesare; nel
quale frangente le consulte loro erano spesse ma dubbie, e piene di varie
opinioni; e se bene lo accettare l'accordo fusse più conforme alla consuetudine
loro, perché rimoveva i pericoli presenti, donde potevano sperare nella
lunghezza del tempo e nelle occasioni che possono aspettare le republiche, le
quali a comparazione de' prìncipi sono immortali, pure pareva anche loro troppo
importante che Cesare si confermasse nello stato di Milano, e che i franzesi
restassino esclusi di ogni speranza di avere alcuna congiunzione in Italia.
Però, determinati finalmente di non si obligare a cosa alcuna, risposono al
protonotario Caracciolo che i progressi loro passati facevano fede a tutto il
mondo (ed egli ancora, che si era trovato a conchiudere la confederazione, ne
era buono testimonio) quanto avessino sempre desiderato la amicizia di Cesare,
col quale si erano collegati in tempo che lo accostarsi loro a' franzesi
sarebbe stato, come sapeva ciascuno, di grandissimo momento; e che sempre
avevano perseverato e ora più che mai perseveravano nella medesima
disposizione; ma che di necessità gli teneva sospesi il vedere che in Lombardia
si fusse fatta innovazione di tanta importanza, e massime ricordandosi che e la
confederazione loro con Cesare e tanti altri movimenti, che si erano fatti a
questi anni in Italia, non avevano avuto altro fine che il volere che il ducato
di Milano fusse di Francesco Sforza, come fondamento necessario alla libertà
d'Italia e alla sicurtà universale: e però pregare Sua Maestà che, imitando in
questo caso se medesima e la sua bontà, volesse rimuovere questa innovazione e
stabilire la quiete d'Italia come era in potestà sua di fare, perché gli
troverebbe sempre dispostissimi, e con l'autorità e con le forze, a seguitare
questa santa inclinazione; né gli darebbono mai causa che da loro avesse a
desiderare uffizio alcuno così al proposito del bene universale come degli
interessi suoi particolari. La quale risposta essendo senza speranza alcuna di
conclusione non partorì però rottura di guerra, perché e lo aggravare tutto dì
la infermità del marchese di Pescara e il desiderio di insignorirsi prima di
tutto lo stato di Milano e di stabilire bene quello acquisto, e il volere prima
Cesare risolvere tante altre cose che aveva in mano, non lasciava dare
principio a impresa di tanto momento.
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