XI. Il Borbone in Ispagna; disprezzo dei nobili spagnuoli per lui; morte
del marchese di Pescara; giudizio dell'autore. Incertezza del pontefice
sull'opportunità della confederazione contro Cesare.
Era in questo
tempo arrivato Borbone (il quale arrivò il quintodecimo dì di novembre) alla
corte di Cesare. Circa il quale non merita di essere preterito con silenzio
che, benché da Cesare fusse ricevuto con tutte le dimostrazioni e onori
possibili e carezzato come cognato, nondimeno, che tutti i signori della corte,
soliti come sempre accade a seguitare nell'altre cose l'esempio del suo
principe, l'aborrivano come persona infame, nominandolo traditore al proprio
re; anzi uno di loro, ricercato in nome di Cesare che consentisse che il suo
palazzo gli fusse conceduto per alloggiamento, rispose, con grandezza di animo
castigliana: non potere dinegare a Cesare quanto voleva, ma che sapesse che,
come Borbone se ne fusse partito, l'abbrucierebbe, come palazzo infetto dalla
infamia di Borbone e indegno di essere abitato da uomini d'onore. Ma gli onori
fatti da Cesare al duca di Borbone accrescevano la diffidenza de' franzesi; i
quali, per questo, e più per il ritorno senza effetto di madama di Alanson,
sperando poco nello accordo, ancora che continuamente per uomini propri che
avevano appresso a Cesare si praticasse, instavano quanto potevano di fare la
lega col pontefice: a che intervenivano i conforti e l'autorità del re
d'Inghilterra, le spesse ed efficaci instanze de' viniziani. E si aggiunse una
opportunità senza dubbio grande, che in questi dì, che fu al principio di
dicembre, morì il marchese di Pescara; forse per giusto giudizio di Dio, che
non comportò che egli godesse il frutto di quel seme che aveva seminato con
tanta malignità.
Era costui di
casa di Avalos, di origine catelano; i maggiori suoi erano venuti in Italia col
re don Alfonso di Aragona, che primo di quella casa acquistò il reame di
Napoli; e cominciando dalla giornata di Ravenna, nella quale ancora giovanetto
fu fatto prigione, era intervenuto in tutte le guerre che avevano fatte gli
spagnuoli in Italia; in modo che, giovane di età, che non passava trentasei
anni, era già vecchio di esperienza. Ingegnoso, animoso, molto sollecito e
molto astuto, e in grandissimo credito e benivolenza appresso alla fanteria
spagnuola, della quale era stato lungamente capitano generale; in modo che e la
vittoria di Pavia e, già qualche anno, tutte le onorevoli fazioni fatte da
quello esercito erano principalmente succedute per il consiglio e per la virtù
sua. Capitano certamente di valore grande, ma che con artifici e simulazioni
sapeva assai favorire e augumentare le cose sue. Il medesimo, altiero insidioso
maligno, senza alcuna sincerità, e degno, come spesso diceva desiderare, di
avere avuto per patria più presto Spagna che Italia.
Confuse adunque
assai la morte sua quello esercito, appresso al quale egli era in tanta grazia
e riputazione, e agli altri dette speranza di poterlo molto più facilmente
opprimere poiché gli era mancato uno capitano di tale autorità e valore. Però
appresso al pontefice erano tanto più calde e importune le instanze di coloro
che desideravano che la lega si facesse; ma non erano minori le sue sospensioni
e debitamente, perché da ogni parte combattevano ragioni efficacissime, e da
tenere confuso ogn'uomo bene caldo e deliberato non che Clemente, che nelle
cose sue procedé sempre tardo e sospeso. Non si aspettava più da Cesare
deliberazione alcuna che assicurasse Italia: vedevasi attentissimo a pigliare
il castello di Milano, quale preso, tutti gli altri e il papa massime, che
aveva lo stato debole e posto in mezzo della Lombardia e del regno di Napoli,
gli restavano manifestamente in preda; e presupposto che in facoltà sua fusse
di opprimerlo, era molto dubitabile che e' non l'avesse a fare, o per ambizione
(che è quasi naturale agli imperadori contro a' pontefici) o per assicurarsi o
per vendicarsi; trovandosi, come era credibile, pieno di sdegno e di diffidenza
per le pratiche tenute col marchese di Pescara: e se la necessità di provedere
a questo pericolo era grande non parevano anche leggieri i fondamenti e le
speranze di poterlo fare, perché o il rimedio aveva a succedere per mezzo di
una lega e congiunzione sì potente o si aveva a disperarsene in eterno.
Prometteva il governo di Francia cinquecento lance, e ogni mese, mentre durava
la guerra, quarantamila ducati; co' quali si ragionava soldare diecimila
svizzeri. Disegnavasi che il papa e i viniziani mettessino insieme mille
ottocento uomini d'arme ventimila fanti e dumila cavalli leggieri, uscissino i
franzesi e i viniziani in mare con una grossa armata per assaltare o Genova o
il reame di Napoli. Prometteva madama la reggente di rompere subito con potente
esercito la guerra alle frontiere di Spagna, acciò che Cesare fusse impedito a
mandare gente e danari per la guerra d'Italia. Lo esercito restato in Lombardia
non era grosso, non aveva capitani della autorità soleva, essendo morto il
marchese, e il Borbone e il viceré di Napoli in Spagna; non vi era modo di
danari non abbondanza di vettovaglie; i popoli inimicissimi per il desiderio
del suo duca e per le intollerabili esazioni che si facevano dai soldati e
nella città di Milano e in tutto lo stato, il castello di Milano e di Cremona
in mano del duca; e i viniziani davano speranza che anche il duca di Ferrara
entrerebbe in questa confederazione, pure che Clemente si contentasse di
concedergli Reggio, quale a ogni modo possedeva. Da altro canto faceva
difficoltà la astuzia, la virtù degli inimici, lo essere soliti a stare
lungamente, quando era necessario, con pochi danari e a tollerare molti disagi
e incomodità, le terre fortificate in che erano e la facilità, per essere terre
in piano, da potere anche meglio ripararle e fortificarle, nelle quali potersi
intrattenere tanto che gli venisse soccorso di Germania, di qualità da ridurre
tutta la guerra alla fortuna d'una giornata; le genti della lega non potere
essere altro che genti nuove e di poco valore a comparazione di quello esercito
veterano e nutrito in tante vittorie. Aversi difficoltà di capitano generale,
non avendo il marchese di Mantova, che allora era capitano della Chiesa, spalle
da sostenere tanto peso; né potendo sicuramente commettersi alla fede del duca
di Ferrara né di quello di Urbino, che avevano ricevuto tante offese, né
potevano essere contenti della grandezza del pontefice. Tagliare male di sua
natura l'arme della Chiesa, tagliare medesimamente male l'arme de' viniziani; e
se ciascuna male, separata e dispersa, quanto peggio accompagnate e congiunte
insieme? E negli eserciti delle leghe non concorrere mai le provisioni in uno
tempo medesimo; e tra tante volontà, dove sono vari interessi e vari fini,
nascere facilmente disordini sdegni dispareri e diffidenze; e, almanco, non vi
essere mai né prontezza a seguitare gagliardamente, quando si mostra benigno,
il favore della fortuna, né disposizione da resistere costantemente quando si
volge il disfavore. Ma quello che sopratutto causava, in questa deliberazione,
difficoltà grandissima e timore era il sospetto che i franzesi, ogni volta che
Cesare vedendosi strignere offerisse di liberare il loro re, non solo
abbandonassino la lega ma ancora lo aiutassino contro a' collegati. E se bene
il re d'Inghilterra obligava per loro la fede sua, che e' non si
accorderebbono, e si trattava che e' dessino, in Roma in Firenze o in Vinegia,
sicurtà di pagamenti per tre mesi, nondimeno non si trovava mezzo alcuno da
assicurare da questa sospizione: perché non avendo essi altro fine che la
ricuperazione del re, ed essendo notorio che e' non avevano inclinazione alla
guerra se non quando non avevano speranza dell'accordo, pareva verisimile che
ogni volta che Cesare volesse consentirlo loro preporrebbono la concordia seco
a ogn'altro interesse e rispetto, anzi si conosceva che quanto fussino maggiori
gli apparati e le forze della lega tanto più inclinerebbe Cesare ad accordare
col re di Francia. E però pareva pericolosissimo partito collegarsi a una
guerra nella quale le provisioni potenti de' confederati potessino così nuocere
come giovare. Combattevano il pontefice da ogni parte con queste ragioni
gl'imbasciadori e agenti de' prìncipi ma non manco i ministri suoi medesimi,
perché la casa e il consiglio suo era diviso; de' quali ciascuno favoriva la
propria inclinazione con tanto minore rispetto quanto era maggiore l'autorità
che s'avevano arrogata con lui, ed egli insino a quel tempo assuefattosi a
lasciarsi in grande parte portare da coloro che arebbono avuto a obbedire a'
cenni suoi, né essere altro che ministri ed esecutori delle volontà e ordini
del padrone. Per intelligenza di che, e di molte altre cose che occorsono, è
necessario dichiarare più da alto.
|